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Rovesciare la macchina della violenza su chi la detiene

Publie le giovedì 12 febbraio 2004 par Open-Publishing

Che cosa è questo dibattito su violenza e nonviolenza che da tempo occupa
l’attenzione di tanti e tante di noi? Come e perché si è prodotto? Come
entra in connessione col movimento e con la sua discussione? Andiamo per
ordine. Mi è parso che il centro di questa discussione riguardi il potere e
la sua natura nel nostro tempo. Mi è parso che a partire dalla messa a
fuoco di questo punto, il dibattito si sia sviluppato attorno al rapporto
tra i mezzi e i fini e che questi due elementi siano intimamente correlati.
Quello che ci si chiede è una parola chiara sulla possibilità di pensare
alla trasformazione e alla costruzione dell’altro mondo possibile a partire
dall’idea che, la leva attraverso cui dispiegare questa possibilità sia
rappresentata dalla conquista e dall’esercizio verticale e concentrato del
potere. E’ da questa domanda e dalla risposta che ne scaturisce che deriva
l’insieme della discussione. Se infatti pensassimo ancora di poter
immaginare la rivoluzione come appropriazione del potere e per questa via
determinare in modo meccanico la liberazione e la costruzione di un mondo
migliore nessuna discussione sul rapporto tra mezzi e fini avrebbe senso.
Invece, il problema sta proprio qui. Quel "carattere retroattivo" che la
violenza esercita su chi la utilizza dice molto sul pericolo insito in una
certa idea del potere e della sua composizione materiale. Un’idea che si è
costruita nel novecento come risposta simmetrica e antagonistica
all’esercizio violento del dominio e del potere da parte del capitalismo.

Decostruire questa idea significa rompere l’attesa, significa introdurre
nell’immediato del conflitto i tratti dell’alternativa, significa in
termini radicali porre sotto critica la radice dei rapporti sociali
capitalistici a partire dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo
sulla donna, degli uomini sulla natura. E’ questa del resto, un’idea del
potere che il movimento, da Seattle in poi, ha potentemente messo in
discussione. Ma tutto questo significa anche altro. Implica rompere anche
con un’idea verticale e gerarchica dell’organizzazione modellata in fin dei
conti su un immaginario combattente, ripensare il rapporto tra
autorganizzazione, cooperazione e rappresentanza, tra governo e conflitto.
Ci propone in realtà un terreno fecondo di ricerca sulla natura della
democrazia e sulle forme stesse della politica.

Tutto il contrario insomma di un dibattito astratto e confinato in una
dimensione accademica. Del resto, se qualcuno non se ne fosse accorto, la
portata della discussione e la sua attualità è determinata da quello che
succede intorno a noi. L’irruzione della guerra nella sua forma preventiva,
globale e permanente, la naturalizzazione della violenza come forma stessa
delle relazioni sociali, punta a cancellare lo spazio del conflitto, a
sterilizzare la dimensione della politica come strumento collettivo di
trasformazione. La violenza si propone come terreno privilegiato del
potere, come strumento normativo e diffuso della globalizzazione
neoliberista.

Tutto questo, ci viene detto da alcuni, piomba dall’alto e come un macigno
sul movimento imponendo un dibattito inutile e dannoso. Trovo che questo
schema vada semplicemente rovesciato. Mi sembra che la natura della
discussione emerga dal movimento e dai conflitti che ha saputo incontrare e
moltiplicare in questi anni. Non si tratta, è fin troppo evidente, di
un’invenzione improvvisa ma semmai, al contrario, della ripresa e
dell’approfondimento di un ragionamento e di una ricerca tutta interna al
flusso vivo delle lotte. E’ proprio nella valorizzazione della radicalità
fortissima del conflitto, nella sua forza di trascinamento e di attrazione
che trova ragione questo dibattito. Non si tratta in alcun modo di
esercitare un richiamo alla compatibilità o alla passività ma di trovare lo
spazio nel quale declinare in forma attualizzata la necessità, questa si
strategica e inaggirabile, di rovesciare la macchina di violenza su chi la
detiene e la esercita in modo sempre più massiccio.

Del resto dove sta la compatibilità o la passività nelle giornate del
luglio 2001 di Genova a cui, tutti insieme abbiamo dato vita e nelle quali
migliaia di persone hanno resistito difendendo quella democrazia così
pesantemente sospesa. Dove sta nell’esperienza del Trainstopping, lotta
radicalissima e allo stesso tempo praticata in modo nonviolento, nelle
lotte dei tranvieri capaci di rovesciare l’ordine del discorso mettendo al
centro la dignità del lavoro, nella rivolta di Scansano che reintroduce
l’insubordinazione e la disobbedienza adirittura nella dimensione di
un’intera comunità disposta a mettersi in gioco contro la minaccia delle
scorie nucleari. E ancora nelle lotte per la casa che pongono al centro
un’idea altra dell’abitare e della città, nello scontro durissimo che la
Fiom conduce da tempo sulla democrazia del lavoro e contro la concertazione
con migliaia di vertenze in tutto il paese. Tutto questo parla di noi e di
quello che abbiamo concretamente praticato in questi anni, non di un futuro
lontano al quale affidare le proprie speranze. In questo qui ed ora, in
queste esperienze vissute, la disobbedienza ha mostrato una straordinaria
capacità di diffondersi, di contaminare soggetti, lotte e linguaggi diversi
tra di loro. E’ a questa eccededenza, a questa irriducibilità del conflitto
come espressione viva dei bisogni negati che si oppone, oggi, una vasta e
pericolosa ondata di repressione. La moltiplicazione degli interventi
giudiziari, di polizia, delle forme di controllo e di restrizione delle
libertà dice della necessità di riaffermare l’ordine e la legalità come
elementi statici e indiscutibili. A questo attacco il movimento deve
offrire una risposta efficace. Dobbiamo saper imporre, senza alcun passo
indietro, la legittimità del conflitto allargando e non restringendo il
fronte.

Il mondo che vogliamo non ci verrà regalato da nessuno. E’ per questo però
che abbiamo una grande possibilità. C’è un aspetto di questa discussione
che non ho affrontato e che riguarda l’indagine critica e coraggiosa su
tanta parte della storia del comunismo novecentesco. Mi chiedo ora se
questo non dipenda da un fatto molto semplice: non l’ho vissuta. Credo che
in questo dibattito e nelle possibilità che ci consegna ci sia anche il
tratto di una nuova generazione politica forse un po’ più libera di
scrivere la propria storia e il proprio futuro.