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"A Pavia la mafia non esiste". Ovvero come negare la realtà più cruda.

Publie le lunedì 1 marzo 2010 par Open-Publishing

Esaustivo e dettagliato articolo pubblicato da Giovanni Giovannetti. Essendo Pavia sempre più la semplice succursale dormiente e dormitorio di Milano, processo che ha subìto una forte accelerazione a seguito della chiusura degli importanti siti produttivi sul territorio, è bene prendere anche le "buone" abitudini politico-sociali in uso nella capitale economica italiana. "La mafia non esiste" è un concetto argomentato e ripetuto meccanicamente da quelle figure istituzionali che dovrebbero avere funzione di controllo e contrasto: l’ha vomitato e continua a vomitarlo il Prefetto di Milano Gian Valerio Lombardi (il prefetto delle cariche golpiste delle centinaia di poliziotti e carabinieri alla INNSE di Lambrate), l’ha vomitato e continua a vomitarlo il sindaco Letizia Brichetto Arnaboldi, coniugata Moratti, la quale ha deciso insieme al suo allegro Consiglio Comunale di sopprimere la Commissione Antimafia proprio quando i lavori dell’EXPO 2015 si stanno realizzando.
E che nessuno osi dubitare della zelante onestà e laboriosità dei rappresentanti comunali milanesi, capaci di trasformare sigarette in denaro, come nel caso del Consigliere Pennisi (PdL).

A Pavia ci si è riuniti due settimane fa per la prima formale seduta dell’erigenda e nascente Commissione. I dubbi nascono sul fatto che nessuno dei componenti dell’intera Aula Consiliare, maggioranza ed opposizione, abbia mai masticato (almeno a sufficienza) un argomento così complesso sul quale va riversata un’enorme attenzione e lucidità. La nomina del Consigliere Luigi Vigna sembra essere una superficiale concessione al partito dell’Italia dei Valori (...di Di Pietro...), vero baluardo parlamentare di "moralità", con il gabbiano nel simbolo che potrebbe tranquillamente alzare la spada come il padanissimo Alberto da Giussano. Salvo poi esprimere il proprio diniego su una Commissione d’inchiesta sui fatti del G8, per carità.
Gli amici di sempre, magistrati e "poliziotti buoni", avrebbero potuto non digerire una diversa opzione dal Partito del Codice Civile.

Pavia, in buona sostanza, è città sonnacchiosa e tranquilla, nonchè discreta. Se poi a Milano, a soli 30 chilometri, negano l’esistenza di infiltrazioni criminali, perchè preoccuparsene qui? Meglio intervenire regalando il contentino della Commissione ai soliti scettici (in verità già sedati e contenti) e tornarsene presto a dormire. Pronti al risveglio a ripartire coi lavori di cementificazione al Parco della Vernavola, ad esempio.

Mattia Laconca - Pavia

DI GIOVANNI GIOVANNETTI

«La mafia non esiste» dicevano i boss negli anni Settanta; a Pavia la mafia non esiste, fa loro eco Marco Sacchi, in una lettera sul quotidiano locale del 16 febbraio scorso. Secondo Sacchi «è singolare scoprire che Pavia è il crocevia di attività fortemente illegali, dalla mafia alla camorra e al narcotraffico. Ancor più singolare è poi sapere che il tutto avviene con la connivenza di chi è deputato a controllare e reprimere questi loschi traffici "ignorati persino dalla locale Procura", come il Giovannetti dice» (ho accennato alle mafie sommerse locali due settimane fa, difendendo il Centro sociale ’Barattolo’).
Sacchi non legge “La Repubblica”, dunque non sa che «i gruppi siciliani dei Calaiò e dei Perspicace non si sono limitati a far arrivare dalla Colombia, via Spagna, fiumi di cocaina. […] Francesco Perspicace, nato a Caltagirone 48 anni fa, ma da un pezzo residente a Sant´Angelo Lodigiano» (Davide Carlucci, 24 luglio 2008), ha una quota in Servizi blu case-Iniziative immobiliari, gruppo con centinaia di collaboratori, sede principale a Villanova del Sillaro (Lodi), con uffici a Milano, Pavia e in Sardegna.
Sacchi non legge nemmeno il “Corriere della Sera”: nel dicembre 2006 Alfio Scaccia scrive che il clan mafioso Rinzivillo di Gela, in Lombardia «fa affari a Brescia, Como e Pavia, e soprattutto a Busto Arsizio che, secondo gli inquirenti, era diventata una “Gela del varesotto”». Pavia è citata come una delle basi operative dei traffici illeciti, come il riciclaggio del denaro sporco: «I proventi di estorsioni e droga venivano infatti reinvestiti in attività apparentemente pulite».
Al Sacchi sono anche sfuggite alcune intercettazioni telefoniche tra membri del clan Rinzivillo, nelle quali Rossano Battaglia e Crocifisso (Gino) Rinzivillo parlano di lavori edili, di appalti e di un lavoro «grosso» dalle parti di Pavia: Rossano - a inizio Aprile... dovrebbe iniziarne uno a Pavia!; Gino – dove?; Rossano - a Pavia!... vicino Pavia...; Gino - ah, ho capito!... ma è grosso come lavoro?; Rossano - buono è! Chiavi in mano!; Gino - ah, va bene!
Martedì 4 novembre 2008 la Dda ha confiscato quattro aziende di proprietà dell’imprenditore siciliano Marcello Orazio Sultano (settore costruzioni) per un valore di 9,5 milioni di euro. Sultano sarebbe un personaggio di spicco di Cosa nostra, vicino al clan Rinzivillo-Madonia. Una delle aziende sequestrate, la Nuova Montaggi, ha sede a Sannazzaro dé Burgundi in Lomellina, con magazzino a Pieve del Cairo.
Figurarsi poi se Sacchi ha avuto per le mani la relazione della Commissione antimafia sulla ’Ndrangheta (19 febbraio 2008) nella quale si segnala la presenza a Pavia dei clan Bellocco e Facchineri. Sacchi avrà invece letto l’illuminante libro di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso Fratelli di sangue (Pellegrini, 2006); deve essersi però fermato a pagina 124, perché in quella successiva si segnala la presenza dei Barbaro e dei Platì ad Alagna Lomellina e a Pavia; e proseguendo, a pagina 187 si legge che a Pavia è presente la cosca dei Mazzaferro oltre ad esponenti del crotonese. Al clan dei Mazzaferro sembra apparentato Giuseppe Dangeli, arrestato per riciclaggio a Landriano nell’ottobre 2006; nel gennaio 2002 cade l’arresto a Pavia di Vincenzo Corda, «boss del crotonese che stava organizzando una base operativa in provincia di Pavia» (Rapporto 2002 della Commissione antimafia, p. 47).
E dov’era Sacchi la mattina di venerdì 27 novembre 2009? Di certo non a Borgarello, luogo in cui in un appartamento accanto alla farmacia, con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata al traffico di droga, estorsioni e traffico d’armi vengono arrestati l’imprenditore edile Carmine Vittimberga, sua moglie Graziella Manfredi e il nipote Luigi Manfredi. I tre appartengono alla cosca dei Nicoscia di Capo Rizzuto, coinvolta in una sanguinosa faida con la cosca rivale degli Arena, guidata dal boss Carmine Arena, ucciso nel 2004 a colpi di bazooka sparati contro la sua auto blindata. Vittimberga e Manfredi vivevano a Borgarello da sei anni. La cosca Arena ha ramificazioni a Stoccarda e Francoforte. A loro si era rivolto nel 2008 il senatore Nicola Paolo Di Girolamo (l’esponente politico Pdl a libro paga del boss Gennaro Mokbel) per ottenere i voti degli italiani in Germania - decisivi per la sua elezione a Palazzo Madama - a testimoniare la rilevanza sovranazionale delle mafie in generale e della ’Ndrangheta in particolare.
Sacchi era forse in montagna mercoledì 2 dicembre 2009: quel giorno, su ordine della Procura di Bari, in corso Manzoni a Pavia viene sequestrata la sede del centro benessere “Solemania”, insieme a due appartamenti: secondo gli investigatori, sarebbero stati acquistati reinvestendo denaro proveniente dal narcotraffico.
Sacchi era forse al mare quando, il 18 settembre 2008, alla clinica Maugeri di Pavia viene arrestato Francesco Pelle detto Ciccio “Pakistan” – un boss di primo piano della ’Ndrangheta – tradito dalle frequenti telefonate in Colombia intercettate dalla Dea, l’agenzia antidroga degli Stati Uniti, che subito informa Nicola Gratteri al Dipartimento distrettuale antimafia di Reggio Calabria.
Pelle è accusato di omicidio ed è latitante dal 30 agosto 2007, dopo la “strage di ferragosto” a Duisburg in Germania, nella quale un commando dei Nirta-Strangio ammazza sei persone della cosca avversaria dei Pelle-Vottari-Romeo. È l’epilogo della sanguinaria “faida di San Luca”, cominciata nel 1991 e culminata con l’uccisione di Maria Strangio il 24 dicembre 2006; alimentata dalla sete di vendetta di Ciccio Pelle – ridotto in carrozzella da una scarica di pallettoni il 31 luglio 2006 – e dalla guerra di supremazia nel controllo dello spaccio della coca a Duisburg, in mano ai Pelle-Vottari-Romeo. “Pakistan” è paraplegico: un proiettile gli ha leso la spina dorsale. Era ricoverato da tre mesi, sotto falso nome e con false cartelle mediche (si è detto paralitico a causa di un incidente stradale), ricercato dalla Polizia e dai Carabinieri, inseguito da nemici vecchi e nuovi che lo volevano eliminare. Era coperto da una rete di protezione locale e aveva molti soldi in tasca. Nessuno ha fatto domande sulla vera natura delle sue ferite. Del resto, nella clinica pavese ai degenti “eccellenti” devono essere abituati: Giuseppe Setola, lo spietato killer del clan dei Casalesi, uno dalla mira infallibile, dopo la cattura si era detto semicieco (secondo il coordinatore della Dda di Napoli Franco Roberti «Setola ci vede benissimo») e il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere lo aveva mandato a curarsi proprio a Pavia, al Centro di riabilitazione visiva della Maugeri.
Setola era sottoposto alla 41bis (la legge che impone il carcere duro e il sequestro dei beni ai condannati per attività mafiose), ma non viene tradotto nel carcere di Opera né in quello pavese di Torre del Gallo. Dal gennaio all’aprile 2008 è tenuto agli arresti domiciliari in un appartamento di vicolo San Marcello, insieme alla moglie. Il 23 aprile il pistolero dei Casalesi fugge da Pavia e proprio allora comincia la carneficina: la sua banda ammazza 18 persone in 4 mesi.
Il ricovero pavese di Ciccio Pelle “Pakistan” a Pavia (forse anche quello di Setola) ci pone di fronte a qualcosa che sembra una vera e propria truffa. Appare allora lecito domandare se alla Maugeri sia mai stata aperta una inchiesta amministrativa; se gli atti siano stati trasmessi al Dipartimento distrettuale antimafia; se sia mai stata inoltrata la denuncia per il danno al sistema sanitario.
Chi controlla i ricoveri? Li controlla l’Asl, di cui Carlo Antonio Chiriaco è direttore sanitario. Il suo nome è impronunciabile persino in Consiglio comunale dove, il 2 dicembre 2008, l’avvocato difensore di Chiriaco nonché consigliere comunale di Forza Italia Piero Trivi con altri esponenti della destra aggrediscono verbalmente il consigliere Irene Campari dopo un suo accenno ad una vecchia storia che vedeva coinvolto il direttore sanitario dell’Asl, in rapporti con il clan calabrese dei Valle, condannati a Vigevano per usura nel maggio 1993. Francesco Valle detto “don Ciccio”, della cosca Condello di Reggio Calabria, era giunto a Vigevano nei primi anni Ottanta in soggiorno coatto; in Lomellina prestava denaro ai commercianti e ai piccoli artigiani bisognosi di liquidità immediata, praticando interessi del 35 per cento al mese e del 400 per cento all’anno, interessi estorti dai suoi ’esattori’ (il figlio Fortunato - «la mente del clan» -, il genero Fortunato Pellicanò e il nipote Leone Lucisano) con minacce, violenze e intimidazioni.
A Vigevano il clan affiliava una trentina di persone. Un rapporto della questura pavese nel 1992 segnala «che il Valle è solito circolare con un’autovettura blindata intestata al suo autista». Ritroviamo oggi la cosca in provincia di Milano. Secondo fonti di polizia, intorno ai Valle «ruoterebbe un vero e proprio comitato affaristico-mafioso che può contare su appoggi politici di rilievo all’interno delle istituzioni lombarde».
«Le mafie sono ormai radicate a Pavia e in provincia, operano negli appalti, nella ristorazione, nel piccolo e nel grande commercio». Lo ha confermato il Procuratore distrettuale antimafia Ferdinando Pomarici, (“la Provincia Pavese”, 25 settembre 2008). Difficile sperare che le mafie si fossero fermate a Buccinasco, la Platì del Nord. E infatti Pavia brulica di inutili cantieri, di oscure operazioni immobiliari, di lussuosi negozi sempre deserti che cambiano frequentemente proprietario, di oltre sessanta sportelli bancari nonostante l’assenza di attività produttive.
A Pavia tutti ricordano il rapimento del diciottenne Cesare Casella il 18 gennaio 1988 e – prima ancora – quello di Giuliano Ravizza la sera del 24 settembre 1981, entrambi ad opera della cosca Nirta-Strangio. Casella rimase recluso in Aspromonte per ben 743 giorni, e già allora si parlò di ‘talpe’ locali dei calabresi. Venne poi liberato il 30 gennaio 1990, si dice anche grazie alla mediazione di un noto costruttore della Locride, da anni residente in città.
Quella era la stagione della “mafia rurale” dei rapimenti, delle estorsioni e dell’usura, i cui ricavati sono stati investiti nel più redditizio traffico della cocaina: un fiume di denaro sporco dilavato in banche compiacenti, in borsa, nell’edilizia privata, nelle bische clandestine; oppure moltiplicato con il traffico dei rifiuti e nelle sale gioco (a Pavia si conta una new-slot ogni 55 abitanti, più del triplo della media nazionale, una spesa media di 1.498 euro per ogni abitante), oppure negli appalti pubblici e nell’escavazione; o investito nel commercio e nella grande distribuzione, o nell’acquisto di cliniche, alberghi, ristoranti, cinema...
Guardo il numero delle battute e sono già ben oltre il consentito. Devo così rinunciare ad illustrare al Sacchi alcuni scenari trame e personaggi dell’ecobusiness locale, a partire da Giorgio Comerio, che da Garlasco trasformava in oro i rifiuti nocivi e radioattivi sopra navi a perdere (Riccardo Bocca, “L’espresso”, 3 giugno 2005) e a finire con il pavese Raoul Alessandro Queiroli, indagato nell’inchiesta veneta “Cagliostro” e in quella toscana denominata “pesciolino d’oro”, infine incarcerato a conclusione dell’inchiesta piemontese “Pinocchio” sul lucroso smaltimento illegale di 350 tonnellate di rifiuti tossici: terre inquinate da idrocarburi, residui della triturazione delle componenti in plastica delle autovetture, materiali con lattice e ammoniaca, fanghi di perforazione, traversine ferroviarie che da Genova, Savona, Pavia, Lecco venivano smaltiti nell’alessandrino, nel novarese, nel pavese e nel milanese. (Ecomafie, Rapporto di Legambiente 2005). L’inchiesta si conclude nel 2008, dopo 16mila intercettazioni telefoniche e 35 persone denunciate, 17 delle quali incarcerate. Vengono coinvolte quattro ditte della provincia di Pavia: Atiab di Torre d’Isola, Alm.eco di Pavia, Agritec di Casteggio e Dvm di Casorate Primo. Sotto l’asfalto della tangenziale di Casorate la Dvm avrebbe collocato «un milione di chili di scarti di fonderia, eternit e terre contaminate da idrocarburi» (“La Provincia Pavese”, 13 marzo 2007) che avrebbero fatturato guadagni vertiginosi ad alcune ditte fornitrici (lo smaltimento dei rifiuti speciali costa circa 6,6 euro al chilo: in questo modo la spesa può superare di poco i 50 centesimi).
Dei numerosi episodi di intimidazione a politici, imprenditori e magistrati abbiamo ormai perso il conto. Ne riprenderemo alcuni tra i più recenti: il cappio appeso ad un chiodo (marzo 2009) all’ingresso dell’abitazione dell’allora consigliere comunale pavese Irene Campari, fautrice della Commissione antimafia; il proiettile nelle buste inviate al Pm vigevanese Rosa Muscio e – ancora a Vigevano – all’architetto Sandro Rossi (novembre e dicembre 2009); i due proiettili calibro 9 in busta chiusa e l’auto incendiata all’assessore vigevanese all’Urbanistica Giuseppe Giargiana (novembre 2008 e luglio 2009); la testa di capra mozzata e i proiettili inesplosi lanciati a Vigevano nel giardino della villa della famiglia Colombo (luglio 2008); la bottiglia incendiaria e la testa di capretto appesa all’inferriata dell’abitazione dell’imprenditore edile Renato Brambilla (settembre 2008); la bomba carta fatta esplodere a Belgioioso sul tettuccio dell’autovettura del presidente dell’associazione Artigiani Giuseppe Daidone.
La notte tra l’8 e il 9 ottobre 2008, a Torre d’Isola sono andati in fiamme tre automezzi appartenenti ad Angelo Bianchi, un imprenditore in affari con Queiroli. Incendio doloso? Improbabile, perché a Pavia, caro Sacchi, «la mafia non esiste».