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Washington onora gli Indiani d’America

Publie le martedì 28 settembre 2004 par Open-Publishing

Dazibao


Dal 21 settembre, il Mall della capitale federale ha un nuovo museo, che
onora le culture dei popoli nativi degli Stati Uniti.


di Corine Lesnes

Un rinnovamento indiano ? Gli interessati sono quasi imbarazzati.

« Quando si é dentro, spiega John Beaver, un giovane della tribù dei Muscogee-Creek,
non ci se n’accorge. » Aggiunge poi modestamente : « Vi succedono moltissime
cose, questo é tutto . » John Beaver ha completato l’anno scorso un terzo ciclo
di antropologia all’università di Chicago. Specializzazione : l’archeologia nordamericana.
Checché ne dica, é uno dei giovani protagonisti del rinnovamento. Il loro look
non ha niente a che vedere con le trecce e i capelli lunghi della generazione
precedente. Sono ricercatori, imprenditori, cineasti, giuristi. Il diritto tribale
non é mai stato tanto studiato.

Il giovane archeologo si é appena stabilito a Washington per lavorare al Museo nazionale degli Indiani d’America, che ha aperto le porte il 21 settembre nel cuore della capitale federale. Egli fa parte dell’unità incaricata di rendere alle tribù gli oggetti sacri portati via dagli esploratori occidentali. Già prima dell’inaugurazione il Museo ha reso circa 2000 pezzi ai loro proprietari originali. Sono oggetti rituali che erano spariti, come la tunica di danza dei Mechoopda della California (che l’hanno immediatamente copiata per ricreare una danza che non era più stata praticata dal 1906) o resti umani asportati dai collezionisti (il Museo conserva qualcosa come 300 sacchi di ossa).

Come testimonia il Museo nationale di Washington, il mondo indiano é in piena rinascita negli Stati Uniti. Dopo la politica di assimilazione forzata degli anni 50 e le rivendicazioni violente degli anni 70 é venuto il tempo della ricostruzione, del ripopolamento, della reintroduzione dei bisonti...Dai berretti « Indian Pride », che si vedono nei pow wow, fino al ritorno della Sundance, la « danza del sole », alla quale domandano di partecipare giovani Americani in cerca di spiritualità, la cultura indiana si ricostruisce. Nell’Est, dove l’assalto fu più pesante, le tribù si riformano.

Talune non avevano più tradizioni. Per ricreare dei riti hanno fatto appello ai Cherokees, la nazione storicamente più istruita che ebbe un alfabeto (con 85 caratteri) dal 1812 ed un giornale dal 1828.

Nel Minnesota, i Chippewa hanno restaurato la cultura in senso primario. La tribù ha ripiantato del riso selvatico (manoomin) e ricreato la cerimonia della mietitura. In California, i Winnemem Wintu hanno rilanciato il 14 settembre una cerimonia guerriera che non era stata praticata dal 1887: per opporsi alla diga di Shasta, nel nord dello stato.

Questo rinnovamento non puo’ celare il fatto che gli Indiani restano gli abitanti più poveri del paese con redditi pro capite inferiori di un terzo ed un tasso di disoccupazione due volte maggiore (6%). Ma, nelle grandi pianure del nord, dove la desertificazione avanza, le riserve sfuggono alla tendenza generale allo spopolamento. Gli effettivi di certe tribù sono aumentati di un quarto. « I nuovi venuti hanno provato a fare dell’agricoltura. Si sono legati ad un modello economico. Non é il caso degli Indiani » , spiega Gerald McMaster, direttore delle esposizioni al museo di Washington.

L’argomento é quasi tabù nelle tribù, ma é chiaro che i soldi delle case da gioco hanno largamente contribuito a questo rinnovamento. Da quando la Corte suprema ha autorizzato il gioco d’azzardo nelle riserve nel 1987, il 40% delle 562 tribù riconosciute dalle autorità federali hanno costruito una casa da gioco o uno stabilimento di bingo. Sono stati cosi’ creati 400 000 posti di lavoro (il 25% dei quali occupati da non Indiani). Fra la costernazione di certuni, il denaro delle case da gioco ha finanziato anche una parte del Museo. Le tre tribù più ricche hanno dato 10 milioni di dollari ciascuna, cioé più di un terzo dei fondi raccolti nel settore privato, mentre il Congresso ha stanziato 119 milioni di dollari. Gli Oneida, di New York, hanno anche finanziato un nuovo albergo accanto al museo.

Creato con un atto legislativo del 1989, il Museo nazionale degli Indiani d’America ha aperto il 21 settembre, vigilia dell’equinozio, alla presenza di parecchie migliaia di “nativi americani” con le parures tradizionali, fieri di trovare posto sul Mall della capitale federale, la grande spianata che va dalla Casa Bianca al Campidoglio.

Il Museo é stato costruito sull’ultimo terreno disponibile: era anche il più vicino al Campidoglio, accanto al Museo dell’aria e dello spazio. Insieme al piacere di vedersi finalmente riconosciuti, malgrado questa terra sia dopo tutto quella degli Algonquini, certi nativi americani mescolano l’ironia: “I primi in questo paese, gli ultimi sul Mall”. Il Museo é il diciottesimo della Smithsonian Institution, la fondazione che gestisce il patrimonio nazionale. E’ basato essenzialmente sull’enorme collezione (800 000 oggetti) ammassata all’inizio del XX secolo da George Gustav Heye, un ricco industriale, e presentata finora a New York. Tutto é stato fatto per garantire che il museo non sia uno strumento etnografico di più. Non si tratta di esposizioni « a proposito dei nativi americani », spiega W. Richard West, il direttore, egli stesso di origine cheyenne, ma di esposizioni « degli stessi Nativi americani ». Le tribù hanno partecipato al progetto architettonico, che usa pietre calcaree del Minnesota, scavate dagli elementi. Nei giardini sono stati piantati mais, tabacco e piante tradizionali. “Dalla fine del XIX secolo il discorso sull’Indiano in via di sparizione é lo stesso. Tutti i musei funzionano in questo quadro. E’ quello che noi cerchiamo di cambiare » , dice il signor McMaster, lui stesso creek.

Ventiquattro tribù presentano la loro storia su cinque piani. Hanno attinto dalla collezione permanente gli oggetti che intendevano mostrare. Hanno scritto i testi. E’ prevista una rotazione ogni due anni. Il museo presenta sia arte moderna che elementi della cosmogonia indiana, immagini della vita quotidiana e perfino un muro d’oro, fatto di 408 figurine precolombiane, maschere e pezzi del mondo azteco, maya e inca, che facevano parte anch’essi della collezione Heye.

Il posto riservato alla guerra, alle deportazioni ed alle spoliazioni é minimo. Vi si vede il fucile che portava il capo apache Geronimo quando si é arreso nel 1886. Ma nessun omaggio e neppure un accenno a Sitting Bull, il grande capo sioux le cui truppe uccisero il generale Custer nel 1876 dopo che gli Americani si erano rimangiati la loro parola. E’ una scelta collettiva : le tribù hanno voluto evitare di ripetere l’indicibile. Ed il museo intende essere un’istituzione di « riconciliazione », secondo l’espressione del Signor West. « L’incontro é stato tragico per noi, é innegabile. Ma quello che vogliamo soprattutto é che i visitatori capiscano che ci siamo ancora ».

Il 21 settembre il Movimento indiano americano (AIM), alfiere della rivendicazione politica indiana, si é rammaricato che il Museo non mostri « la tragica e sordida storia » delle nazioni indiane. Quanto alla risoluzione con la quale il popolo americano doveva presentare per la prima volta delle scuse agli Indiani, é rimasta bloccata al Congresso.

Corine Lesnes

Contro il mito del « melting pot »

Winona LaDuke, una delle figure di spicco del movimento indiano, é stata candidata del Green Party con Ralph Nader per l’elezione presidenziale del 2000. La rivista Smithsonian ha pubblicato la sua testimonianza:

“Lavoro nelle comunità veramente conservatrici del nord del Minnesota, dice. Siamo una comunità circondata da non Indiani che non sanno neppure quali Indiani siamo. Parlano di noi dicendo « gli Indiani ». Non hanno nessuna idea della nostra storia. Conoscono pochissimo la nostra cultura. Allora, per noi é molto significativo avere qualcosa a Washington che dice che abbiamo importanza, avere un Museo sul Mall - il grande viale di Washington che collega il monumento a Lincoln al Campidoglio -. L’America si vede come una società multiculturale. Nei fatti é una società eurocentrica leggermente pgmentata da altre culture...Il mito del melting-pot. Gli Indiani americani sono un popolo che non si mescola. Siamo sopravvissuti ed abbiamo l’intenzione di esserci ancora fra 500 anni ».

Tradotto dal francese da Karl e Rosa - Bellaciao

Source:

http://bellaciao.org/fr/article.php3?id_article=9761