Home > Sinistra, il radicalismo rimosso
A partire da un confronto con Vittorio Foa, la necessità di ripensare criticamente gli anni ’70
Il tema della sinistra radicale, discusso a più voci su "Il Manifesto", può essere inquadrato in una riflessione sul radicalismo degli anni ’70 (1968-1977). Ho iniziato, nel giugno scorso, a parlarne con Vittorio Foa, secondo cui radicalismo non è solo domanda di radicalità, di un nuovo spazio di azione, un’accelerazione dei tempi, un mutamento della realtà attraverso rivendicazioni che toccano tutto il modo di vivere; ma è anche farsi soggetto della trasformazione; rivendicare in se stessi la molla e la responsabilità del mutamento: «Le cose che vogliamo le abbiamo dentro di noi e tocca noi farle. Non sono radicale perché ho idee radicali, ma perché vedo in me stesso un soggetto impegnato a realizzare le cose che voglio, senza deleghe».
In Un dialogo, avuto lo scorso anno con Carlo Ginzburg (ed. Feltrinelli), Foa ha proposto questo significato del radicalismo come chiave di lettura del suo passato. Per cambiare la realtà, occorre conoscere se stessi e sapere che la possibilità di un mutamento «richiede che io intanto cambi un pochino me stesso: se non cambio me stesso non cambio niente fuori di me».
Su questo tema dovrò tornare con Foa e ancor prima con me stesso, perché la sua attenzione è stata attratta da due riforme istituzionali, mancate proprio per assenza di questo radicalismo: quella del sindacato di polizia (una riforma che doveva partire non da una normativa diversa sul modo di fare della polizia, ma dall’interno, nel senso che gli stessi poliziotti dovevano fare la riforma del loro lavoro, del loro ruolo nella società); quella della magistratura: «I giudici avrebbero potuto difendere il tentativo di emanciparsi dall’ipoteca dei partiti rivendicando i diritti della giustizia, che invece è rimasta quello che era. La riforma morale non bastava, avrebbero anche dovuto lavorare di più, studiare di più. Il radicalismo in questo caso voleva dire che i giudici dovevano farsi soggetto della trasformazione anziché limitarsi a utilizzare la libertà che loro era concessa finalmente dai partiti di fare le sentenze che volevano».
L’incontro con Foa, come già detto, riguardava un altro radicalismo: quello delle fabbriche, che, negli anni ’70 investì l’organizzazione e l’ambiente del lavoro, il sistema degli incentivi; impose l’eliminazione delle gabbie salariali, avviò la perequazione tra impiegati e operai; riguardava la contestazione studentesca, che dalla critica alla scuola era passata alla critica alla cultura autoritaria presente nella famiglia, nei poteri forti dello Stato, per poi sfociare nella critica alla fonte principale dell’autoritarismo, cioè alla fabbrica, dove i temi della divisione del lavoro, della gerarchia sociale, sono vissuti in maniera diretta.
Il rifiuto della disuguaglianza salariale e professionale, la rivendicazione del diritto alla salute, la contestazione della disumanizzazione dell’individuo, della spersonalizzante gerarchia, la critica all’apparente neutralità del diritto e della scienza sfociarono in riforme istituzionali che - sebbene indirizzate anche a controllare e a sanzionare i movimenti di critica insubordinazione - incisero positivamente in tutti i livelli della società: lo Statuto dei lavoratori, il nuovo diritto di famiglia, l’introduzione del divorzio e dell’aborto, la riforma carceraria, la riforma della polizia, la riforma sanitaria, l’abolizione dei manicomi, la nuova disciplina ambientale.
Di questi movimenti non rimane traccia nella memoria collettiva. Vi son solo atti processuali e cronisti giudiziari autoproclamati storici, che hanno pazientemente e diligentemente operato per una rimozione-ripudio della contestazione operaia e studentesca, pericoloso precedente per qualsiasi assetto di potere: secondo un consolidato senso comune, dalle rivendicazioni dei cortei e dei picchetti di quegli anni sono derivati la crisi di rappresentanza delle organizzazioni del movimento operaio in fabbrica e nella società, la disaffezione al lavoro e allo studio, lo scadimento della professionalità, il disordine nei servizi pubblici a danno della mitica utenza, il dilagare della criminalità comune e politica (favorite, anche, dall’esasperato garantismo predicato e attuato da giuristi di dubbia lealtà democratica). E’ di estremo interesse il filo rosso che ha legato scomunica politica e intervento repressivo dello Stato, esclusione dall’area del politicamente tollerato e ingresso nell’area del giuridicamente trasgressivo. C’è da chiedersi se di questa cultura vi sia un’eco anche nel suindicato dialogo tra Ginzburg e Foa, laddove il primo dice: «Io credo che il terrorismo sia stato torbidissimo e si sia alimentato di molte cose. Ma si è alimentato anche di uno stato d’animo diffuso in parte della sinistra, che ha trovato un’espressione molto anomala nella tua riflessione. Insomma, per capire la differenza specifica di quei tuoi scritti del 1976-1977 devo partire anche dal terrorismo circostante. La contiguità cronologica configura un contesto esplicativo».
C’è quindi il bisogno innanzitutto di una riappropriazione del significato storico, sociologico, politico di quegli anni, di una riflessione collettiva, per ricordare, analizzare, criticare, autocriticare. Va poi esaminato se la rivisitazione degli anni ’70 si risolva in un’opera "archeologica" di ricerca ed esame di idee superate, indissolubilmente legate al passato o in un’azione politica che rimetta in circolazione - depurandole di quanto volutamente inquinante vi è stato immesso - la loro carica propositiva, la loro forza di rinnovamento, la loro capacità di ricomporre un’opposizione di sinistra. Ciò è tanto più necessario perché gran parte di essa è in fase di stagnazione, senza idee, senza identità politica e culturale, attratta dalla mitologia neoliberista e dall’individualismo che vi è collegato.
E i movimenti giovanili di oggi in che limiti si pongono in continuità con la contestazione di quegli anni? Nel rispondere a questi interrogativi non è di secondario rilievo richiamare le diversità storico-politiche: innanzitutto, sulla via per una società più giusta ci si imbatte in leggi prodotte dai governi sostenuti dal "moderno" centrosinistra o da questo valutati con "critica benevola", in virtù di evidenti contiguità (es. norme sulle pensioni, sul lavoro, sugli extracomunitari). Non è chiaro se tutta la sinistra sia per il "meno Stato, più mercato" o per il "più Stato nel mercato" (vedi Galapagos del 30 luglio). Negli anni ’70 non c’erano dubbi sulla ostilità per la guerra nel Vietnam, oggi si cincischia sull’essere o non essere in Iraq, ridimensionando l’immediata efficacia vincolante dell’art. 11 della Costituzione.
In conclusione, per cambiare la realtà, è bene che la sinistra conosca e cambi (un pochino?) se stessa.
Antonio Bevere, direttore di "Critica del diritto"