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Venezuela, il giorno più lungo

Publie le domenica 15 agosto 2004 par Open-Publishing

Quindici milioni al voto per il referendum che deciderà la sorte di Hugo Chavez. In caso di sconfitta dovrà lasciare la presidenza

di Angela Nocioni

Caracas - Sprofondata in una stuoia fradicia di pioggia, una vecchia indovina scruta le alternative incerte delle carte. «Chavez vincerà. Il cielo sta con lui» sussurra all’immagine stinta di Santa Barbara, protettrice dei guerrieri.

Plaza de la Candelaria, 11 del mattino. Cuore della Caracas ovest, roccaforte chavista. Vista da qui, dal regno delle cartomanti e degli ambulanti assiepati sul marciapiede, la vigilia del giorno più lungo del Venezuela sembra un giorno normale. Il solito girone assordante di furgoni dalle marmitte sfondate, clacson, tamponamenti, sirene eternamente spiegate. A 24 ore dal referendum che dovrebbe segnare una svolta nella storia del Paese, Caracas si agita, apparentemente distratta, nel suo moto perpetuo. Resse ai mercati, insulti ai semafori, mani tese agli incroci.

Oggi 14milioni di venezuelani sono chiamati alle urne, su richiesta dell’opposizione, per revocare il mandato di Hugo Chavez Frias. Si vota No per confermare il presidente. Si vota Sì per cacciarlo. Il litigiosissimo fronte antichavista per vincere ha bisogno non solo di battere i No, ma di superare la soglia dei 3milioni e 700mila voti: è necessaria almeno una scheda in più di quelle con cui Chavez fu confermato alla presidenza nel luglio del 2000. Per essere valido il referendum deve ottenere il quorum minimo del 25%. L’opposizione si dice certa di trionfare. Il governo pure. I sondaggi danno il presidente vittorioso con un margine che oscilla dal 2 al 20%: ciò nonostante i toni della campagna sono tesissimi, specchio di un Paese diviso in due, perennemente sull’orlo della guerra civile.

Quartiere Las Mercedes, mezzogiorno. Ai tavolini dei ristoranti all’aperto si dà appuntamento la Caracas est, segregata nel recinto a 5 stelle delle sue ville con piscina. Un pianeta lontano, un mondo separato fatto di catamarani, vacanze in Europa e fine settimana a Miami. «Questa volta se ne va all’Avana per sempre. Il Venezuela non è Cuba» sono i commenti eccitati delle tribù di griffatissimi trentenni parcheggiati giorno e notte al caffé "Moulin Rouge".

Oltre il profilo dei grattacieli, lungo il confine invisibile della città divisa in due, centinaia di manifesti dell’opposizione coprono i casermoni in cui vive la piccola borghesia che arranca. Una porzione minima degli abitanti della capitale, ma probabilmente decisiva per l’esito del referendum. Il fronte del Sì ripone qui molte delle sue aspettative, convinto di poter contare sulla presunta esasperazione di chi, povero ma non poverissimo, nel ’98 votò entusiasta Chavez, nel 2000 rinnovò la sua scommessa e adesso, stanco e disilluso, sarebbe pronto ad andare alle urne per revocargli il mandato.

Arbitro della battaglia è il Consiglio nazionale elettorale (Cne), frutto di un tavolo di mediazione tra i due schieramenti, organismo almeno teoricamente neutrale. Il Centro Carter e l’Organizzazione degli stati americani assistono come osservatori all’intero processo. Il Cne ha fatto sapere di non poter garantire il risultato certo del voto entro domani. Enrique Mendoza ricchissimo governatore dello stato di Miranda, uno dei leader dell’opposizione, ha minacciato già una settimana fa di violare il regolamento elettorale: dichiarerà Chavez sconfitto non appena sarà in possesso dei primi dati. Il governo ha risposto che non gli sarà permesso, senza spiegare però come intende impedirglielo.

Il braccio di ferro del referendum ha assunto ormai i toni surreali di una contesa tra nemici che fingono di essere d’accordo sulle regole del gioco mentre si preparano alla guerra. Rispunta Carlos Ortega, ex leader della centrale sindacale venezuelana, garante del patto di ferro stretto dal sindacato giallo con il generale Medina, il cervello del golpe dell’11 aprile 2002. Era scappato in Costa Rica inseguito da un mandato di cattura, ma ha improvvisamente deciso di rimpatriare. Hugo Chavez torna ai toni duri con Washington. Lui, che da qualche tempo sembrava voler ammorbidire i rapporti con il 1° acquirente del petrolio venezuelano, ha chiuso la campagna con un fiume di accuse alla Casa Bianca. «L’opposizione venezuelana è solo una maschera. Lavora per conto di George Bush. Sarà sconfitto, mister Bush. Gli osservatori elettorali li mandi in Florida».

Il presidente si dice certo di stravincere. Conta su l’effetto di ritorno dei vasti programmi di riforme sociali accelerati negli ultimi mesi. Decine di migliaia di medici cubani spediti nelle baraccopoli, riforma agraria in marcia, piani di alfabetizzazione: una rivoluzione nel Paese dell’apartheid e del lifondo, sostenuta da movimenti sociali radicali, ma accompagnata da un crescente coinvolgimento dell’esercito nella vita pubblica. Chavez la chiama «alleanza civico-militare» e se gli chiede perché in 6 anni di presidenza non abbia saputo fare a meno dei generali al governo, risponde citando Simon Bolivar, el libertador: «Giuro davanti a Dio che le mie braccia non avranno riposo e la mia anima non conoscerà sollievo finché non saranno rotte le catene che opprimono il popolo».

Alle telecamere delle televisioni private venezuelane, tutte in mano all’opposizione, che volteggiano sul palazzo di Miraflores preparando la diretta sulla caduta del "caudillo rosso" indica i ranchitos, le sterminate baraccopoli arrampicate sulle montagne che dominano dall’alto ogni accesso alla capitale. «Il popolo mi ama e io amo il popolo. Questa rivoluzione è la sua rivoluzione». Ai suoi sostenitori grida: «Viva Cristo». «Viva Peron». «Viva l’America libera». «Viva Cuba». «Viva Evita». Loro ballano, piangono. Restano per ore in piazza ad applaudirlo: «Viva Chavez». «Viva la rivoluzione».

Se ha senso domandarsi quanto sia "di sinistra" tutto ciò, quanto populismo ci sia nella ricetta chavista per il potere, si potrebbe tentare, nel cercare una risposta, di non distogliere lo sguardo dal lampo di orgoglio che accende sotto il palco gli occhi di quei poveri cristi cresciuti in strade senza fogne e senza nome, ai quali un tenente colonnello dai toni messianici ha regalato l’illusione di avere diritto di cittadinanza nel Paese in cui sono nati. Lì risiede l’enigma della rivoluzione bolivariana. Su quel lampo oggi Hugo Chavez Frias si gioca la sopravvivenza alla presidenza della Repubblica.

http://www.liberazione.it/giornale/040815/LB12D6C4.asp