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Serve un rete di salvataggio contro il declino di Bologna

Publie le giovedì 29 gennaio 2004 par Open-Publishing

Parla Michele La Rosa, docente di sociologia del lavoro e sociologia economica all’Ateneo di
Bologna

di Patrizio Paolinelli

La decadenza economica, culturale e civile di Bologna è sotto gli occhi di tutti. Tranne di coloro
che non vogliono vedere o portano sulle spalle la responsabilità del declino e magari ci
guadagnano sopra in termini di posizioni acquisite e rendite di vario tipo. Perciò, per ottenere risposte
coraggiose e per lanciare proposte volte al superamento della stagnazione, più che ai protagonisti
della politica e dell’economia è talvolta necessario rivolgersi ad altre figure. Lo abbiamo fatto
interpellando un intellettuale: il Professor Michele La Rosa, sociologo impegnato nello studio
delle trasformazioni del lavoro e della precarizzazione.

Professor La Rosa, della crisi della nostra città si parla ormai da anni. Prima di chiederle come
si può superare può dirmi qual è la sua idea del declino di Bologna?

<Siamo in un forte momento di discontinuità. Su un piano macro stiamo passando da un modello di
città a forma di isola a un modello a forma di costellazione. Ciò significa che Bologna deve uscire
dalla propria singolarità per entrare in una intreccio di città e di territori. Su un piano micro
stiamo passando dal soggetto alla rete. Il che significa che fino a ieri lo sviluppo economico si
è concentrato sull'autonoma individualità dei singoli imprenditori e sul lavoro in determinate
nicchie con risultati lusinghieri. Ma tutto questo non basta più ed è necessario fare un salto
qualitativo verso il post-industriale>.

Cosa significa per lei la dimensione post-industriale?

<Vuol dire qualcosa di più rispetto al sistema industriale. Vuol dire una società governata dalla
flessibilità, dalla qualità, dalla conoscenza e dal concetto di rete. A Bologna questi quattro
elementi uniti tra loro non sono sufficientemente interpretati, non sono raccordati ad uno sviluppo
complessivo. Di fatto la flessibilità è una potenzialità solo nella misura in cui è una scelta sia
del soggetto sia dell'impresa. Diventa un problema di possibile emarginazione quando è subita. Un
conto è se l'azienda utilizza il contratto atipico quando ha bisogno di realizzare un progetto. Un
altro è se usa co.co.co. e lavoro in affitto solo perché costano meno. In questo caso si crea
insicurezza e non si fidelizza il personale che per l'azienda rappresenta invece una risorsa
strategica. Per dirla tutta ritengo la legge Biagi sbagliata perché non prevede ammortizzatori sociali,
non garantisce tutele e non rimodula i costi. Secondo me chi assume un lavoratore a tempo
determinato deve pagarlo di più di un dipendente a tempo indeterminato>.

E qui si innestano in maniera critica gli altri elementi della dimensione post-industriale.

<Sì. La qualità non riguarda solo il prodotto ma anche il processo, la ricerca, il lavoro. La
conoscenza vuol dire valorizzazione delle risorse umane. E in Italia gli imprenditori investono solo
se finanzia qualche ente pubblico. Al contrario, in Francia e in Germania le aziende si impegnano
in prima persona nella formazione. In un recente seminario tenuto alla Camera di Commercio dei
direttori di personale che testimoniavano la loro difficoltà a far passare l'idea che la formazione è
un investimento. Altro fattore critico: ancora oggi l'imprenditore fa fatica a passare dal self
made al concetto di rete. L'imprenditore emiliano e in parte romagnolo è molto
egoistico-individualista. Il che ha fatto la sua fortuna. Adesso da solo non ce la fa più, salvo gestire nicchie. E
questo è in qualche modo l'empasse che sta segnando Bologna>.

Come si esce dall’empasse?

questo è necessario impegnarsi nella formazione. Inoltre, per rispondere a un mercato che richiede
prodotti sempre più personalizzati è necessario che l'imprenditore esca dalla logica del profitto
immediato e orienti il suo agire sui tempi medio-lunghi capendo cosa va automatizzato e cosa
mantenere con il lavoro umano perché non tutto è trasferibile nella tecnologia. Ciò significa valorizzare
la conoscenza dei soggetti e comprendere che una fascia di personale stabile è un fattore
decisivo. Poi ci sarà anche del personale flessibile. E come accade in Giappone man mano che il personale
fidelizzato va in pensione o va via la parte flessibile ha l'opportunità di occupare posti
stabili. A tutto ciò bisogna aggiungere l'idea della rete. Concetto che significa due cose: alleanza
strategica fra imprese dello stesso territorio, ad esempio nella forma del consorzio, e valorizzazione
del capitale sociale, formula con cui si intendono le risorse formali e informali che non sono
finanziarie né lavorative in senso stretto ma riguardano l'ambiente inteso come luogo dove vivono
delle persone>.

Quali iniziative strategiche si dovrebbero adottare?

l'università che si sfrutta poco. Sembra che le imprese abbiamo molta paura. Pensi che io faccio
fatica a trovare aziende disponibili ad accogliere i miei studenti per i tirocini. Esattamente
l'opposto di quello che accade in Francia. Le istituzioni pubbliche devono essere i luoghi che creano
condizioni favorevoli affinché le imprese e la cultura possano collaborare insieme. D'altra parte,
l'università risulta sempre più essenziale per le aziende se la ricerca, lo sviluppo e la
formazione diventano fondamentali. Questo non vuol dire funzionalizzare l'università all'economia.
Significa valorizzare nelle persone capacità che gli consentono di essere validamente presenti anche nei
lavori che cambiano. Significa trasmettere competenze di base su cui attivare delle capacità
specialistiche che però possono variare perché si ha l'abilità di aggiornarsi permanentemente e
rapidamente>.

Sul piano immediatamente pratico cosa propone per uscire dal declino?

<Bologna> .

C’è un modello a cui Bologna potrebbe rifarsi?

Italia, Veltroni e Chiamparino (rispettivamente: sindaci di Roma e Torino, ndr) su alcune
iniziative sono orientati in questa direzione. Ma senza andare troppo lontano anche in Emilia-Romagna ci
sono dei comuni medio-grandi che tentano un disegno strategico all'interno del quale sono alleate
istituzioni, cultura e impresa. Nel passato la stessa Bologna attuava, almeno in parte, questa
strategia. E da lì è nato un modello. Oggi, a Bologna ogni istituzione è un isola a sé. Dagli studi che
facciamo su questa città ci rendiamo conto che mancano sempre più elementi di solidarietà, valori
comuni che diano luogo a scelte collettive>.