Home > Silenzi politici Perché i partiti non rispondono nel merito ai movimenti?

Silenzi politici Perché i partiti non rispondono nel merito ai movimenti?

Publie le venerdì 13 agosto 2004 par Open-Publishing

Le domande inevase del movimento

di ALBERTO CASTAGNOLA*

Nei dibattito sulla «sinistra radicale» istruito dal manifesto si incontrano alcuni riferimenti piuttosto sommari al ruolo del movimento nelle ultime elezioni e alle funzioni che secondo alcuni dovrebbe svolgere nella costruzione della sinistra, peraltro non ben specificata quanto a obiettivi e contenuti. Forse alcune considerazioni sul peso e il valore del movimento possono essere utili e qualche altro contributo potrà ulteriormente approfondirle. Se per movimento ci riferiamo a quello definito prima e dopo Genova (in realtà iniziato già nel 1994 e pienamente affermato in sintonia con quello internazionale fin dal 1999) da almeno 17 organizzazioni di entità e storie molto diverse tra loro, non si può certo credere che i loro aderenti non avessero mai votato prima e che molte centinaia di migliaia di nuovi elettori abbiano contribuito a formare quel 15% di cui si parla con una certa approssimazione. Anche tenendo conto del fatto che per la prima volta negli ultimi venti anni una nuova leva abbia cominciato a «fare politica» a partire dal 2001, moltissimi dei votanti si sono riferiti ai partiti dell’opposizione già esistenti e altri hanno continuato a non votare pur essendo attivissimi sul piano locale, sociale e internazionale. Se pensiamo a 50 o al massimo a 100.000 voti «emergenti», forse le ansie di immediato accaparramento da parte della sinistra andrebbero ridimensionate.

Analizzati sul territorio (liste civiche e candidati indipendenti nelle liste dei partiti di sinistra) i risultati delle ultime elezioni e di quelle precedenti vanno nella stessa direzione. Pochi eletti «di movimento», pochi voti a esso riconducibili, scarse mobilitazioni a favore di «entrate» nei partiti tradizionali. In altre parole, il movimento nel suo complesso, con poche eccezioni ben note e spesso poi molto deludenti, non manifesta, a livello di organizzazioni e fermo restando la libertà di voto individuale, un particolare interesse per l’impegno elettorale tradizionale. Tutto ciò è d’altronde coerente con il giudizio negativo continuamente espresso sulla politica «politicante» e sulla distanza di gran parte delle strutture partitiche da molti dei problemi più rilevanti e urgenti a scala internazionale, valore delle guerre in primo luogo.

Di ben altro peso sono invece le caratteristiche del movimento quando si passa ai contenuti e alle scelte di principio e di prospettiva, anche se la conoscenza che se ne ha all’esterno è confinata a pochi intellettuali particolarmente curiosi. Intanto si può affermare che il campo di interesse suscitato dalle iniziative e dalle idee del movimento (pur con tutte le confusioni, le differenze e le imprecisioni che ancora lo contraddistinguono) è al contrario molto vasto. E’ corretto ricordare gli oltre due milioni di persone che con l’acquisto e l’esposizione delle bandiere della pace hanno espresso con chiarezza la loro opposizione a tutte le guerre? Non si deve però dimenticare che non tutte queste persone sono dei militanti impegnati e che la presentazione estemporanea di una propria concezione non comporta automaticamente il passaggio a un impegno quotidiano e duraturo sui temi internazionali. Inoltre il movimento è sicuramente in ritardo perché già da tempo si sarebbe dovuto rivolgere al «popolo delle bandiere» per sollecitarne il passaggio a una militanza attiva.

E ancora, se si analizzano bene i dati dell’ultimo referendum (dove si è registrato un impegno «tiepido» di molti partiti e sindacati) si può pensare che almeno altri due milioni di persone hanno espresso una posizione senza fare riferimento alle indicazioni delle forze politiche tradizionali? Se ciò è vero, si è in ritardo sia sulla verifica quantitativa e territoriale di questa ipotesi, sia, specie da parte del movimento, sulla individuazione e sul contatto con fasce di popolazione potenzialmente disponibili a riaprire i processi di partecipazione attiva e responsabile tanto desiderati.

Il movimento, invece, ha elaborato una chiara e netta opposizione al pensiero neoliberista e dà giudizi senza appello sui meccanismi della globalizzazione e sulle conseguenze terribili che sta avendo su più di tre miliardi di persone, mentre sottolinea continuamente con la presenza sotto le sedi decisionali internazionali la mancanza di qualunque segnale di spinta politica verso politiche innovative nei confronti di povertà, malattie, fame, danni ambientali. Non si tratta di posizioni puramente ideologiche ma di constatazioni realistiche dei meccanismi in atto. La sinistra che cerca di unificarsi ha intenzione di accettare almeno in parte queste analisi, o quanto meno di verificarne l’attendibilità? Senza questa disponibilità al confronto ogni calcolo elettoralistico è costruito sulla sabbia. Il movimento è ben cosciente che per partiti e sindacati questa eventuale svolta non può verificarsi in pochi giorni e che quindi si tratta di avviare un percorso di mesi e di anni, molto complesso, la cui posta però è la ricostituzione dei canali della partecipazione di massa.

Vi è poi una serie di temi che il movimento ritiene prioritari e che vuole siano affrontati in concreto. Prendiamo ad esempio la riforma dell’Onu, questa entità ormai vaga e sfuggente tante volte invocata. Si tratta di studiare nuove formule, di spingere per alleanze diverse tra Stati, di rimodellare la partecipazione delle popolazioni, specie di quelle finora quasi totalmente escluse. Si vuole entrare nel merito? Altrimenti il movimento cercherà di giungere a delle conclusioni seguendo i propri percorsi già avviati in vista del Social Forum di gennaio.

Considerazioni analoghe valgono per il commercio internazionale, per i sussidi alle agricolture ricche, per le politiche di controllo dei movimenti finanziari, per il debito estero del Sud, per citare solo quelli che più drammaticamente colpiscono le popolazioni escluse dai mercati.

Le campagne che il movimento porta continuamente all’attenzione dei governi e dei mezzi di comunicazione (relative alle materie prime, alla tassazione delle operazioni finanziarie, agli interventi sanitari radicali contro le peggiori epidemie, alla denuncia dei coinvolgimenti con la produzione e la vendita di armi, ecc.) sono altrettante richieste di modifiche delle strategie di lotta contro i mali curabili dell’umanità. Qualche forza politica vuole rispondere, vuole inserirle secondo le proprie modalità nei suoi programmi? Il movimento è disponibile ai confronti corretti, ma devono cominciare subito, perché la situazione internazionale si aggrava continuamente.

Infine, qualcuno si è reso conto che, sia pure in forme ancora imprecise e superficiali e mentre continua le sue lotte, il movimento ha iniziato a elaborare modelli di evoluzione, alternativi rispetto a quello dominante? Forse sono l’unica strada percorribile rispetto alle forze soverchianti e al potere militare concentrato in poche mani, ma comunque devono essere ancora molto approfonditi. Oltre ad alcuni intellettuali più militanti, vi è qualche interesse, da parte di chi ancora crede in una sinistra più dinamica e innovatrice, ad aprire sedi di riflessione e dibattito, che non mirino però ad ottenere vantaggi immediati in una prospettiva limitata alle scadenze del prossimo anno?

*collaboratore Rete Lilliput

http://www.ilmanifesto.it