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Sette anni fa se ne andava Fela Kuti, grande musicista e attivista nigeriano
Publie le lunedì 2 agosto 2004 par Open-Publishing
di Pablo
Trincia
In ricordo di Fela
E’ vero, quando si racconta la storia di qualcuno in genere si comincia dal giorno
in cui è nato. Alcune persone tuttavia raggiungono, nel corso della loro vita,
un tale livello di importanza e grandezza che per raccontarle si può anche iniziare
dal loro funerale. E’ il caso di Fela Kuti, musicista che ha cambiato la storia
della musica moderna africana, ma anche grande attivista politico negli anni
di sanguinose dittature militari.
Una folla immane si è riunita nel sobborgo di Ikeja, a Lagos, per porgergli l’ultimo
saluto una mattina di sette anni fa, quando un male incurabile se l’è portato
via, assieme al suo estro e alla sua sregolatezza. Le cronache di allora parlarono
di decine di migliaia di persone, forse addirittura un milione, di tutte le estrazioni
sociali ed età, unite nel ricordo di un grande artista che con la sua musica
e le sue idee ha colpito al cuore la gente.
Gli anni Trenta stanno volgendo al termine quando, in una famiglia intellettuale benestante di etnia Yoruba, nella città di Abekouta, nasce Fela Ramsome Kuti. Il padre è un Pastore di una chiesa locale, la madre un’attivista politica.
Nel 1958, a vent’anni, il giovane Fela è su un aereo diretto nientemeno che a Londra, dove i suoi l’hanno mandato a studiare medicina, seguendo la strada tracciata dai fratelli maggiori. Vogliono vederlo tornare in Nigeria con indosso un camice bianco, uno status e mani capaci di maneggiare un bisturi. Invece, quattro anni dopo, all’aeroporto della capitale vedono tornare un uomo che veste camicie sciancrate, si vanta del poco nobile epiteto di ’musicista’ e maneggia qualsiasi strumento che non abbia a che fare con una sala operatoria.
Affascinato dal jazz, Fela si getta a capofitto nella musica, che in Nigeria è ancora molto legata a tradizioni antiche, nonostante comincino a sorgere nuovi generi, come il juju di Tunde Nightingale e di Sunny Adè.
Un viaggio negli Usa e uno in Ghana gli cambieranno la vita e all’inizio degli anni 70 il ragazzo di Abekouta s’inventa un gruppo e uno stile musicale assolutamente innovativo: gli Africa70 e l’afrobeat, il funky in chiave africana, con un retrogusto politico nemmeno troppo velato.
Il successo è rapido. I dischi vanno a ruba.
Sono gli anni di indipendenze, di redenzioni, di speranze, di nuove idee e ideologie. Gli anni dell’Africanismo, delle Pantere Nere, della Negritude, ma anche della guerra civile e di un susseguirsi di dittature militari.
E di repressione.
Fela, che ora si fa chiamare Anikulapo, si divide tra l’attivismo politico e le bettole dove ogni sera si ritrova la feccia dei sobborghi di Lagos: gangster, prostitute, ubriaconi spacciatori. La gente più cruda, ma anche quella più viva. Lo adorano e lui è un vero animale da palcoscenico: torso nudo, microfono in una mano, spinello nell’altra, Fela parla come un politico tra uno swing e un colpo d’anca, con un’unica, fondamentale differenza: i politici non ti fanno saltare sulla sedia alle tre di mattina con un assolo di sassofono.
"Fela era in grado di elettrizzare l’aria, le sue performance erano davvero incredibili", ricorda da New York Viviane Goldman, giornalista e storica della musica nera che l’ha conosciuto durante alcune sue tournèè. "Non erano concerti, bensì veri e propri show, che ti catturavano in ogni senso. Ti ritrovavi lì, in mezzo a un mare di gente che esplodeva a ogni suo gesto o parola".
Fela Kuti, l’uomo della notte, amante delle donne e di ogni eccesso. Le sue gesta, pazze e mirabolanti o politiche e ideologiche, fanno versare ettolitri di inchiostro sulle pagine dei tabloid nigeriani, ossessionati da ogni singolo battere di ciglia del Black President, capace di sposarsi con ventisette donne contemporaneamente, di fare il verso a temutissimi colonnelli e di fondare una comune, la Kalakuta Republic, dove per anni hanno convissuto sesso, marijuana e afrobeat.
La politica, si diceva. Fela Kuti ci sguazza e, come voce fuori dal coro, non smette di denunciare apertamente i soprusi, la corruzione, lo sfruttamento. Pagando di tasca sua. Come quella volta in cui un gruppo di uomini armati mette a ferro e fuoco la Kalakuta Republic, gettando sua madre di peso fuori dalla finestra. Morirà dopo diversi mesi di agonia.
Ma Fela non si scompone. La fa seppellire, poi dissotterra la bara e la deposita insieme al suo seguito fino alla scalinata d’ingresso della Giunta Nigeriana.
Nel 1980 Fela fonda un partito, il Movement of the people (Movimento della gente), al quale i militari di Lagos decidono di tarpare le ali.
Ma nulla possono contro gli show di Anikulapo (in lingua Yoruba significa Colui che tiene la morte in tasca), che fa impazzire i fan nello Shrine, il suo locale, dal quale ogni notte escono le note di un funk sovversivo e ribelle.
Presto tutti si rendono conto che non c’è più nulla da fare contro questo artista, amato dal popolo e strafottente. Kuti vince sempre con la sua musica. Dal carcere o dall’ospedale, dove finisce diverse volte per le percosse degli sgherri che i suoi ’amici’ politici gli inviano di tanto in tanto.
Nei primi anni Novanta, alcune strane chiazze gli compaiono sul corpo.
E’ la morte, travestita dall’incurabile virus dell’Hiv, che fa capolino dalla sua tasca, comunicandogli che il tempo sta per scadere. Kuti non se ne cura, trovando parole di disprezzo anche per il male invisibile che lo sta portando sotto terra.
E’ il 2 agosto del 1997, quando esala l’ultimo respiro, divorato dall’Aids, l’unico capace di realizzare quello che nessun uomo aveva potuto. Farlo tacere.
"Fela Kuti è stato un uomo molto coraggioso", racconta Femi Osofisan, regista e drammaturgo nigeriano. "Aveva un talento infinito. Il suo merito è stato quello di metterlo generosamente al servizio del suo popolo".