Home > Una grande assente dal dibattito: la storia
Il dibattito sulla violenza su “Liberazione” (rimbalzato anche su “il manifesto”) ha posto molta,
forse troppa carne al fuoco, e a volte, invece di chiarire i problemi, li ha complicati.
Molti compagni, compresi alcuni di coloro che sono intervenuti affrontando temi più complessi e
comunque almeno in parte diversi da quelli sfiorati da Bertinotti, anche se si sono risparmiate
allusioni a Kronštadt o ai “Palazzi d’inverno”, sembra che abbiano accettato di riferirsi ritualmente
a un presunto “comunismo novecentesco” che, come notava già Livio Maitan, appare difficilmente
identificabile in una tipologia unica.
Rinviamo i compagni che usano questa generalizzazione a un pregevole libro curato da un collettivo
coordinato da Michel Dreyfus, Bruno Groppo ed altri, che ha tentato di tracciare in oltre
cinquecento pagine di grande formato un profilo dei molti aspetti di quello che nel titolo viene definito
“Il secolo dei comunismi”.( a cura di Michel Dreyfus, Bruno Groppo, Claudio Ingerflom, Roland Lew,
ecc., ed. Marco Tropea, Milano, 2001)
Ci sembra difficile dunque parlare di un unico “comunismo novecentesco” (erano proprio uguali i
truci e rozzi burocrati dell’era staliniana incarnati dai Molotov e le migliaia di dirigenti
marxisti sterminati negli anni Trenta?), come ci era sempre sembrato sbagliato usare in senso
dispregiativo (come era rituale nella “nuova sinistra”) il termine “terzinternazionalista” per liquidare lo
straordinario dibattito dei primi quattro o cinque anni dell’Internazionale, in cui si
confrontarono liberamente e con uguali diritti tendenze diverse (Lenin, Trotskij, Radek, Bucharin o Gramsci,
ma anche Pannekoek e Bordiga, o anarcosindacalisti come Nin...) mettendolo insieme in uno stesso
calderone con il Komintern stalinizzato, che fino a tutto il 1934 negava la pericolosità di Hitler
e teorizzava che i partiti socialisti erano “socialfascisti”, per passare poi nel 1935 - in nome
della lotta contro Hitler – a teorizzare l’alleanza con la borghesia imperialista giustificando la
stessa oppressione coloniale...
D’altra parte sarebbe ugualmente impossibile presentare come un’unica realtà la ricca complessità
della socialdemocrazia degli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, ai cui
dibattiti (anzi perfino a quelli ancor più lontani nel tempo, come quello di Engels contro Dühring a
cui giustamente ha fatto riferimento Marco Ferrando) sembra che diversi nostri dirigenti più o meno
consapevolmente attingano...
È vero che lo stalinismo ha portato a livelli di omogeneizzazione paragonabili e perfino superiori
a quelli della Chiesa cattolica i partiti comunisti di paesi con tradizioni diverse, ma questo
processo ha conosciuto resistenze importanti in tutti i partiti a partire da quello russo, liquidate
sopprimendo anche fisicamente una parte notevolissima dei quadri più ricchi politicamente e
soprattutto più internazionalisti.
Perché ignorarlo e infliggere così una “seconda morte” a chi ha tentato di opporsi
all’involuzione, a partire da quel Trotskij il cui nome, quando i nostri dirigenti accennano a chi si è opposto
allo stalinismo, non viene mai fuori (e invece magari viene fuori Bobbio...). Solo la Rossanda,
scrivendo su Lenin per “Liberazione”, non lo ha dimenticato, né considerato un caso personale, ma
l’esponente di una corrente storica.
È comprensibile che questo amalgama lo facciano gli infami difensori dell’ordine esistente, che
hanno bisogno di far ricadere il fango (intriso di sangue) del periodo staliniano sulle vittime e
sugli oppositori che sfortunatamente tentarono di battersi per un’alternativa; comprensibile (anche
se un po’ meno) che lo facciano gli inguaribili e patetici nostalgici del surreale “socialismo
reale”, ma appare penoso che per pigrizia intellettuale lo facciano anche compagni che realmente
vogliono la rifondazione.
Abbiamo detto che Trotskij nel PRC non si nomina mai, ma a Trotskij si allude ogni volta che senza
ragione si evoca lo spettro di Kronštadt. Già durante il dibattito nella commissione che preparava
le tesi per l’ultimo congresso qualche dirigente lo aveva fatto, e avevo scoperto dalla sua
sorpresa di fronte alle mie obiezioni che ripeteva i luoghi comuni sulla partecipazione personale di
Trotskij alla repressione ripetuti con dovizia di particolari fantasiosi per decenni da anarchici,
socialdemocratici e borghesi reazionari (con grande soddisfazione degli stalinisti) senza aver mai
preso in considerazione quello che Trotskij aveva spiegato dettagliatamente in diverse occasioni
(due dei principali testi di Trotskij su Kronštadt, uno più ampio del 15 gennaio 1938, e uno secco e
irritato del 6 luglio dello stesso anno, sono apparsi in appendice a: Ida Mett, 1921: La rivolta
di Kronštadt, Partisan, Roma, 1970).
Non si tratta di “difendere” Trotskij da una calunnia, ma di combattere il malvezzo di affrontare
grandi e tragiche vicende ripetendo luoghi comuni rimbalzati da un articolo all’altro senza
nessuna verifica sulle fonti, e facendo uso di una storia aneddottica che personalizza e banalizza i
problemi. Comunque rinvio a quanto su Kronštadt avevo già scritto in risposta a Bertinotti dopo il
convegno sulle foibe, in un articolo apparso sul numero 194 di BaRoNews del 9 gennaio 2004 (chi lo
avesse perso può richiedercelo).
Ma i problemi vanno ben al di là del ruolo di Trotskij, che comunque non è questione marginale,
dato che la sua rimozione è legata al fatto di non voler fare, o non riuscire a fare i conti con le
sue critiche all’involuzione dell’URSS: se dopo tanto tempo continuano le denigrazioni nei suoi
confronti, vuol dire che quelle analisi danno ancora fastidio. L’ostilità nei suoi confronti è tanto
maggiore in chi ha dovuto aspettare il 1989 o il 1991 per accorgersi che qualcosa non andava in
URSS, ma è anche imbarazzo di fronte alla sua sferzante critica dell’adattamento dei partiti
comunisti alla socialdemocrazia, nel corso degli anni Trenta in cui si elaborò la strategia dei “due
tempi”, applicata prima in Spagna e in Francia, poi durante la seconda guerra mondiale in tutti i
paesi in cui la spartizione del mondo prevedeva che permanesse il sistema capitalistico. Se è
sbagliato attribuire in blocco al “comunismo” tutti gli orrori del Ventesimo secolo, lo è anche ridurre lo
stalinismo al grande terrore (che pochissimi difendono, anche se molti lo giustificano
“contestualizzandolo”), sorvolando sul fatto che era anche spesso – quando faceva comodo - cinica
collaborazione con l’imperialismo, accompagnata dall’esaltazione della collaborazione interclassista in molti
paesi.
I problemi più gravi sono una pressoché inevitabile conseguenza della cancellazione delle
tempestive e preveggenti critiche dell’Opposizione di Sinistra all’involuzione dell’URSS e alla cinica
subordinazione dei partiti comunisti alle contingenti esigenze della burocrazia sovietica: per
sminuirne la portata, infatti, si è finito per accettare la tradizionale critica socialdemocratica alla
rivoluzione russa, presentata come un colpo di mano di una minoranza “giacobina”.
Spiegare cos’è stata la rivoluzione d’Ottobre nei limiti di spazio di un breve articolo non è
semplice: lo ha fatto in un libro magistrale Ernest Mandel, (Ottobre 1917. Storia e significato di una
rivoluzione, Data News, Roma 1993) tutto dedicato a smontare i miti borghesi e socialdemocratici
sull’ottobre rilanciati subito dopo il crollo. Una fatica inutile, si direbbe, se il libro,
pubblicato da una casa editrice allora “fiancheggiatrice” del nostro partito e legata particolarmente a
Bertinotti, è stato tranquillamente ignorato: ma basterebbe aver letto (o non dimenticato) Carr, o
Victor Serge su L’anno primo della rivoluzione russa, o almeno I dieci giorni che sconvolsero il
mondo, di John Reed, per risparmiarsi le battute sui “Palazzi d’inverno” e sulle “minoranze
giacobine”.
La rivoluzione russa non è stata un putsch di una minoranza prepotente e sopraffattrice, di
un’avanguardia “illuminata” che pretendeva di supplire ai vuoti nella coscienza delle masse, è stato un
gigantesco movimento di masse autorganizzate (mai sentito parlare dei soviet?).
Lenin nel novembre 1916, pochi mesi prima dell’inizio dell’esplosione del movimento di massa,
parlando a Zurigo ai giovani socialisti di quella città, aveva previsto la dinamica della rivoluzione,
indicandola come necessario sviluppo delle contraddizioni della società russa, ma aveva aggiunto
che probabilmente la sua generazione non avrebbe fatto in tempo a vederla. Un errore di previsione
che è però la smentita clamorosa al mito reazionario (e poi stalinista!) delle rivoluzioni “decise
dall’alto” da una minoranza sobillatrice. Su questo, tra l’altro, Lenin, Rosa e Trotskij nel 1917
e 1918 erano completamente d’accordo!
Tutti gli orrori non nascono dalla rivoluzione (tra l’altro, ma non è questo l’essenziale, in
Russia fu straordinariamente incruenta) ma dalla controrivoluzione, appoggiata dall’intervento di
tutte le maggiori potenze imperialiste, con l’avallo, quando occorreva, delle rispettive
socialdemocrazie. È stata la guerra civile, combattuta con un poderoso sostegno esterno, a innescare la prima
fase dell’involuzione, distruggendo il sistema dei trasporti, e di conseguenza bloccando
l’industria, e quindi rendendo i soviet un puro nome, perché il loro pregio principale, la revocabilità, si
basava sull’esistenza nelle fabbriche di una classe operaia con un’ esperienza sedimentata: al
termine della guerra civile le fabbriche erano ormai vuote, e quando si riempirono di nuovo la classe
operaia era un’altra, senza esperienza, senza una coscienza creata con le lotte (e non con
l’indottrinamento autoritario, che comincia solo con la “Leva Lenin” del 1924 voluta da Stalin contro le
esplicite indicazioni di Lenin).
Su questo ho scritto parecchie dispense nel corso degli anni per i miei studenti, senza
pubblicarle (a pochi lettori e pochissimi editori interessa ancora la storia e la preistoria dell’URSS), ma
se qualcuno me lo chiedesse, potrei spedirgli i testi che discutono proprio questi problemi.
Lenin e Rosa
Ma veniamo a una delle questioni centrali. Se Trotskij è ancor oggi vittima degli echi di antiche
calunnie, Rosa invece soffre per troppo frequenti elogi che prescindono da quel che ha detto
veramente sulla rivoluzione russa. Anche in un intervento su “Liberazione” di un compagno per altri
versi molto stimato per le sue limpide battaglie sindacali e politiche, e di cui non a caso a volte
BaRoNews ha ripreso gli interventi, c’era un riferimento a Rosa abbastanza improprio, che discende
da una lunga tradizione di utilizzazione del suo nome per una polemica indiretta con Lenin e più
diretta con Trotskij, inaugurata da Lelio Basso, ma che ha avuto molti continuatori, da accademici
malamente approdati come Marramao, a un’intera generazione di leader della “sinistra sindacale”
come Trentin, Garavini, ecc., che la usavano insieme a una mitizzazione dei teorici di quella “terza
via” austromarxista che doveva “superare” bolscevismo e socialdemocrazia, e che finì per approdare
alla Seconda internazionale ma soprattutto portò alla catastrofe del 1934 (mai ricordata dagli
apologeti dell’austromarxismo, che si limitavano a brillanti esegesi delle opere in cui tutte le
contraddizioni erano - sulla carta - superate).
Questo uso mitologico di Rosa in contrapposizione a Lenin e Trotskij era così diffuso nella
sinistra dei partiti riformisti (accanto al PCI c’era anche il PSI e c’era stato il PSIUP, non
dimentichiamolo) che era penetrata anche nella cosiddetta “nuova sinistra”: in Democrazia Proletaria era
rituale l’omaggio a Rosa, “che sul partito aveva ragione contro Lenin”. Ad esempio, Giovanni Russo
Spena, nella relazione al Congresso di Riva del Garda del 1988, aveva scritto che l’esperienza
sandinista aveva “spiegato in maniera definitivamente persuasiva” che “nel 1918 aveva ragione Rosa
Luxemburg e avevano torto i bolscevichi”, e Luigi Vinci aveva fatto un elogio della “splendida
polemica di Rosa Luxemburg nel 1918 contro l’ipercentralismo bolscevico” In entrambi colpiva il
riferimento al 1918, basato evidentemente su una reminiscenza dello scritto su La rivoluzione russa, che
contiene critiche interessanti che meritano di essere discusse, ma su altri problemi.
La mitizzazione di Rosa Luxemburg contro Lenin sorvolava sulle molte ammissioni di Rosa, proprio
in quel fatale 1918, sui meriti essenziali dei bolscevichi. Rosa nel corso delle ultime fasi della
sua vita comprese drammaticamente che la classe operaia tedesca aveva tempi strettissimi che non
le avrebbero consentito di ricavare – “al momento buono”, come aveva pensato anni prima - tutte le
lezioni necessarie per evitare la sconfitta della rivoluzione. Negli ultimi articoli Rosa sembrava
avere accantonato persino le sue critiche (peraltro giustissime) ai bolscevichi sullo scioglimento
dell’Assemblea costituente, dato che anche per la Germania contrapponeva la generalizzazione dei
consigli (la versione tedesca dei soviet) alla partecipazione alle elezioni.
Nel 1918 Rosa si batteva con decisione per trasformare l’informe e semianarchico movimento
spartachista in un partito centralizzato, e aveva ripreso anche formalmente molti degli argomenti di
Lenin. È noto che la Luxemburg, insieme a Liebkhnecht e ai più sperimentati quadri spartachisti, fu
messa in minoranza dalle giovani leve estremiste nel I Congresso della KPD, non solo sulla tattica
verso i sindacati o sulla partecipazione alle elezioni, ma anche sulla concezione del partito: per
reazione alla rigidità burocratica della SPD, contro cui Rosa aveva combattuto per anni, la
maggioranza dei giovani delegati rifiutò perfino l’elementare principio della subordinazione delle
strutture locali a quelle centrali.
Molti studi hanno messo in luce, d’altra parte, che anche negli anni delle più aspre polemiche con
Lenin, Rosa Luxemburg applicava un rigido centralismo nel piccolo Partito socialdemocratico del
regno di Polonia e Lituania (SDKPiL), che dirigeva con pugno di ferro insieme a Leo Jogiches e Felix
Dzerzinskij.
Ne sapeva qualcosa Karl Radek, che dirigeva l’organizzazione di Varsavia e che fu
espulso dalla SDKPiL con criteri assai discutibili, che Lenin criticò duramente; Rosa tentò
successivamente di farlo espellere anche dalla SPD, accusandolo persino di appropriazione indebita. Va
detto che nel corso della rivoluzione tedesca Rosa e Radek si trovarono a collaborare e riuscirono
perfino a ristabilire un rapporto personale corretto a partire dalla forte convergenza politica sui
compiti del momento.
L’attribuzione a Rosa nel 1918 di una critica alla dittatura del partito sulle masse e di un uomo
sul partito è assolutamente fantasiosa: si tratta di un amalgama anacronistico, che impasta le
critiche che, come Trotskij, Rosa muoveva a Lenin nel 1903-1904 con quelle, ben diverse, del famoso
scritto del 1918 in cui, come dovrebbe essere noto se lo si citasse dopo averlo letto, criticava
non tanto lo scioglimento in sé dell’Assemblea Costituente (che non giudicava affatto “l’unico vero
parlamento democratico mai avuto dalla Russia”) quanto la sua mancata rielezione dopo averlo
sciolto perché – per il modo in cui era stato eletto – non era realmente rappresentativo e rifletteva i
vecchi rapporti politici e sociali della Russia prerivoluzionaria. Questa critica ci sembra – lo
abbiamo scritto da anni – del tutto condivisibile.
Ma Rosa denunciava anche con asprezza dogmatica
due scelte inevitabili della rivoluzione: il decreto sulla terra e quello che riconosceva il
diritto all’autodecisione dei popoli. Criticava il primo in nome della classica ostilità della seconda
internazionale nei confronti di una soluzione mutuata dai populisti, che permetteva la formazione
di uno strato piccolo borghese nelle campagne; il secondo, per la sua astratta incomprensione
della questione nazionale (che la rese così invisa ai polacchi).
Tuttavia l’una e l’altra scelta non erano frutto di “errori ideologici” di Lenin e Trotskij, ma di
una necessità assoluta della rivoluzione, che non avrebbe mai vinto senza l’alleanza oggettiva con
la rivoluzione contadina e con la lotta dei popoli oppressi per l’indipendenza. Quindi andiamoci
piano a mitizzare quello scritto del 1918, che per le condizioni in cui fu scritto, e soprattutto
per la data (appena pochi mesi dopo l’Ottobre, quando i bolscevichi dovevano solo pensare a
sopravvivere), non può dirci nemmeno un briciolo di quello che a partire dal 1923 dissero – dall’interno
– i prestigiosi militanti che anticiparono Trotskij nella costruzione dell’Opposizione di
sinistra, che furono poi sterminati e vengono ancora assurdamente dimenticati.
Quanto alla concezione del partito e del suo rapporto con le masse, se Trotskij ebbe tempo e modo
per autocriticarsi, essendo arrivato nel 1917 a convincersi che il partito costruito dai
bolscevichi sulla base del progetto di Lenin era uno strumento essenziale e insostituibile, al punto di
divenire per tutta la vita il suo più tenace difensore, anche Rosa tuttavia, se ebbe indubbiamente
meno tempo per sistematizzare la riflessione che l’aveva portata durante la guerra ad avvicinarsi ai
bolscevichi (la sua produzione dell’ultima fase consisteva quasi esclusivamente in brevi articoli
di battaglia), ha fornito con le sue scelte concrete e con le prese di posizione nel I Congresso
del Partito comunista tedesco abbondanti argomenti per inficiare la pervicace riproposizione dei
dibattiti del 1903-1904 come se non ci fosse stato nulla dopo (e soprattutto come se non ci fosse
stata una tragica e cruenta verifica dell’infondatezza delle sue illusioni sui ritmi di maturazione
automatica e spontanea delle masse operaie attraverso la loro sola e diretta esperienza).
Perfino nel tanto citato (quasi sempre a sproposito) saggio su La rivoluzione russa (scritto in
carcere e non destinato alla pubblicazione), Rosa aveva reso omaggio in maniera inequivocabile al
bolscevismo:
L’andamento della guerra e della rivoluzione russa hanno provato non l’immaturità della Russia, ma
quella del proletariato tedesco nei confronti dei propri compiti storici, e il rilevarlo con tutta
la chiarezza non rappresenta che il primo dovere di un esame critico della rivoluzione russa. Le
sue sorti dipendevano pienamente dagli avvenimenti internazionali. Che i bolscevichi fondassero
completamente la loro politica sulla rivoluzione mondiale del proletariato è veramente la più
splendida testimonianza della loro lungimiranza politica e dalla loro saldezza di principi. (Rosa
Luxemburg, Scritti scelti, a cura di Luciano Amodio, Einaudi, Torino 1975, p. 568).
Ma anche Lenin aveva corretto le posizioni del Che fare? già durante la rivoluzione del 1905.
Sicché riproporre oggi la contrapposizione del 1903 sul partito tra Rosa e Lenin spostandola al 1918
fa torto a tutti e due, che per ragioni diverse si erano molto riavvicinati (come d’altra parte
aveva fatto - anche sul terreno organizzativo - Trotskij, che subito dopo il II Congresso del POSDR
era stato molto vicino a Rosa condividendone le critiche).
Ci sembra anche utile ricordare sommariamente (ne abbiamo scritto più a lungo altrove) che
immaginare che l’involuzione del partito bolscevico e poi dell’URSS sia stata determinata da questo o
quello scritto di Lenin (e in particolare da quel famigerato Che fare? che pochi anni dopo egli
stesso aveva rimesso in discussione) sottovaluti idealisticamente la terribile materialità
dell’isolamento in un paese “barbaro e arretrato” distrutto per giunta dalla guerra civile, dal blocco dei
porti e dall’intervento straniero. Tanto più che quel partito, perfino durante la terribile
insicurezza della ferocissima guerra civile mantenne il diritto a un dibattito aperto, con tendenze e
“frazioni pubbliche”: solo nel 1921, nel panico ingenerato dall’insurrezione di Kronštadt, il diritto
di frazione fu “temporaneamente” sospeso. Il temporaneo divenne con Stalin, così permanente che
anche un partito che si dice e vorrebbe essere della “rifondazione” comunista più di ottanta anni
dopo ha ancora paura di quella forma di organizzazione democratica!