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TOBIN, CHI ERA COSTUI? fisco e spartizione capitalistica del plusvalore

Publie le domenica 11 luglio 2004 par Open-Publishing

Dazibao


di Gianfranco Pala

Proposta, 27, Milano 1999

Esercitandosi in un nuovo gioco che intende seguire le evoluzioni in volo del denaro mondiale ­ il cosiddetto flying capital ­ la "sinistra democratica" internazionale, oltre a essere impreparata, non sa essere abbastanza maliziosa: cerca infatti di colpire separatamente la speculazione di contro alla produzione, il che non solo è utopico ma sbagliato. Questa sinistra borghese degli "economisti illuminati", come la denotava Marx, non essendo capace di individuare la comune fonte del plusvalore, crea confusione e rischia perfino di favorire il ricompattamento del fronte borghese in crisi, riportando alle "regole" del grande capitale transnazionale anche l’aristocrazia finanziaria sfuggita al suo incondizionato controllo e in conflitto con esso: cosicché sia sempre il proletariato mondiale ­ la classe che col suo pluslavoro produce e fa circolare quel plusvalore complessivo ­ a farne le spese.

In effetti ­ fin dal 1848 del Manifesto comunista, di cui si mutuano qui le formulazioni ­ uno dei limiti storici di codesta sinistra è sempre stato di volere le condizioni di vita della società civile costruita sul modo di produzione capitalistico senza gli "inconvenienti" del capitalismo stesso: la contraddizione economica sociale e politica è ignorata: "il loro socialismo consiste appunto nell’affermare che i borghesi sono borghesi ­ nell’interesse della classe operaia". Del resto, anche Gramsci avvisava di considerare quella componente democratica come l’ala sinistra progressista della borghesia e non come l’ala destra moderata del proletariato. La qual cosa, certo, pone il problema non facile delle alleanze necessarie in fasi critiche della storia sociale, e quindi anche quello della possibilità, in tali difficili circostanze, di reputare perfino migliore e più seria la prima della seconda. Tuttavia è necessario preliminarmente chiarire la differente prospettiva di classe da cui
ci si pone.

Le osservazioni che precedono possono risultare apodittiche se non vengono argomentate convenientemente. Si può perciò provare a fornire tali argomentazioni ­ dal punto di vista dell’analisi marxista, s’intende, sempre che sia questa la base teorica che i comunisti ritengono di seguire per dare fondamento scientifico alla lotta di classe ­ per riuscire a giudicare correttamente le determinazioni economiche che ne stanno alla base. Nel caso del "parassitismo dei rentiers" è bene precisare, innanzitutto, che sono propriamente i capitalisti operanti i primi interessati a ridurre alla ragione gli "autonomi della speculazione", e questo dialetticamente proprio per non far dileguare la speculazione stessa. Ecco allora donde viene la spinta per una nuova "regolazione" dell’economia mondiale, fino alla formale tassazione della rendita finanziaria speculativa e dei cosiddetti capital gains. Non è male cercare di capire come e perché.

La formula più seguìta per rincorrere siffatta regolazione è quella della tassa proposta da James Tobin. Non per niente Tobin fu capo degli economisti di John F. Kennedy (inizio anni ’60) e poi premio Nobel (1981): che nessuno di questi due "titoli" sia insegna di comunismo, ma neppure di semplice difesa degli interessi del proletariato, nessuno può disconoscerlo. Fu proprio nel mezzo del cammin della sua vita ­ nel 1972, all’acme della manifestazione della crisi esplosa a metà del decennio precedente ­ che il dr. Tobin pensò alla tassazione dei guadagni speculativi derivanti dagli arbitraggi sulle operazioni effettuate in valuta (ossia, sulle crescenti possibilità degli "operatori finanziari" di lucrare sulle differenze e sulle oscillazioni dei cambi in connessione alle operazioni di compravendita, sempre più fittizie, di valute estere e di titoli denominati in tali valute contro altre valute).

Questo era il quadro di una fase in cui, dopo la crisi reale da sovraproduzione, di fronte all’incipiente pressione della pletora di denaro (capitale monetario), il capitale finanziario propriamente detto ­ quello controllato dalla grande borghesia industriale transnazionale ­ cominciava le proprie manovre per cercare di contenere l’autonomizzazione degli avventurieri della speculazione borsistica. L’iniziativa "kennediana" (e post-rooseveltiana) di Tobin si colloca in tale quadro. Senonché, mentre la borghesia capitalistica andava avanti col suo "pensiero" ­ non tanto "unico", quanto da secoli dominante (è principio elementare che "l’ideologia dominante è l’ideologia della classe dominante") ­ la "sinistra democratica" si adagiava in quella sorta di bis-pensiero unico, ispirato ai maîtres à penser di Le monde diplomatique, caratterizzato per non essere altro che il "doppio" di quello stigmatizzato come "pensiero unico", tutto interno alla conservazione del modo di produzione
capitalistico senza i suoi "inconvenienti".

L’iniziativa che va sotto l’acronimo di Attac ­ che anzitutto è emotivamente significante, la qual cosa sempre tanto piace ai francesi, e che poi sta per "Azione per una Tassa Tobin di Aiuto alla Cittadinanza" ­ potrebbe essere commentata proprio fin dalle parole scelte per "significare" l’acronimo medesimo. Se ne potrebbe additare ­ ai comunisti per primi, e forse solo a essi, giacché ai progressisti democratici la faccenda non li riguarda ­ la disinvolta noncuranza per alcuni consigli del vecchio Marx. Essa perciò non stupisce, certo, se mostrata da Le monde diplomatique, per le ragioni ideologiche indicate. Ma preoccupa qualora sia manifestata da chi si ritenga "marxista" e quindi comunista.

Il "significato" delle parole celate in quell’acronimo ­ e non si tratta di un futile gioco ­ nasconde infatti un’"azione", di per sé priva di concetto e piuttosto carica di attivismo vitalistico, per una "tassa", il che implica la presunzione di cambiare le cose attraverso il sistema fiscale; a tale proposito basterebbe rammentare ai marxisti quanto proprio Marx indicava nelle istruzioni ai delegati della I internazionale, avvertendo che "nessuna modifica della forma di imposizione può produrre un qualche importante cambiamento nelle relazioni tra lavoro e capitale. Ciononostante ­ aggiunge ­ dovendo scegliere tra due sistemi di imposizione, raccomandiamo la totale abolizione delle imposte indirette, e la loro sostituzione generale con le imposte dirette", seguìta ­ precisa ­ dalla "trasformazione delle imposte dirette in un’imposta progressiva sui redditi.

Ora ­ e non c’è da sorprendersi poiché l’acronimo fa riferimento a un economista assolutamente borghese come Tobin ­ non si trova la benché minima traccia né del carattere diretto né di quello progressivo di quella "tassa", che invece è indiretta e proporzionale. Sicché, in conclusione, l’Attac si prodiga per un "aiuto alla cittadinanza", la qual cosa ­ a voler essere pignoli ­ implica sia la negazione della presa di coscienza (ovvero di ciò che Marx stesso chiamava semmai "autoaiuto"), sia l’accantonamento della centralità della classe lavoratrice (principalmente salariata, ma non solo) a vantaggio della generica categoria di "cittadino". Tuttavia, non è nelle "parole" servite per rendere significante l’acronimo che sta la sostanza della cosa, la quale merita un’attenzione critica assai più approfondita dal versante teorico, per dare coerenza e solidità alla lotta politica.

Il concetto mancante, alla base del tutto, è quello di plusvalore, come si è poc’anzi accennato. E il plusvalore proviene ­ tutto intero ­ d al pluslavoro dei salariati occupati nella sfera della produzione, sì che con la parte di esso accumulata nel precedente ciclo di metamorfosi del capitale si possano pagare anche i redditi degli altri lavoratori occupati nella sfera della circolazione. Tutto, assolutamente tutto, il plusvalore nuovamente prodotto va nelle casse della classe dominante ­ borghesia industriale e commerciale, banchieri e aristocrazia finanziaria, proprietari fondiari e ogni altra sorta di sfruttatori ­ la quale ne effettua la ripartizione secondo i rapporti di forza che i rispettivi "diritti di proprietà" garantiscono, con alterne sorti secondo il ciclo della crisi, a ciascuna delle sue componenti.

Ora, a qualsiasi lavoratore "non gliene potrebbe fregare di meno" ­ o per usare le parole quasi testuali di Marx: "A causa della forma antitetica delle due parti in cui il plusvalore si suddivide, si dimentica che entrambe sono semplicemente parti del plusvalore stesso e che la sua ripartizione non può mutare la sua natura, la sua origine e le sue condizioni di esistenza. Per il lavoratore salariato è del tutto indifferente se il capitalista è proprietario del capitale con cui opera, e intasca tutto il plusvalore, o se ne deve pagare una parte a un terzo come proprietario giuridico" ­ di come la torta, che lui ha faticato a produrre insieme ai suoi compagni, venga spartita tra i padroni.

Ovverosia, codesta spartizione è solo affar loro, e non cambia nulla immediatamente nella vita dei proletari di tutti i paesi, disuniti! Quindi, la "creazione di nuovi strumenti di regolazione e di controllo a livello nazionale, europeo e internazionale", reclamata a gran voce dai postkeynesiani regolazionisti, può solo servire per restituire il predominio a una parte del capitale imperialistico sull’altra. Ed è proprio quello che, obbedienti al loro ruolo di teste d’uovo della borghesia industriale, i vari Tobin & co. con coerenza perseguono.

La loro "teoria" fondante è quella marginalistica della pluralità dei cosiddetti "fattori della produzione", in cui ­ nella "formula trinitaria" del "logaritmo giallo", schernita da Marx ­ accanto al lavoro ci sono capitale e terra, e in cui quindi profitto industriale e commerciale, interesse e rendita, sono separati originariamente e attribuiti a cause e contributi affatto diversi: sì che la prima coppia sia riferita ai capitalisti "buoni", quelli che meriterebbero ricompense per il loro "lavoro" (sono infatti inclusi, anche da Keynes per il tramite del suo vate Gesell ispirato da Proudhon, nella classe dei "lavoratori"!), e la seconda a quelli "cattivi", che da speculatori parassiti non fanno un tubo tutto il santo giorno (e che sono perciò considerati come la sola classe pura di proprietari tagliacedole).

Ma qual è l’interesse dei marxisti? Non certo quello di accreditare simili mistificazioni ideologiche e manichee, favorire e allearsi con i "buoni" contro i "cattivi", fare fronti neocorporativi di produttori e via armonizzando. Pertanto è indubbiamente curioso che, anche sulla stampa comunista (o dichiaratamente schierata come tale), si faccia riferimento esclusivo a economisti borghesi dalla testa ai piedi (in questo caso soprattutto pedestri) e neppure per errore o distrazione venga fatto cenno, magari pure implicito, alla teoria marxista del valore, del plusvalore, del denaro e delle crisi. Quei comunisti che invocano la "tassa Tobin" o qualsiasi altro attacco fabiano alla rendita speculativa, ritengono ancora che viga lo sfruttamento del lavoro salariato? e che da esso, e solo da esso, provenga tutto il plusvalore? o, ancora, che la crisi sia dovuta sempre a eccesso di sovraproduzione di valore e che la massa di denaro-merce, quindi, non possa trovare periodicamente altro sbocco
provvisorio che la speculazione?

Se ritengono ancòra valida tutta questa analisi marxista farebbero bene a ripensare alla loro coerenza con provvedimenti tampone di stampo marginalistico keynesiano, buoni solo per un regolamento di conti interno alla classe dominante. Gli economisti illuminati di scuola borghese, infatti, loro sì nella negazione e mistificazione dello sfruttamento (plusvalore), possono ben ritenere che sia il "continuo incremento delle rendite da capitale" la causa, anziché l’effetto, della caduta dell’attività produttiva e del connesso deterioramento occupazionale, salariale e del livello di vita. Ma la vera causa causante di tutto ciò, viceversa, è precisamente l’eccesso di sovraproduzione che il capitale stesso ciclicamente non è in condizioni di sostenere.

Proprio da ciò deriva che la "lotta tra fratelli nemici" si scateni per appropriarsi della fetta più grande possibile del plusvalore complessivo già prodotto. Con la duplice conseguenza, questa sì, che, da un lato, come riconosciuto da molti sostenitori borghesi di Tobin, si otterrebbe il risultato, ricercato e voluto dal grande capitale monopolistico finanziario di centralizzare ulteriormente il mercato mondiale delle operazioni di arbitraggio in valuta, oggi troppo frammentate e disperse rispetto al resto delle transazioni borsistiche (così come le banche nascenti, e poi in ogni successiva fase storica di loro trasformazione e consolidamento, perseguitarono gli usurai, proprio per subentrare all’attività di costoro); dall’altro, molti di quegli esperti non nascondono neppure la concreta possibilità che le banche e le altre istituzioni finanziarie ufficialmente delegate alla riscossione (come eventuali "sostituti d’imposta") non avrebbero alcuna difficoltà a traslare la tassa Tobin
prima sul "parco buoi" dei piccoli risparmiatori di borsa e poi, in ultima istanza, sui lavoratori stessi, magari attraverso giochi speculativi dei fondi pensione. Bel risultato!

Certo ­ mediatamente ­ la spartizione del plusvalore può avere conseguenze anche sulla dinamica della composizione del proletariato. Ma è appunto qui che occorre saper agire con concetti adeguati. Se i capitalisti fanno "emigrare" il denaro nella speculazione ­ Grossmann insegna ­ non è per "cattiveria", ma è solo perché non possono più spremere plusvalore nelle condizioni date del mercato mondiale. Dunque il proletariato può solo, ma deve saperlo fare, avvalersi di codesta contraddizione in seno alla borghesia e amplificarla al massimo a proprio vantaggio, anziché assecondare una fazione borghese sull’altra.

Ciò che provò a fare il proletariato inglese oltre un secolo e mezzo fa, nella lotta tra borghesia industriale e proprietari fondiari, prima per l’abolizione dei dazî sul grano e poi per la riduzione della giornata lavorativa, può essere d’esempio. C’è una differenza, tuttavia: quelle erano due classi distinte, entro il blocco sociale dominante; mentre oggi si tratta di una sola classe, quella dell’oligarchia finanziaria, divisa tra il nucleo forte della grande borghesia capitalistica industriale, epperò anche speculativa, e il coacervo disperso del capitale fittizio, ma monetariamente potente, occupato dagli speculatori autonomi, avventurieri parvenus provenienti dalla classe media.

Un’altra considerazione sull’evanescenza dell’applicabilità della tassa Tobin, connessa alle contraddizioni interborghesi, proviene dal crescente ruolo della cosiddetta "moneta virtuale" ­ ultimo travestimento di sua madre, la "moneta elettronica", che ancòra aveva una parvenza di realtà. La poco virtuosa moneta virtuale, infatti, sfugge tuttora a ogni forma di controllo da parte dei grandi centri del capitale finanziario e degli stessi organismi sovrastatuali, giacché il suo operare via Internet impedisce di conoscerne provenienza, destinazione e volume effettivo.

Ciò ha come principale conseguenza quella di vanificare la gestione dell’emissione di moneta circolante da parte delle banche centrali (che possono così circoscrivere prevalentemente la loro politica monetaria alla fissazione del tasso di interesse); suoi corollari sono, da un lato, la sopravalutazione borsistica per eccesso di acquisti (con una leva speculativa venti volte superiore al valore nominale, a rischio di "bolla") del titolo di Bill Gates; dall’altro, il tentativo pacchiano, presto scoperto, di "spiare" tutti i computers in rete col nuovo processore Pentium III, commissionato (da chi?) con numero di matricola sempre e ovunque rintracciabile dal Grande Fratello.

Finalmente, in tal "gran casinò" tutti gli "esperti", Tobin stesso in testa fino a quelli del Fmi, sono concordi nel ritenere che una simile tassa potrebbe funzionare solo se applicata simultaneamente e con le identiche norme in tutto il mondo, o almeno in quello che conta finanziariamente (G.7, più Hong Kong, Singapore, con estensione del condizionamento ai "paradisi fiscali"): se no il capitale continua a volare dov’è più libero. Sicché, in ultima analisi, il movimento a favore della tassa Tobin, oltre a esprimere il massimo sostegno al grande capitale monopolistico finanziario transnazionale vieppiù centralizzato di contro agli speculatori d’assalto dell’oligarchia finanziaria speculativa autonoma ­ la qual cosa, come si è visto, non è poi così appassionante per il proletariato mondiale ­ si dilacera sulle vorticose pale del mulino a vento mosso dall’intero capitale mondiale di cui si suggerisce il suicidio.

Almeno Keynes, col chiaro senso dell’opportunismo che lo distingueva, proponeva ai rentiers una "dolce morte" diluita nel tempo. Invece i nostri eroi attaccano direttamente quei mulini, proprio come credeva di fare Don Quijote per riaffermare l’onore dei cavalieri erranti di fronte all’apparire della rivoluzione borghese. In effetti la tassazione dei capitali, se portata alle estreme conseguenze, altro non è che un invito al suicidio rivolto al capitale stesso! Senonché, per raggiungere tali conseguenze finali, occorrerebbe avere una forza mille e mille volte superiore a quella resa disponibile da Le mode diplomatique: una forza, raggiunta la quale, non penserebbe più a "quisquilie e pinzillacchere" come il sistema fiscale, ma a rivoluzionare dalle fondamenta il modo di produzione capitalistico.

Al cospetto di una simile infondatezza ­ teorica ancor prima che pratica ­ della tassa Tobin come di ogni altra imposizione della rendita in sé, per i marxisti e i comunisti, allora forse converrebbe pensare direttamente ma astrattamente a una, per così dire, "tassa Lenin", la quale potrebbe articolarsi a tre livelli decrescenti di impraticabilità:

 esproprio dei capitali finanziari = rivoluzione (di là da venire)

 confisca del plusvalore totale = misure di transizione (e ancora siamo lontani)

 tassazione progressiva di tutte le forme di plusvalore = ? (ci si può pensare).

Quest’ultimo livello ­ ancorché limitato al puro e semplice palliativo fiscale, e perciò non di primaria importanza ­ potrebbe facilmente trasformarsi nella classica rivendicazione marxengelsiana da "programma minimo" della progressività delle imposte dirette (la tassa Tobin, si è visto, non è neppure questo!), confluendo così sulla più "banale", ma possibile, lotta per far pagare tutte le imposte già dovute su società e imprese, ossia il recupero dell’evasione Irpeg, soprattutto, e Irpef (o come diversamente si chiamino altrove). Oltre alla maggior coerenza teorica, questo obiettivo sarebbe anche molto più aggregante socialmente, in linea sindacale e politica, e quindi più praticabile di qualsiasi esotismo radicalborghese.

(dicembre 2001)

Addenda: Il mio nome è Tobin ...

... James Tobin. Con il più mitico Bond ha in comune solo il suo bazziccare gli ambienti reazionari dei palazzi del potere, e di qui l’obbligo di assecondare le esigenze imposte dai padroni.

Si era nel lontano 1971: ricordate la ferragostana unilaterale dichiarazione di inconvertiblità del dollaro, che fece séguito alla sua svalutazione, l’anno prima? La crisi era già netta, ancorché latente, ma la sua forma monetaria, inevitabilmente precoce, era ormai decisamente conclamata. Fu precisamente in quelle rocambolesche circostanze che all’ex consigliere economico (poi insignito del premio Nobel, per cotanta saggezza) del fu JFKennedy venne in mente di proporre una misura urgente per cercare di tamponare le scorribande borsistiche dei finanzieri d’assalto. In assoluta carenza di iniziative statuali e sovrastatuali, in una fase cioè di totale "bambola" (voluta?!) del potere monetario esistente, il keynesiano kennediano ­ fedele alla consegna di non sfavorire troppo gli investimenti industriali produttivi duraturi e gli scambi commerciali, rispetto alle scorrerie istantanee degli speculatori, fin da allora tornate in auge (era l’esplosione della crisi da sovraproduzione) ­
suggerì di tassare un po’ (molto poco, in realtà: lo 0,1%) questi ultimi per disincentivarli appena nei loro più sordidi affari. Il ricavato, a detta di James, sarebbe dovuto andare a finanziare la stabilizzazione dei cambi e dei prezzi turbati dalla crisi stessa e dagli affaristi.

Senonché, non solo ora ma già da diverso tempo (l’asinistra non se n’è ancòra accorta, e comunque percepisce la realtà con la lentezza, ma non con la saggezza, di un bradipo), gli interventi sovrastatuali ­ lèggi soprattutto Fmi e Bm, ma anche Fed e Bce ­ sono ritornati alla grande contro quello che loro chiamano "liberismo selvaggio" (ce n’è uno "educato", evidentemente!). Tali organismi hanno stabilito regole operative internazionali per "favorire" l’intermediazione finanziaria "educata", quella che fa ugualmente un mucchio di miliardi sui "fondi" e sui "derivati" ma ­ si dice, in forma di apologo che diventa smaccatamente elogio della speculazione ­ mette a disposizione dei mercati finanziari (le borse più che le banche) denaro liquido con maggiore stabilità e in funzione anticiclica.

Epperò Tobin stesso ha dichiarato [cfr. il Finacial times, proprio del fatidico 11 settembre 2001, poco prima del clamoroso impatto sulle "torri gemelle"; il Sole 24 ore, poco tempo dopo, ha ripreso l’intervista di Tobin] che quella sua vecchia proposta è stata vanificata, e non solo superata dagli avvenimenti finanziari internazionali, perché la speculazione di breve periodo è tornata sotto controllo internazionale. Del resto, la crisi da sovraproduzione non è risolvibile con simili palliativi (tranne le pie illusioni di gestione della crisi stessa da parte di Horst Köhler, scimmiottato da Rainer Masera), e quindi il fronte capitalistico finanziario, che unisce la sfera produttiva in recessione con quella monetaria speculativa (che non si sia resa autonoma con le proprie scorrerie), non può che ricompattarsi sotto l’egida imperialistica in affanno ­ al grido di "cane non morde cane!".

Ormai si fa addirittura apertamente l’elogio della speculazione [il povero Erasmo andrebbe ai "pazzi"], per i motivi sopra accennati, in nome della liquidità internazionale agognata. La più che blanda tassazione ormai introdotta nei cosiddetti mercati regolamentati (0,0015%, pari appena a un punto e mezzo su mille!!) è il massimo che il grande capitale monopolistico finanziario mondiale, unito, accetta: ed è quanto accetta e fa contento anche Tobin, il quale ha così svolto il suo còmpito.

D’altra parte, egli stesso ha ampiamente riconosciuto che la sua tassa ­ oltre a non avere scopi diversi da quelli originariamente dichiarati, che erano quelli, assolutamente provvisori, di stabilizzazione delle borse nelle transazioni giornaliere, a parte la difficoltà di distinguere tra investimenti produttivi e speculativi ­ non sarebbe neppure applicabile se non lo fosse simultaneamente in tutti i paesi (che contano per il 99% dei mercati finanziari, e cioè i G.7 più Svizzera, Australia, Hong Kong, Singapore e gli altri europei). Quest’ultimo limite è insuperabile [ed è uno dei principali punti già messi chiaramente in luce], giacché se si riuscisse a cambiare le regole in quella dozzina (o poco più) di nazioni tanto varrebbe ­ o meglio, signficherebbe ­ fare la rivoluzione mondiale! E scusate se è poco. Ma l’espropriazione generalizzata dei grandi padroni non è certo ciò che voleva James "Bond" Tobin con la sua tassa.

Il fatto che i riformisti si ostinano a non capire, o forse a non far capire, è che una rivoluzione ­ e per giunta una rivoluzione a scala mondiale ­ non si può fare "per legge", chiedendola ai padroni stessi. Una fesseria del genere non stupisce in "Buco" Tremonti, che si appella alla "dimensione etica" per far "rivivere la filantropia" del capitale, ma ovviamente in favore dei consumatori sì da non gravare sulle transazioni finanziarie: toh! Che la misera tassa Tobin dimezzata (essendo la stabilizzazione della liquidità ... liquidata con gli accordi sovrastatuali sulla regolazione degli interventi speculativi) possa andare a finanziare la povertà cronica dei cosiddetti Hipc [appunto i paesi poveri fortemente indebitati] è idea coerente con la grandeur francese goffamente ereditata da Jospin: e, perciò, che essa venga anche sbandierata da le Monde diplomatique e da Attac serve solo a mostrare quale sia l’opportunismo del primo e le contraddizioni della seconda. E se
sull’opportunismo del primo ci sono pochi dubbi (l’ostracismo a Fidel Castro e la mancata critica all’aggressivismo Usa possono solo confermarlo), sulle contraddizioni della seconda non gettano certo buona luce i 100 mila $ che la fondazione Rockefeller ha regalato ad Attac France facendoli intascare al suo direttore Bernard Cassen [forse è simbolico il nome, Bernard, come quello del medico "sfrontato" Kouchner, prima ministro e poi "governatore" Onu del Kosovo]: ma non sono certo quei pochi dollari, poco più di un’elemosina (ancorché compromettente), quanto la piccola politica borghese che Attac, nel nome fasullo della Tobin tax, fa sulla scia dei gruppi di potere francesi.

Ai bravi compagni che costituiscono quest’ultima può pure andare tutta la nostra simpatia; è infatti significativo che più tempo passa e più essi parlino, giustamente, di scudo spaziale, di armamenti, ecc., ovviamente trascurando vieppiù forme così banali e frustranti come l’"equa tassazione". Ma allora sarebbe meglio che Attac perdesse quantomeno la T di Tobin, secondo le stesse indicazioni di James: senonché, così facendo, rischierebbe di rimanere tristemente solo Atac [da non confondere con l’ente dei trasporti collettivi romani], denominazione che è assai tremontianamente avvinghiata al dichiarato versante di "aiuto ai consumatori". Per cui: i .qualsiasi tassazione, esplicitamente nelle critiche di Marx al "programma di Gotha", non è mai servita a risolvere le contraddizioni reali del modo di produzione capitalistico; il che farebbe cadere anche l’altra "t"; ii. tantomeno ha un qualche senso, che non sia volgarmente keynesiano ma di classe, "aiutare i consumatori" (si lascino
simili baggianate buon-eco-pacifiste a "don" Agnoletto!); la qual cosa coerentemente priverebbe l’acronimo anche dell’"ac". In conclusione, è pertanto caldamente suggeribile che i comunisti pensino a cose più serie sul lato della produzione e della proprietà delle condizioni oggettive di essa. Quindi non resta altro, con le dovute specificazioni, che ricominciare da "A".

(maggio 2002)

PS (a mo’ di epitaffio)

Che all’età di 84 anni sia morto il premio Nobel 1981 per l’economia James Tobin, tanto caro ai padroni kennediani di tutto il mondo, a noi non suscita particolare commozione ­ con buona pace di Bertinotti e Fidel Castro, per non dire degli Attacchini francofoni et similia. In effetti, lui stesso, praticamente sul letto di morte, appena sei mesi fa, ebbe a dichiarare che la sua tassa sui movimenti di capitali, la cosiddetta Tobin tax - passata la buriana della carenza di controllo Usa sulla speculazione, a seguito della crisi degli organismi di Bretton Woods - non significava assolutamente niente.

Ma noi lo sospettavamo da tempo.

11.07.2004
Collettivo Bellaciao