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Sentenza d’appello per Piazza Fontana, dopo 35 anni nessun colpevole
Publie le mercoledì 17 marzo 2004 par Open-PublishingPiazza Fontana e il Cile sono per la generazione del `68 e dintorni quello che il G8 di Genova, l’11 settembre di New York, l’11 marzo di Madrid sono per chi vive oggi: la scoperta della brutalità del potere, una porta violenta sbattuta in faccia alle speranze e ai sogni di un mondo migliore. Chi c’era non può non ricordare la pena per le persone uccise, il dolore quando prendeva forma la pista anarchica, il furore quando ci siamo accorti che la strage era di stato. Tutto questo si rinnova, con una rabbia resa più dolorosa dalla stanchezza, davanti alla sentenza di oggi - come il giorno della sentenza che scarcerava Priebke, come il giorno della sentenza che condannava Sofri. Il compito del giudice, ha scritto Carlo Ginzburg, è di chiudere il caso; il compito della memoria e della storia è di tenerlo aperto.
I sostenitori della pena di morte, o comunque delle soluzioni giudiziarie, dicono che l’esecuzione e la condanna portano closure - una conclusione narrativa, un epilogo, che dovrebbe donare la tranquillità d’animo ai sopravvissuti - i fatti sono conosciuti, giustizia è fatta, non se ne parli più. Non è mai vero: dopo l’esecuzione, i morti restano morti e assenti, e non c’è più neanche la prospettiva della punizione e della vendetta a focalizzare le emozioni. Ma questo è ancora più vero per le grandi ferite di questo scorcio di secolo: sempre più le istituzioni hanno delegato la storia ai tribunali, e sempre meno i tribunali sono riusciti a dare una conclusione. Il processo a Pinochet non ha risolto niente, Genova è un accavallarsi in cui il momento più tragico viene ridotto a una offensiva casualità, l’11 settembre ha generato fra l’altro il mostro processuale di Guantanamo e dei tribunali segreti, le piste seguite dopo Madrid sembrano ispirate più dall’opportunità politica che dal desiderio di verità. In tutti i casi, il caso resta aperto.
Resta aperta Piazza Fontana: ancora una volta lo stato che è responsabile politico, storico, spionistico della strage, non riesce a trovare dei responsabili individuali a cui attribuirne in modo provato l’esecuzione.
Ma il caso non è chiuso
Il compito dei giudici è questo: individuare un reato, definirne la natura giuridica, individuare singoli responsabili. Il compito della memoria e della storia è molto più vasto, perché davanti a queste tragedie i responsabili non sono mai singoli, le responsabilità non sono mai definite e nette ma sempre slabbrate, sfumate, complesse. Per questo è nostro compito recuperare il lavoro della memoria e della storia, non abbandonarlo agli strumenti limitati dei giudici, ricominciare a distinguere una verità storica e politica articolata e pur chiara nella sua complessità, da una verità giudiziaria sempre più annebbiata: chiunque ne sia stato il sicario, la strage resta di stato, è servita a colpire la rivolta studentesca e l’autunno operaio, e l’impossibilità oggi di raggiungere una certezza adeguata alle regole del diritto è anche la continuazione e la conseguenza delle menzogne e dei despistaggi che sono cominciati quando le vittime erano ancora in terra lì alla banca dell’Agricoltura. Va di moda adesso prendere ambigue assoluzioni come nitide chiusure definitive. Un’associazione mafiosa azzerata per prescrizione, una corruzione di giudici stralciata o prescritta, sono salutate come trionfi dell’innocenza, riscatti dell’onore di vittime perseguitate.
Non dobbiamo permettere che questo succeda adesso, che questa sentenza venga letta come la definitiva chiusura della ricerca della verità sulla strage di stato: siccome non possiamo dire con la necessaria giuridica certezza chi è stato, allora non è stato nessuno. Forse i colpevoli non li conosciamo, il tribunale non è stato in grado di affermare che erano gli imputati attuali, ma questo non vuol dire che i colpevoli non ci siano, e che non siano molti di più e molto più importanti di quelli che erano sotto processo oggi. E se non siamo riusciti a punirli, o non abbiamo voluto farlo, vuol dire che sicari e mandanti sono ancora in giro, avvelenano ancora la nostra vita civile, tormentano ancora la nostra memoria.
No, il caso non è chiuso. Giuseppe Pinelli è stato assassinato, e non è stato individuato nessun responsabile. Il commissario Calabresi è stato assassinato, in carcere ci sono gli uomini sbagliati e l’assassino è ancora in giro. Ma ci siamo ancora anche noi, quelli che se lo ricordano come fosse ieri e quelli per i quali è materia di storia come la resistenza e le Fosse Ardeatine. La responsabilità sta a noi: se è possibile, come è necessario, impedire che la resa giudiziaria diventi resa politica e resa morale, questo è compito nostro.
Il Manifesto