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Venti di marzo

Publie le venerdì 23 gennaio 2004 par Open-Publishing

Sono passati dieci mesi - o poco più - da quando una giornalista del Tg3 fece irrompere sugli
schermi di tutto il mondo i bagliori delle prime bombe su Baghdad. Da quel 20 marzo 2003 viviamo
nell’era della guerra preventiva - modernissimo ritorno alla premodernità antecendente la pace di
Westfalia del 1648. Qualche giorno fa il presidente Bush ci ha detto che intende andare «fino in
fondo». Non ha spiegato quale sia il fondo. Nelle settimane precedenti la notte di Baghdad sembrava che
sulla scena mondiale fosse apparsa una nuova superpotenza - parola di New York Times - enorme e
globale, mite e determinata, eterogena e coesa.

Milioni di donne e uomini, muovendosi in direzione
opposta a quella delle armate che gonfiavano il Golfo Persico, sembravano porre un argine di
ragionevolezza alla follia della guerra. Quella «superpotenza» è poi stata sommersa dal rumore delle
armi e dal silenzio della morte, da una catena che stringe sempre di più la morsa del binomio
guerra-terrorismo.

Eppure, nonostante i civili e i soldati ammazzati, le bombe e i kamikaze, le finestre delle nostre
città sono ancora colorate dalle bandiere arcobaleno e le opinioni pubbliche mondiali - anche
quella americana - continuano a coltivare un’ostilità profonda verso la guerra preventiva, sanno
quanto non risolva ma aggravi quell’insicurezza che per Bush starebbe alla base del suo «andare fino in
fondo».

E’ in questo mix di silenzi e parole che dal Social Forum di Bombay arriva l’appello per una
giornata mondiale di mobilitazione contro la guerra per il prossimo 20 marzo, l’anniversario dei
bagliori di Baghdad: la pacifica superpotenza vorrebbe ritrovare corpo e voce per rendere visibile ciò
che rimane nascosto nelle pieghe dell’era bellica. E trovare una via d’uscita.

Contro il massacro dei corpi, il loro essere ridotti a strumento militare, contro l’obliterazione
delle menti prodotta dalla paura non abbiamo altro strumento che la presenza pacifica di altri
corpi che, insieme, percorrano una stessa strada, di altre menti che si confrontino mettendosi in
comune. Da sempre è questo il senso più profondo della democrazia, l’antidoto contro il virus
autoritario.

Per questo sarebbe bene che anche in Italia venisse rilanciata un’iniziativa di pace, affrontando
e superando tutto ciò che la frena, anche le timidezze e le divisioni che oggi attraversano i
milioni che erano scesi in piazza lo scorso 15 febbraio. Nessuno possiede il copyright dell’iniziativa
contro la guerra permanente, nessuno può dire che l’obiettivo del ritiro delle truppe italiane
dall’Iraq è cosa sua, perché questo è il minimo che dobbiamo chiedere. Il movimento che era sceso in
campo alla vigilia della seconda guerra del Golfo possedeva la forza dell’eterogeneità e
l’autorevolezza di un obiettivo chiaro e condiviso, evitare la guerra.

Oggi che quest’ultima continua e si
allarga in un conflitto dispiegato a tutti i livelli, il senso di quella pratica concreta è
l’unico mezzo idoneo per affrontare l’orrore dell’aggettivo «permanente», proprio perché con esso
dovremo continuare a confrontarci a lungo. Partendo dal prossimo 20 marzo, per evitare che il ricordo
dei bagliori di Baghdad si trasformi in un incubo che paralizza e toglie il sonno.

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