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Quanti spettri si aggirano nel nostro dibattito! Sono le nostre biografie,
talvolta giocate a tumulare il futuro nei sepolcri della tradizione. Sono l
Quanti spettri si aggirano nel nostro dibattito! Sono le nostre biografie,
talvolta giocate a tumulare il futuro nei sepolcri della tradizione. Sono
le ombre sinistre dell’ortodossia, sempre accaldate dai sudori dello
storicismo. Sono i fantasmi della nostra sconfitta, esorcizzati dal
restauro pedante della dottrina.
Ma come si fa ad invocare sempre e comunque, come un riparo di fortuna, i
tornanti aspri della storia globale pur di non guardare mai in faccia la
storia parziale del comunismo novecentesco? Certo che sono avvitati in un
nesso inscindibile, la nostra "parte" e il "tutto" di un secolo infuocato,
certo che la storia non si taglia a fette con la lama dell’opportunismo,
certo che non serve abusare di codici moralistici per recidere la radice
del male: ma l’impressione è che ci sia chi preferisca, ancora oggi,
l’agiografia al posto del costume critico, la narrazione delle glorie
piuttosto che la trattazione degli orrori.
Il Gulag è un esito che non consente alibi, giustificazioni, contorsionismi
semantici. E non è inscrivibile in nessuna rubrica degli errori e delle
degenerazioni: appare come il compimento parossistico di quella
statolatria, staliniana e comunista, che capovolse nel sangue il senso
stesso di una missione che intendeva liberare le masse dalla separatezza
gerarchica della statualità. La centralità esponenziale del primato del
Politico (il Partito, la macchina dello Stato, fino al Partito-Stato) è lo
snodo, teorico e pratico, di una parabola nata e morta con il Novecento:
non a caso, nella straordinaria libertà intellettuale del suo esilio
carcerario,
Gramsci intuisce la deriva dello stalinismo e contemporaneamente reagisce
alla lettura "crollista" della crisi capitalistica, elabora la teoria
dell’egemonia e della "conquista delle casematte", pur mentre si cimenta
con le ragioni di lungo periodo della sconfitta del movimento operaio
europeo. Il Partito non fu un "moderno Principe" o un "Intellettuale
collettivo", come nella suggestiva provocazione gramsciana, ma una
nomenclatura autoreferenziale e sacralizzata, un’entità metafisica:
sovraordinatrice e indiscutibile. Il Potere non fu sciolto dal fuoco della
libertà di massa e dell’autogoverno, ma congelato e cristallizzato da una
burocrazia che lavorò alacremente per ibernare ogni movimento sociale e per
privatizzare la politica come contenzioso interno ad una casta sacerdotale.
Ogni storia ha la sua storia. Ma il Gulag torna come un chiodo fisso in
questa parodia tragica del "sogno di una cosa": in Siberia, in Cina, nella
Corea del Nord. Come l’icona indicibile di una pedagogia autoritaria e
funebre, come punizione salvifica del nemico effettuale e di quello
potenziale, come pianificazione della superiore verità di un Politburò o di
un Comitato Centrale. Senza rompere qui, dove c’è l’eredità di quella
cortina di ferro che possiamo chiamare "autonomia del politico", non saprei
come ricominciare a pensare il comunismo: non per civetteria da
tardo-utopista, bensì come bisogno e necessità di un pianeta soffocato dal
dolore sociale e dalla guerra infinita. Senza questa rottura non saprei
neppure rivendicare il "filo rosso" (politico, non solo emotivo e morale)
con la vicenda straordinaria di milioni di persone che, nel darsi il nome
di comunisti/e, fuoriuscivano dall’anonimato senza storia delle plebi,
costruivano la politica come liberazione dall’ingiustizia, introducevano
nella modernità le domande più radicali sulle relazioni sociali e sui
rapporti di produzione.
Occorre volgere lo sguardo all’indietro, non per celebrare e magari
sopravvivere. Ma per vivere, per capire, per imparare. Una critica
comunista del comunismo novecentesco non è un lusso per il tempo libero, ma
la pre-condizione della fatica della rifondazione. E storicizzare non
significa giocare a nascondino con i buchi neri della nostra storia,
trovare sempre contesti che occultano e omettono a piacimento, ridisegnare
i fatti dentro una sorta di esegesi provvidenziale. Altrimenti anche certa
ridondanza storicistica diventa una fuga metafisica dalle proprie
responsabilità.
Ci pesa questo passato, impaccia i nostri passi di libertà: se fossimo un
museo, andrebbe bene. Ma siamo un partito che non si sente orfano della P
maiuscola, che non si sente depositario del bene e del male, che non
intende mai più dispensare sentenze di vita e di morte, che non ha la
presunzione di presentarsi come la sintesi matura del movimento e del
conflitto sociale. Per crescere, un partito così deve essere agìto e
vissuto come uno dei luoghi in cui si pensa e si pratica una grammatica
inedita del rapporto tra comunità e libertà.
Il Novecento si è schiantato sotto il peso di una sconfitta e di una
vittoria. La nostra sconfitta. La vittoria del Capitale come ideologia
della fine della storia, cioè della estinzione del pensiero critico e come
generalizzazione molecolare dei processi di mercificazione. Il Potere, nel
tempo della globalizzazione liberista, non ha un Palazzo d’Inverno ma
infinite e stratificate "zone rosse": nella produzione, nella riproduzione,
nella gerarchia dei valori e delle forme di coscienza, nel corpo sociale e
persino nel corpo individuale.
Espugnare ciascuno di questi territori
proibiti, sabotare ciascun deposito di comando autoritario, disobbedire
alle leggi del diritto del più forte, disarmare la macchina della guerra
preventiva e permanente: questi sono i compiti a cui ci ha allenato il
"movimento dei movimenti". Sapendo che il capitale del Capitale è nei
codici profondi della cultura, dei saperi, dell’immaginario: dove si
costruiscono i sogni e gli incubi dell’umanità, dove si eternizza la
barriera sociale e si naturalizza l’oppressione, dove si costruisce ogni
gerarchia e ogni frattura tra i sessi e tra individui e tra fedi e tra
popoli, dove si proietta la vita intera nella guerra e la guerra intera
nella vita.
Noi siamo figli di una vicenda che indicò alla brutalità necessitata dei
mezzi la soglia alta di un fine supremo: trascendere la violenza ontologica
del capitalismo. Abbiamo imparato che i mezzi cattivi si mangiano il fine
buono, e cioè che i mezzi sempre prefigurano il fine: e non sto parlando
dei vietcong o dei partigiani, ma del comunismo che si appropria del
monopolio statuale della violenza. Non voglio mettere le brache alla
storia, voglio rischiare qualcosa o molto di me stesso nel costruire la più
radicale pratica di trascendimento della costituzione materiale e simbolica
del potere e della sua violenza: non voglio che il mio antagonismo produca
azioni (e immagini) simmetriche alla violenza che combatto. Non voglio che
l’ombra del mio avversario (che è una forma del potere e
dell’organizzazione sociale) mi divori l’anima, mi disumanizzi, mi faccia
smarrire il senso stesso della rivoluzione che sarà, che è già cominciata:
non un assalto alla baionetta, ma un processo largo e profondo di
costruzione di un "nuovo mondo possibile".
da liberazione