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Soldati italiani allo sbaraglio

Publie le venerdì 27 febbraio 2004 par Open-Publishing

Militari allo sbaraglio. Senza uno straccio di trattato internazionale che
dia loro legittimità e copertura. Una missione nata da una bugia - spiegò la
diessina Silvana Pisa alla Camera il 16 luglio - del ministro degli Esteri
Franco Frattini quando qualificò come «fondamentalmente umanitaria» la
missione italiana, affermazione smentita dall’amministrazione statunitense
che definiva il nostro paese una «forza di stabilizzazione». Quasi tremila
uomini che dal 15 luglio 2003 operano nella provincia irachena di Dhi Qar
sulla base soltanto di un documento tecnico firmato dal Capo di stato
maggiore della difesa. E niente più.

Facciamo un po’ di cronologia. Il 21 giugno si imbarca per l’Iraq il grosso
del contingente italiano, senza che ci sia alcun atto formale ad
autorizzarne la partenza. Il governo Berlusconi emana un decreto legge
soltanto il 10 luglio, venti giorni dopo: «Interventi urgenti a favore della
popolazione irachena» recita il titolo. Nel sincopato dibattito che ne
seguirà in Parlamento, l’esecutivo evita accuratamente di rispondere alle
domande delle opposizioni. Di spiegare in base a quali accordi o trattati
vengano inviate le truppe. Nel decreto si parla di un contingente che deve
fornire una «cornice di sicurezza» all’intervento umanitario. «Ma per
l’intervento umanitario c’erano solo 23 milioni, contro 230 per la missione
militare: un rapporto di uno a dieci», commenta Franco Angioni, ex
comandante delle truppe italiane in Libano, oggi deputato dei Ds.

Prima ancora che la Camera inizi la discussione del decreto, il 15 luglio in
Iraq c’è quello che i militari chiamano TOA, «transfer of authority». Le
truppe italiane vengono poste sotto il comando di un generale inglese, il
maggior generale Graeme Lamb, capo della Multi-National Division (South
East). I militari, in verità, non parlano di «comando», ma di un eufemistico
«controllo operativo» da parte degli inglesi. Ma è lo stesso: gli ordini sul
terreno i nostri li ricevono dagli inglesi. Si tratta di un passaggio
pressoché alla cieca. Nessun accordo politico che lo autorizzi è mai stato
discusso né tantomeno firmato. Il TOA firmato dal generale Mosca Moschini,
capo di stato maggiore della difesa, è un segreto gelosamente custodito. Ma
è certo singolare che una «missione umanitaria» venga definita soltanto da
un documento tecnico-militare. Non c’è traccia neppure del decreto del
presidente del Consiglio che avrebbe dovuto disciplinare l’attività di
coordinamento e di organizzazione della missione umanitaria. Eppure ne
chiedeva conto al governo l’onorevole Valerio Calzolaio ancora lo scorso
luglio. Silenzio.

Dipendere dagli inglesi significa essere sotto il comando americano. La
divisione britannica (dove, oltre agli italiani, ci sono lituani, rumeni,
coreani ed altri) è a sua volta subordinata alla statunitense della Cjtf
(Combined Joint Task Force) 7 del generale Ricardo S. Sanchez. Che non fa
assistenza umanitaria, ma è in Iraq per combattere una guerra. Lo dice,
senza perifrasi, il sito internet ufficiale del comando: «CJTF-7 conduce
operazioni offensive per sconfiggere le residue forze nemiche e
neutralizzare le influenze destabilizzanti».

«In Iraq, oggi ci troviamo in una condizione di grave sudditanza che non fa
onore al nostro Paese» commenta Angioni. Che aggiunge: «Un trattamento che
le nostre forze armate francamente non si meritano. In termini numerici il
nostro contingente è il più numeroso dopo quelli americano ed inglese, ma
non ci è stata affidata alcuna responsabilità».

Pensa, evidentemente, alla Polonia che come gli inglesi ha il comando di una
divisione.Tutte le altre operazioni militari nel mondo a cui partecipa
l’Italia (e sono ben 21) sono giustificate da un accordo, da una
risoluzione dell’Onu, da una decisione della Nato. Per l’Albania c’è un
protocollo tra i governi, per la Joint Guardian in Bosnia c’è l’impegno
della Nato, l’Unmee opera tra Etiopia ed Eritrea sotto comando dell’Onu, e
così via. Solo per l’Iraq non vi è traccia di un solo atto politico tra il
nostro governo e quelle che la risoluzione dell’Onu del 23 maggio definisce
«potenze occupanti», cioè Stati Uniti e Gran Bretagna.
Una missione nata tra le reticenze e le bugie, per non dover dire che i
nostri soldati andavano alla guerra.

l’Unità