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Cambia il comunismo, gli anticomunisti no

Publie le martedì 8 marzo 2005 par Open-Publishing

Dazibao Partiti Partito della Rifondazione Comunista Parigi Rina Gagliardi

Riflessioni a margine del congresso di Rifondazione. E’ proprio la capacità di rinnovamento della sinistra che provoca l’irrigidimento dei suoi critici

di Rina Gagliardi

In fondo, l’avevamo detto: questo Congresso del Lido, che passa da un’emozione intensa all’altra, e da una scossa di adrenalina all’altra, è anche e soprattutto un congresso vero. Come non si usa quasi più in Italia - e forse in Europa. Come non si è abituati più a vedere nella sinistra italiana. Dev’essere soprattutto per questo che il sistema dell’informazione dedica alle seste assisi nazionali di Rifondazione comunista tanta attenzione e tanto spazio: non solo perché riconosce la centralità che il Prc si è guadagnato in questi anni sulla scena politica e sociale, ma perché avverte che in questa comunità qui riunita, pur nelle sue divisioni, anche molto aspre, pur nella tensione della sua ricerca, c’è qualcosa che altrove, nella politica, non c’è.

Un animale "diverso", insomma, come la famosa giraffa o il mitico liocorno. E tuttavia, quando si tratta di cogliere il senso vero di questa "diversità", anche i commentatori più intelligenti si smarriscono: non riescono a vederne la sostanza, l’essenza, la chiave. Non capiscono, in particolare, dove si colloca l’identità attuale di questo singolare Partito: comunista, certo, ma anche radicalmente innovatore rispetto alla tradizione novecentesca. Rivoluzionario, sì, ma sull’orizzonte nuovo del pacifismo e della nonviolenza. Tenacemente vocato alla trasformazione e al movimento, ancora, ma pronto, nientemeno, che a giocare la sfida della partecipazione ad un governo.

Questa complessità (sostantivo carico, anzi stracolmo di senso culturale e anzi filosofico) sfugge, per esempio, a un quotidiano arguto come Il riformista ("Bertinotti rimane rivoluzionario. Ma non per i prossimi cinque anni" titolava l’altro giorno). E sfugge ancora di più ai tanti giornali e telegiornali che hanno esaltato la riscoperta della "abolizione della proprietà privata", da parte di Fausto Bertinotti, come il tratto decisivo, nientemeno, che della sua proposta politica generale.

Nulla di innocente, naturalmente, e molto di strumentale. Ma c’è una "buona fede" di fondo, in questa rappresentazione dei comunisti del nostro tempo come quelli di sempre - di ieri, dell’altro ieri, degli anni Trenta. Un comunista, se è tale, se tale si dichiara e si declina, per loro non può che avere tre narici. Se non ha tre narici - e visibilmente né il segretario del Prc né il Prc nel suo insieme hanno questa fisionomia trinariciuta - allora vuol dire che non sono comunisti: e allora o sono "riformisti" o sono, più o meno, venduti. Un rivoluzionario, se tale si dichiara, dev’essere per forza uno con il mitra in mano, pronto a occupare il Palazzo d’Inverno o a ritirarsi sulla Sierra: se però l’immagine non corrisponde, se a Venezia si riunisce un gruppo di quadri e di militanti dall’aria "normale", e la maggioranza di loro dichiara di non credere più alla violenza come "leva di una nuova storia", e addirittura qualcuno di loro cita il Vangelo tra i testi che ci possono insegnare qualcosa, anche per trasformare il mondo, allora non è vero che sono veri rivoluzionarri. Come minimo, sono rivoluzionari "en travesti". Infine, sempre secondo questi analisti, men che mai un comunista può pensare di provare ad allearsi con altri (certo non comunisti) per cacciare un governo: se lo fa, è un "governista", uno che ha cambiato campo, pelle, identità.

segue a pagina Come dire: i corni del dilemma sono sempre e solo due. O si è brezneviani o si è anticomunisti. O si è ortodossi o si è "post". O si è fuori, in un ghetto dai colori riconoscibili, o si è dentro, comprati e venduti, nella stanza dei bottoni. Non dovrebbe venire in mente a qualcuno che, da quando fu varato questo schema riduzionistico, è successo di tutto, e quasi tutto è cambiato? Eppure, il positivismo resta curiosamente egemone. E l’anticomunismo è lo stesso di sempre: fermo, immobile, statico. Perché? In realtà, perché hanno paura. Se il comunismo fosse soltanto lo spettro del passato - il residuo nostalgico di un mondo che non c’è più, il protagonista di un drammatico fallimento, il soggetto di una "grande illusione", come diceva Furet - loro non avrebbero nulla da temere. Ma se il comunismo diventa, come sta diventando con Rifondazione, una nuova cultura politica, innervata dai movimenti e da una grande capacità di lettura del presente, abitata da molte e da nuove generazioni, speranze, capacità di incidere sulla realtà, allora sì che ridiventa un pericolo. Un problema. Un ingombro da esorcizzare.

Dunque, la complessità è il nemico principale. Lo vediamo, per esempio, anche in un "caso" a tutt’oggi molto discusso sui giornali: quello che vede protagonista la nostra amica e collaboratrice Ritanna Armeni. Un "caso" personale, certo, dove una donna, una giornalista eccellente, viene bersagliata da una incivile campagna di segno settario e misogino (perfino un intellettuale del calibro e dell’autorevolezza di Asor Rosa non resiste alla tentazione narcisista di moraleggiare ex-cathedra: per guadagnare consenso, o per ottemperare alla prigionia di un sistema consolidato di relazioni?). Ma anche una faccenda politicamente emblematica: una lobby politico-mediatica, che sta attraversando un momento difficile, vuole recuperare o consolidare il proprio ruolo e la propria influenza, e per fare questo si scaglia contro Ritanna Armeni con l’accusa di "intelligenza col nemico". Di tradimento. Appunto: una giornalista comunista e radicale, se tale si dice, non può peccare andando, nientemeno, che "in partibus infidelium". Se lo fa, non solo non è comunista: è complice. Se poi lo fa con successo, è davvero perduta. La dimensione della sfida, della dialettica, magari di un’avventura informativa e comunicativa di natura inedita non si dà, per definizione - la logica Amico\Nemico è la sola strada schmittianamente percorribile, o moralmente lecita. Appunto: la sola scelta consentita ad Armeni è la marginalità professionale. Come a Rifondazione è consentita soltanto la minorità politica. Curioso: quante volte li abbiamo sentiti questi argomenti? Mio Dio, è passato davvero tanto tempo. Almeno un secolo.

http://www.liberazione.it/giornale/050306/R_RINA.asp