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Testimone, non target
di MARIO BOCCIA
Le notizie diffuse in questi giorni da il Riformista, che potevo essere io l’obiettivo del commando che il 7 settembre scorso ha sequestrato le «due Simone», Manhaz e Raad, mi sconvolge. Già dal momento successivo alla notizia del rapimento vivo un irrazionale senso di colpa per il semplice fatto di non essere stato lì con loro in quel momento. Un sentimento forte che si impone tanto sul sollievo per lo scampato pericolo che sulla evidente «inutilità» di una mia presenza in quel momento drammatico. La mia preoccupazione più grande oggi è di non danneggiare con qualsiasi dichiarazione, magari forzata o distorta, come spesso accade, gli sforzi per ottenere un immediato rilascio dei quattro sequestrati in pericolo di vita. Tutto il resto oggi non conta. Per questo ho deciso di non rilasciare più interviste che non sia in grado di controllare, parola per parola. Non ho elementi per giudicare o verificare la veridicità delle fonti usate dai colleghi del Riformista. Posso solo rivisitare momento per momento i tredici giorni vissuti a Bagdad, dentro e fuori la «casa degli italiani».
Sono arrivato a Baghdad per realizzare un servizio fotografico sulle attività legate all’infanzia del Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics), organizzazione umanitaria che condivide con «Un Ponte per» e «Intersos» la «casa degli italiani». Non è mai stata mia intenzione usare la copertura «umanitaria» per fare il mio mestiere di giornalista free-lance. Non ho mai fatto niente che esulasse da questo impegno, incluso accedere, nemmeno per un istante, nella «green zone» o nell’albergo Palestine, notoriamente frequentato da giornalisti di tutto il mondo. Con gli operatori locali dell’Ics, con quelli di «Terre des hommes-Italia» e con Simona Pari del «Ponte per» ho visitato una scuola vicina al quartiere di Sadr-city e un centro di attività educative per ragazzi nel quartiere di Bataween. Nel tempo trascorso a Bagdad, sono stato testimone di tre cose, sulle quali ho scritto in prima persona.
1) L’estrema difficoltà di muoversi per realizzare immagini in un contesto nel quale il sentirsi «target», guardato con diffidenza dalle persone in strada, o, peggio, avvertire che la mia stessa presenza potesse essere un rischio aggiuntivo per iracheno che si offrisse di accompagnarmi. Come se non bastassero i rischi che tutti i cittadini di Baghdad corrono comunque, nella costante incertezza del futuro che caratterizza la non-vita dei civili in quella città. Questa realtà ha finito per condizionare tutti i miei comportamenti, fino a farmi muovermi come se fossi io stesso «una spia», sospettoso di tutto, nonostante la chiarezza delle mie intenzioni. Questo significa che la guerra si impone su tutto e ti trasforma in altro da quello che sei, tuo malgrado.
2) L’efficacia del lavoro svolto da «Un Ponte per», organizzazione storica del volontariato italiano in Iraq, testimoniata dal legame profondo delle sue operatrici con i beneficiari dei progetti da loro gestiti. Ho visto le due Simone muoversi come fossero «pesci nell’acqua», amate e rispettate dalle persone che erano in contatto con loro. La loro «sicurezza» è stata, fino al momento del sequestro, garantita dalla trasparenza del loro lavoro. Nessuno di loro si è mai sognato di lavorare sotto scorta militare, circostanza che avrebbe intorbidito il loro ruolo nei confronti delle popolazioni civili e rappresentato una evidente contraddizione con la linea di condotta dell’organizzazione alla quale facevano riferimento.
3) L’episodio dei due missili lanciati contro la «casa degli italiani», mi ha visto testimone e sopravvissuto per caso all’esplosione. Uno degli ordigni è caduto inesploso su un deposito di medicinali del vicino ospedale oftalmico. L’altro è caduto a dieci metri da noi, che cenavamo in cortile, alle undici e quaranta di sera, nel cortile della abitazione civile vicina alla nostra. Se tra noi e il luogo dell’impatto (segnato da un cratere largo e profondo un metro), non ci fossero stati una macchina, due muri di recinzione e una catasta di banchi di scuola addossati alla parete, il giorno seguente i titoli dei giornali, le interpretazioni e le ipotesi sull’episodio sarebbero state di tutt’altro genere.
Non ho elementi per giudicare se si sia trattato di un attentato o di una «casualità». La mia opinione a riguardo vale quanto quella degli altri testimoni. Posso solo aggiungere che avere avvertito distintamente i due colpi in partenza, seguiti pochi attimi dopo dall’esplosione, mi fa dedurre che i colpi non siano stati sparati da una distanza eccessiva dal luogo dell’impatto. I resti dell’ordigno sono stati immediatamente portati via da militari americani immediatamente arrivati sul luogo. Solo loro possono, a questo punto, chiarire di che tipo di arma si sia trattato.
Ogni mio presunto dissidio con le ragazze rapite circa la valutazione dell’episodio e la sicurezza del vivere e lavorare oggi a Baghdad è frutto di illazioni giornalistiche. E’ fin troppo ovvio che la loro esperienza vale di più della mia.
Posso solo aggiungere una valutazione personale.
Credo che l’estrema confusione linguistica provocata da chi definisce «umanitaria» una guerra e «operatori di pace» tutti i militari, ostacola e mette il pericolo il lavoro di chi «operatore di pace» lo è davvero. Il risultato ottenuto da chiunque abbia organizzato il sequestro, allo stato dei fatti, è quello di avere ostacolato o interrotto il lavoro di quanti si interponevano tra i combattenti con azioni di pace e riconciliazione, anche a rischio della propria incolumità personale.
* giornalista - free-lance