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Un “dibattito” che sfiora appena i nostri problemi

Publie le lunedì 2 febbraio 2004 par Open-Publishing

Il dibattito esploso su Liberazione dopo alcune “provocazioni” della direzione è diventato
rapidamente un tormentone, che ha portato alla luce il disorientamento che c’è tra una parte degli
iscritti al PRC, non tanto per l’eterogeneità delle provenienze, quanto per l’assenza – fin dalla
nascita del partito - di un dibattito approfondito sui grandi nodi teorici del nostro tempo, malamente
surrogato da personali iniziative del segretario.
Va detto che probabilmente le lettere pubblicate non riflettono esattamente lo stato d’animo del
partito o almeno dei lettori del giornale, per i criteri con cui vengono selezionate: diversi
compagni lamentano che raramente riescono a vedere pubblicata una delle tante lettere mandate,
sfondando il filtro del direttore.
Ma anche se non servono a un sondaggio statistico, anche le lettere insulse pubblicate non sono
inventate, e portano alla luce una cultura poco distinguibile da quella dei lettori de l’Unità.

Penso alle lettere di elogio del papa, o di Ciampi, o di ingenuo stupore se Ciampi non si muove come
vorrebbero loro (perché non interviene a fermare il cavalier Banana?), o di patetica nostalgia per
i bei tempi andati, quando c’erano i paesi socialisti e il PCI prendeva tanti voti e aveva tanti
parlamentari (senza domandarsi come e per che cosa li utilizzava). C’è stato perfino chi ha
ricondotto il nostro dibattito sulla nonviolenza alla “nostra identità genetica” che risale al “vecchio e
glorioso PCI e in particolare al suo segretario generale, Palmiro Togliatti”, perché aveva capito
che “con l’avvento dell’era nucleare la pace è irreversibile, cioè senza se e senza ma”. Beato
lui! Peccato che non ha provato a verificare nella storia la validità di quell’affermazione, contando
i milioni di morti che anche dopo Hiroshima ci sono stati in guerre più o meno “asimmetriche”...
Molte di queste lettere rivelano soprattutto una grande ignoranza della realtà dell’ultimo mezzo
secolo. Ma come potrebbe essere diversamente se Liberazione non ha mai inteso svolgere una qualche
funzione formativa?

La prima ondata di lettere è venuta in risposta a un singolare testo scritto da Rina Gagliardi
che, in genere colta e raffinata, in quel caso banalizzava un concetto caro al segretario: la
religione non è più l’oppio dei popoli. Ma l’interesse per la questione dell’oppio o “tranquillante dei
popoli”, è caduta presto, ed effettivamente non era particolarmente “urgente”, anche se aveva
anch’essa implicazioni politiche pericolose, perché dietro di essa possono passare le diffuse illusioni
sul ruolo “per la pace” di questo papa. Sono affiorate molte altre cose, come l’incapacità di
vedere dialetticamente il rapporto tra fede individuale e funzione complessiva della religione, mentre
sono state rimesse in circolazione anche inopportune esaltazioni di altri papi, frutto
probabilmente di scarsa conoscenza: ad esempio Paolo VI, visto come riformatore e non come intelligente
conservatore, come il normalizzatore dopo l’emergere di un grande e poco controllabile rinnovamento nel
Concilio Vaticano II. Eppure Giovan Battista Montini era stato anche, come collaboratore di Pio
XII, l’abile tessitore del complotto del 25 luglio 1943, che doveva salvare il fascismo eliminando
Mussolini, e poi l’organizzatore della campagna anticomunista del 1948.

Il secondo tema che ha provocato una valanga di lettere, è stato innescato da un’altra
“provocazione”: la pubblicazione, senza una riga di commento o di spiegazione, di un articolo di Repubblica
che dava per scontato che Bertinotti stesse cominciando la sua Bolognina o “Bad Godesberg”
(termine, ormai sconosciuto ai più, che alludeva al lontano congresso della socialdemocrazia tedesca in
cui Marx fu gettato formalmente nel cestino, dopo molti decenni in cui era stato totalmente ignorato
nell’elaborazione della linea del partito, anche se mantenuto come riferimento ideale).
Questo dibattito ha appassionato di più quei lettori (e non sono pochi) che sarebbero restati per
sempre nel PCI sotto l’illuminata guida di Occhetto, D’Alema e Fassino se costoro non avessero
cambiato nome al partito (cioè quei compagni che avevano ingozzato di tutto per tanti anni in cui,
come ha ammesso onestamente Macaluso, di comunista nel PCI c’era ormai solo il nome...).
Allarme rosso dunque per quei compagni, che si domandavano: ma che vuole il segretario? Io non mi
scandalizzerei se, in seguito all’apporto di forze diverse, si ponesse davvero il problema di un
nuovo nome; il problema è che oggi le forze diverse non ci sono, anzi si direbbe che si allontanino
alcuni di quelli che al momento del referendum erano diventati nostri interlocutori; allora
diventa comprensibile che ci si domandi perché è nato questo dibattito, cosa si vuole ottenere, dove si
vuole arrivare.
Ma alla fine anche a me è venuto qualche sospetto sulla ragione recondita di quelle provocazioni:
non sarà che sotto sotto ci sia ancora chi è convinto che il fine giustifica i mezzi? Il fine,
ohimé, sarebbe arrivare con una forte visibilità mediatica alla coalizione con i riformisti,
surrogando l’ormai cronica assenza nel conflitto sociale (si pensi all’assenza di un ruolo del partito in
quanto tale nelle lotte degli autoferrotranvieri, in cui pure erano attivi individualmente tanti
nostri compagni, e all’incredibile sordità dei lettori di “Liberazione” all’appello per sostenere
quella lotta: solo 28 sottoscrittori!).
O si tratta di un tentativo di rivolgersi, più che al partito, a quei settori del movimento che
sono attratti da moderati e riformisti (ARCI, ecc.), per cercare di utilizzarli nelle trattative con
il centrosinistra? In sè non sarebbe scandaloso, ma c’è il pericolo che la sostanza e il metodo
dell’operazione abbiano effetti scardinanti su un partito già non troppo in buona salute...

Poi è esplosa la discussione sulla “nonviolenza” che, ci si spiega, dovrebbe cambiare
profondamente la nostra vita. Il problema sarebbe quello di spezzare la coppia, o spirale,
“guerra-terrorismo”. Su questo hanno già risposto utilmente molti compagni, tra cui Bernocchi, Cannavò, Bersani e
Casarini, e poi Maestri e Peruzzi.
Intanto anche in questo dibattito c’è stato pochissimo spazio per i compagni non dirigenti di
primo piano (in molti hanno lamentato incomprensioni dovute ai tagli redazionali). Le due apparenti
eccezioni, Livio Maitan e l’articolo collettivo sulla nonviolenza, si spiegano facilmente: Livio,
oltre a godere di una vastissima stima, ha un accordo di collaborazione periodica col giornale,
sicché rifiutare il suo intervento sarebbe apparsa un’inaccettabile censura, mentre la pubblicazione
del testo dei quattro non si spiega tanto col ruolo di Cannavò come vicedirettore e portavoce nel
giornale di una “sensibilità” particolare, quanto con quello di protagonista riconosciuto della
difficile attività di coordinamento del “movimento dei movimenti” esattamente come gli altri tre;
anche in questo caso sarebbe stato scandaloso rifiutare, e ci si è limitati a rispondere con una
scorrettezza come la foto della giovane “kamikaze” di Gaza inserita come illustrazione del loro
articolo, per associare la loro puntualizzazione a una ipotetica difesa del “terrorismo” (che nessuno di
loro si sogna di fare).
Sulla non-violenza la mancanza di par condicio comincia dal fatto che il segretario senza nessuna
decisione di un qualsiasi organo formale si prende ben 4 pagine del giornale per le sue
esternazioni; si è fatto poi un uso abbondante degli esterni, a cui ovviamente, per dovere di ospitalità,
non si pongono limitazioni di spazio. Nulla contro di essi, ma ci permettiamo di ricordare ad
esempio che Ingrao, dopo tante oscillazioni, non è mai venuto con noi nel difficile compito di costruire
e anzi rifondare un partito comunista. È solo colpa nostra, o è il riflesso di diverse concezioni,
e di uno scarso interesse per questo difficile compito?
Anche la Menapace ha avuto grandi spazi, per parlare della religione, della sua concezione della
pace, e perfino del caso Parmalat. Perché tanto spazio per lei, mentre viene negato a compagni del
partito, che non hanno galloni particolari per pretenderlo, se non una conoscenza specifica dei
problemi che questi dibattiti pongono all’insieme dei militanti?
Se Ingrao, o la Menapace, o Tronti, o Revelli avessero scritto queste cose altrove, li avrei letti
con interesse e in ogni caso rispetto; mi preoccupa invece che si dia loro tanto spazio sul nostro
giornale a discapito di altri. In sostanza, che vengano mobilitati degli “esterni” per “dare la
linea” teorica ai militanti... Tra l’altro sia Tronti che Revelli avevano scritto per il Manifesto,
e i loro testi sono stato prontamente ripresi; il secondo – dato che in Liberazione non c’entrano
gli articoli lunghi del Manifesto - con qualche taglio (purtroppo nella parte in cui si poneva
qualche problema interessante).
Va detto comunque che tutti loro hanno posto e si sono posti più domande di quante sembra che se
ne ponga il segretario con le sue nuove certezze. Leggendo in particolare l’intervento della
Menapace del 17 gennaio ho pensato che chi l’ha sollecitata a scrivere si deve essere trovato un po’
come Pera quando ha invitato Nolte e si è sentito esprimere una dura condanna delle guerre di Bush e
Sharon.
Lidia ci dice infatti molte cose condivisibili, anche perché, se non lo si capisce sempre dalle
pagine di Liberazione, tutti quelli che sono preoccupati dalla piega di questo dibattito sono
comunque ovviamente contro il terrorismo (senza che sia necessario spiegarci una cosa di cui da sempre
siamo più che convinti, cioè che “il terrorismo isola chi lo fa e rende le masse spettatrici”). Le
precisazioni fattuali della Menapace sull’Iraq (riconoscimento della legittimità della “guerriglia
o della resistenza armata”, giudizio severissimo sui carabinieri di Nassiriya, che servono da
copertura agli affari delle imprese italiane, ecc.) sono giustissime, e si contrappongono a certe
sicurezze di Curzi e Gagliardi nel concludere che la resistenza non va fatta (formalmente dicono che
non si permettono di criticare chi reagisce a un’aggressione o invasione armata “anche impugnando
le armi”, ma subito dopo assicurano che “a parere quasi unanime” non c’è nessuna possibilità di
vittoria della lotta e della guerriglia armata nel Medio Oriente”...).
Tuttavia la Menapace finisce poi per concludere anch’essa insinuando che la lotta armata
porterebbe male: “le pur gloriose e legittime guerriglie e lotte armate di resistenza alle invasioni
(Vietnam) o alla tirannia interna (Nicaragua, Cuba) hanno prodotto o regimi autoritari e inamovibili o
addirittura l’andata al potere di governi di destra”.
Colpisce, prima di tutto, che Lidia Menapace, (il cui itinerario si è svolto per anni nel gruppo
del Manifesto) come quasi tutti i compagni di quell’area ha rimosso semplicemente la Cina (non va
messa nell’elenco dei fallimenti?); tuttavia ci sono obiezioni più importanti: l’involuzione di
Cuba (cominciata dopo la non casuale partenza di Guevara, cioè un bel po’ di anni dopo la vittoria)
si deve al “peccato originale” della lotta armata o invece al legame con l’URSS brezneviana che si
strinse a partire dal 1970-1971? E anche sul Vietnam, il ruolo dell’URSS come modello di partito e
di Stato pesa meno tra le cause dell’involuzione dell’aver dovuto prendere le armi (dal 1945 al
1975!) per liberarsi?
E come mettere nello stesso fascio il Nicaragua, che tentò a lungo di tenere fede ad alcuni
principi etici evitando ad esempio pena di morte e vendette, ma dovette combattere per anni contro
un’aggressione potente e armata dal terribile vicino del nord? Tra l’altro tra le cause della sconfitta
ci furono (oltre ai pessimi consigli ricevuti dall’URSS, dall’Internazionale socialista, dal PCI
di Berlinguer, sul “pluralismo economico”, cioè sulla libertà di speculazione che affamava operai e
contadini) anche alcuni errori specifici, come l’aver dovuto creare negli ultimi anni, per
fronteggiare l’aggressione ininterrotta, un esercito di leva in un paese che non l’aveva mai avuto e mal
lo accettò.
Ho sempre dovuto polemizzare con diversi cubani (e molti difensori acritici di Cuba in Italia) che
attribuivano la sconfitta del 1990 al pluralismo politico, dimenticando che nel 1984 le elezioni
erano state ugualmente pluraliste e i sandinisti avevano vinto col 64% dei voti. Nel 1990
affrontarono le elezioni con mezzi inferiori all’opposizione finanziata dagli Stati Uniti, ma soprattutto
con la propria base amareggiata dal veder tornare impuniti i contras con le tasche traboccanti di
dollari, in seguito a quegli accordi di Esquipulas imposti al governo sandinista dal ricatto dei
sovietici (che, per “convincerlo” a partecipare, avevano tagliato le forniture di petrolio). Non mi
aspettavo che si potesse oggi insinuare che nel 1990 i sandinisti hanno perso...perché nel 1979
avevano sconfitto con le armi una feroce dittatura!

Più scarno il dibattito sull’improvvisa apparizione di un “partito comunista europeo”, balzato
sulla scena mediatica all’improvviso con un’impostazione e una scelta di interlocutori del tutto
diversa da quella seguita fino a pochi mesi fa in incontri promossi dallo stesso PRC, e per giunta con
esclusioni significative che sono in parte corrispondenti a veti (ad esempio del PCF verso le
organizzazioni trotskiste francesi, che pure hanno avuto maggiori consensi elettorali) e in parte alla
necessità di non avere presenti a Berlino voci che ponessero problemi diversi da quelle di una
semplice partecipazione elettorale per conquistarsi una fetta di finanziamenti europei, anche se
molto eterogenee (alcune delle principali promotrici dell’incontro hanno governato o aspirano a
governare insieme a partiti socialdemocratici neoliberisti.
Questo dibattito è stato inizialmente quasi tutto riservato ad alcuni massimi dirigenti che per
vari giorni hanno polemizzato tra loro con puntualizzazioni sulla legittimità o meno della procedura
seguita che – date le incomprensioni e le versioni diverse fornite - hanno accresciuto il dubbio
che perfino nella segreteria non si discuta veramente e con il tempo necessario sulle questioni
fondamentali.

Ma alla fine si è arrivati a discutere, sia pure a cose fatte, nella Direzione nazionale, dove
sono emerse quattro diverse posizioni, e quella del segretario ha avuto solo 21 voti su 39. Un po’
poco. Molti compagni si sono preoccupati domandandosi “perché ci dividiamo ancora?”, con la solita
nostalgia dell’unanimismo di facciata, e senza pensare che almeno una parte della responsabilità
dell’indebolimento della maggioranza congressuale è dovuta al modo “monarchico” con cui è stata
guidata su terreni diversi da quelli scelti al congresso. Ma almeno su questo tema si sono potute
conoscere le diverse posizioni anche se, con il solito malcostume ereditato dai partiti comunisti
plasmati dallo stalinismo, del dibattito si è presentata solo... la replica del segretario!
Un problema dell’organizzazione del giornale
La questione dello spazio che su Liberazione non ci sarebbe per pubblicare contributi individuali
lunghi (penso al mio intervento di riflessione sulla religione, nei primi giorni del dibattito,
prima dell’inflazione delle lettere, che mi si chiese di ridurre a una letterina) non regge: molte
pagine vengono sprecate ogni numero anche per una discutibile pubblicità. Non alludo solo alle 12
pagine dedicate un giorno a reclamizzare FS e Autostrade e assessorati trasporti delle regioni
“rosa” (queste almeno sono a pagamento”) ma ai paginoni sugli abbonamenti per combattere la famosa
“spirale guerra-terrorismo” o quelli sulle mele o i pomidoro (graziosi ma ripetitivi).

Ci sono poi
assurde rubriche fisse incredibilmente vuote, come quella che da anni riporta le sciocchezze dei
rotocalchi o dei giornali femminili (sempre le stesse ogni domenica), A che serve? E le pagine dello
sport, sono di dubbia utilità: se sei uno sportivo hai bisogno di leggere ben altro, e te lo
cerchi altrove; se c’è un problema politico collegato allo sport gli si possono dedicare, ogni volta
che si pone, anche quattro pagine. Ma la rubrica fissa non serve a nulla e sottrae spazio ad
argomenti essenziali. Non credo che con essa si sia conquistato un solo lettore.

Dare più spazio per un articolo lungo al giorno (di due o quattro pagine, con un uso più limitato
delle foto, che a volte sono enormi e banali, e anche pescate qua e là senza riflettere (come
quelle d’archivio che periodicamente illustrano articoli sull’inflazione, con cartellini dei prezzi
non corrispondenti minimamente a quelli reali e che sembrano fornite dall’ISTAT), sarebbe possibile,
anche se rimarrebbe un modesto palliativo.
L’afflusso enorme delle lettere (a prescindere da come sono state selezionate) conferma che
occorrerebbe un altro strumento, un bollettino di discussione sobrio e austero (e quindi a basso costo)
che i militanti interessati potrebbero acquistare separatamente nelle nostre sedi. Si eviterebbe
così l’appesantimento del giornale con tre o quattro pagine che sono un surrogato modesto del
bollettino ma rendono fastidiosa la lettura a chi cerca solo informazione.

Le riviste ci sono, ma – a partire dalla nostra “Erre” - servono ad un altro livello di
riflessione, e bene o male sono separate e non molto intercomunicanti. Vogliamo pensare anche a uno
strumento che sia davvero sentito come utile da tutto il partito? (a.m., 18 gennaio 2004, aggiornato il
31/1)
)
Post scriptum
Ingrao il 1 febbraio è stato chiamato nuovamente a intervenire su Liberazione, ma ancora una volta
ha confermato la sua notevole indipendenza di pensiero: su quattro colonne dell’articolo tre sono
quasi completamente condivisibili da chi ha contestato l’impostazione di Bertinotti, e insistono
su un’impostazione molto radicale, dal diritto alla resistenza “anche con le armi alla mano” (in
esplicita polemica con D’Alema), alla sottolineatura della necessità di riprendere la lotta
(abbandonata da tempo) contro le spese militari, che il centrosinistra non ha potuto né può combattere
perché quando era al governo le ha aumentate non meno dei governi di centrodestra, e anche per gli
organici legami di molti suoi esponenti con l’imperialismo italiano.

Al massimo posso avere qualche dubbio sull’utilità di insistere tanto sull’art. 11 della
Costituzione, in sé ottimo, ma che non ha impedito nessuna delle guerre a cui l’Italia ha partecipato in
questi anni, che è bastato ribattezzare “imprese umanitarie”. Penso che siano pericolose le
illusioni sul valore di quei pezzi di carta che si chiamano Costituzioni, e che si scrivono in un certo
modo quando è necessario, salvo disattenderle poi sistematicamente appena passato il pericolo (non a
caso il modello di quella italiana del 1946-1948 è la Costituzione della Repubblica di Weimar,
scritta per disinnescare la spinta rivoluzionaria del 1918-1919, e che poi non ha certo impedito
l’ascesa del nazismo e il rilancio dell’imperialismo tedesco). Non si tratta solo dell’art. 11: della
nostra costituzione in cinquant’anni è stato applicato quasi solo l’articolo che prescrive che la
bandiera sia bianca, rossa e verde...
Inoltre, sullo stesso piano, non convince del tutto l’apologia di Gandhi (Ingrao parla anche
abbastanza impropriamente di “India di Gandhi”, senza tenere conto che in quel paese e nello stesso

Partito del Congresso il Mahatma fu sempre in minoranza, e poi fu assassinato durante lo spaventoso
bagno di sangue che accompagnò la conquista – tutt’altro che non violenta - dell’indipendenza).
Ma queste sono notazioni al margine, non essenziali: il dissenso è forte invece quando Ingrao
rivendica per un “movimento pacifista di respiro internazionale” il diritto di “esplorare, vagliare”
(e fin qui va bene) ma anche di “decidere quale sia la strada migliore per assicurare libertà e
pace a quel paese aggredito”; successivamente ribadisce che non dobbiamo solo sconsigliare ma anche
“combattere” quella che definisce “la strada povera e dolente dei kamikaze”. Possiamo disapprovare
e “sconsigliare” senza sforzi la via del sacrificio individuale, ma la “decisione” sulle forme di
lotta non può spettare a noi, ma solo al movimento di liberazione dei palestinesi, degli iracheni,
ecc.

E poi c’è una conclusione che rende onore all’onestà intellettuale dell’uomo, ma ne rivela anche
il disorientamento. Ingrao si riferisce alle “pagine di Lenin e di Gramsci, che in altro tempo
[gli] parvero così obbliganti e oggi invece [gli] appaiono così dubbie”, sorvolando sul fatto che
parte dei lettori di Liberazione o non le ha mai lette, o le ha lette con filtri dogmatici, e che
certo non le riprenderà ora dopo questa affermazione sulla loro inutilità.
E sinceramente, ci sembra preoccupante che Ingrao, che ammette così francamente le sue incertezze
e i suoi dubbi, venga assunto come bussola e guida teorica per il nostro partito. (1/2/2004)