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AIUTATECI A FERMARE LA VERGOGNA DELLA FONDAZIONE REGINA PACIS!

Publie le lunedì 1 agosto 2005 par Open-Publishing
3 commenti

Mare Nostrum Newsletter n. 8
31 luglio 2005
INDICE
1. AIUTATECI A FERMARE LA VERGOGNA DELLA FONDAZIONE REGINA PACIS!
2. PROSEGUE IL DIGIUNO A STAFFETTA CONTRO LA CENSURA

1. AIUTATECI A FERMARE LA VERGOGNA DELLA FONDAZIONE REGINA PACIS

Stefano Mencherini, giornalista indipendente e regista Rai

"Apprendo da un giornale locale pugliese che la "Presidenza del Consiglio dei ministri ha inserito la Fondazione Regina Pacis tra gli organismi per la
lotta alle discriminazioni". Ricordo che solo pochi giorni fa don Cesare Lodeserto, co-fondatore con mons. Cosmo Francesco Ruppi (presidente Cei di Puglia e arcivescovo di Lecce) della "Fondazione ReginaPacis", è stato condannato per la seconda volta da un tribunale della Repubblica in primo grado con accuse a dir poco infamanti: 1 anno e 4 mesi per violenza privata e
lesioni con sevizie o crudeltà e altri reati. Nella condanna precedente
 invece- il Lodeserto che era anche segretario particolare di mons. Ruppi, è
stato condannato a 8 mesi per essersi inviato un sms con minacce di morte, solo
per farsi ridare la scorta che gli era stata tolta (cosa che poi avvenne). Ma non solo. Il prete sta subendo altri tre processi, tra cui si annoverano reati simili a quelli già contestati, ma anche sequestro di persona, peculato e altro.
Bell’esempio davvero di lotta senza quartiere alle discriminazioni.
Soprattutto se si pensa che una delle pratiche adottate dal Lodeserto quando
dirigeva il Cpt di San Foca (Lecce) era quella accertata dalla magistratura
e denunciata ancor prima dal mio censuratissimo ancora oggi film-inchiesta
Mare Nostrum (autoprodotto nel 2003) che fu tra le iniziative che fecero
aprire quella inchiesta penale, di ingozzare dopo pestaggi ripetuti con
i carabinieri dell’XI Battaglione Puglia e i suoi kapò gli internati musulmani
con pezzi di carne di maiale crudo. Come avrebbero fatto ad Abu Ghraib un
paio d’anni dopo con i detenuti iracheni le milizie americane.
Si fa quindi sempre più urgente l’incontro richiesto al Presidente Carlo Azeglio Ciampi, nell’ambito di uno sciopero della fame ancora in atto e che fino ad oggi ha coinvolto oltre 80 persone tra cui parlamentari, sacerdoti e suore di vera carità, antirazzisti e liberi cittadini.
Un appello invece va ai politici onesti di questo Paese, anche ai parlamentari europei, di indagare sulle attività all’estero del sacerdote leccese e del suo superiore Ruppi, che gestiscono centri in Moldavia e fino a qualche tempo fa (ancora oggi?) un ufficio di coordinamento a Bruxelles sulla lotta alla tratta di esseri umani.
Solidale invece con i salentini onesti e cristiani e musulmani e di qualsiasi altra religione che stanno chiedendo la riconversione in luoghi di studi e di pratica antirazzista, dell’ex "Lorizzonte" di Squinzano e del fu Cpt Regina Pacis di San Foca, movimento di cittadini con cui nei prossimi giorni si attiveranno iniziative pubbliche".

2. PROSEGUE IL DIGIUNO A STAFFETTA CONTRO LA CENSURA.

Dal 24 giugno scorso decine di parlamentari, giornalisti, missionari,
attivisti di associazioni, migranti senza permesso di soggiorno e tantissimi
altri stanno portando avanti lo sciopero della fame a staffetta e a oltranza
per la libertà di informazione e la tutela dei diritti umani e civili degli
immigrati nel nostro Paese (per adesioni: comitatomarenostrum@libero.it).

Negli ultimi giorni hanno aderito:

Lunedì 18 luglio
Claudio Magnabosco, scrittore e responsabile Progetto "La ragazza di Benin City", Aosta
Isoke Aikptanyi, mediatrice culturale, Gruppo autoaiuto vittime della tratta, Aosta

Martedì 19 luglio
Alessandro Marescotti, presidente Peacelink, Taranto
Lara Alisio, responsabile tematica Migranti Peacelink, Genova

Mercoledì 20 luglio
Paolo Moro, ospedale di Kimbau (Congo)

Giovedì 21 luglio
Angela Certo, impiegata, con sua figlia
Antonella Nitoglia, studentessa, Velletri (Roma)

Venerdì 22 luglio
Michele Meomartino, Coordinatore Rete Nonviolenta abruzzese, Montesilvano
Abdellah Yousef Jamal, rifugiato politico somalo uscito dal Cpt di Pian
del Lago

Sabato 23 luglio
Adelise Mirolli, funzionario Pubblica amministrazione, Follonica (Gr)
Abdel Aziz Ismail Bakhit, rifugiato politico somalo uscito dal Cpt di Pian
Del Lago

Domenica 24 luglio
Anna Pandolfini, volontaria antirazzista, Scarperia
(Fi)
Migrante senza permesso di soggiorno, Bari

Lunedì 26 luglio
Nicola Arboscelli, agricoltore, Castelbuono, Palermo,
in sciopero della fame da diversi giorni
Emanuela Bartolotti, fotografa e scenografa, Bologna

Martedì 27 luglio
Anna Troise, attrice e regista, Napoli
Monia Avorio Roggiano, studentessa, Gravina

Mercoledì 28 luglio
Danilo Calabrese, inoccupato, Bari
Antonella Ottaiano, studentessa, SanSevero (Foggia)

Giovedì 29 luglio
Aldo Caselli, scultore, Roma
http://italy.peacelink.org/migranti/articles/art_12184.html


http://www.edoneo.org/

Messaggi

  • ...ma scusate, io sono andato a cercare "Regina Pacis" dopo aver visto su PLANET un servizio meraviglioso sul lavoro di missionariato di Don Cesare sugli immiggrati clandestini. Spinto da questo cercavo il sito per dare una mano e trovo con sorpresa questa lettera.
    Ma possibile che questa sia la realtà? Cioè Don Cesare sarebbe quindi un approfittatore ed anche forse un ladro..Vi confesso che stento a crederlo..non sono un bambino e credo di conoscere il mondo, e a che scopo farebbe questo? Ma i risultati di ex prostitute che sorridono e sono felici per essere state salvate sono tutti finti? Montaggio cinematografico?
    Non so se qualcuno mi risponderà..sono un pò scombussolato.

    Guido Morgavi guido_morgavi@hotmail.com

    • Don Cesare Lodeserto e’ stato recentemente condannato da un tribunale per reati gravissimi e di conseguenza e’ stato pure rimosso dall’ incarico.

      Keoma

    • DAL PROCESSO AI GESTORI DEL CPT ’REGINA PACIS’

      «Gli immigrati? Intrinsecamente inattendibili»

      La strategia utilizzata dalla difesa per demolire le testimonianze: «Non tutti sono uguali di fronte alla legge»

      GIOVANNA BOURSIER
      ANT. MASS.
      LECCE

      Una sentenza storica, perché quando un giudice decide a favore di 17 migranti e contro rappresentanti dello stato e della chiesa è - in questo momento e in questo paese - un giudice coraggioso. Per capirlo bastava ascoltare l’arringa conclusiva della difesa, pronunciata da Pasquale Corleto nell’aula della Seconda sezione penale del tribunale di Lecce. Uno degli assunti era: i migranti che accusano questo prete sono «di un’inattendibilità intrinseca». Intrinseca, dice proprio così l’avvocato avvolto nella sua toga, e lo spiega anche: perché sono nati già condannati, a fuggire e perciò a mentire, sempre in bilico tra la vita e la morte. Impossibile quindi dare valore alle loro testimonianze contro un uomo di chiesa che dell’accoglienza ha fatto missione di vita.

      Soprattutto in un contesto storico come quello che stiamo vivendo, dove chi è il nemico lo dovremmo sapere, e in cui accusare un prete cattolico di aver costretto dei musulmani a ingoiare maiale con il manganello sarebbe «un agguato contro la Curia». Prima di Corleto parla un altro avvocato, Francesca Conte, in difesa dei medici accusati di aver manipolato la verità. E anche lei, nella sua disarmante semplicità, illumina di razzismo la scena e gli attori. Perché, aggrappandosi alla toga, e guardando bene negli occhi la corte, ammonisce: «Signor giudice, la legge è uguale per tutti, ma non tutti sono uguali davanti alla legge». Una pretesa di disuguaglianza, non di semplice diversità. Una pretesa che folgora l’aula con tutto ciò che contiene: non solo gli scranni, i codici e le toghe, ma anche le divise, quelle dei carabinieri imputati, e i camici dei medici accusati di aver disonorato la loro funzione di cura e assistenza. Infine, e soprattutto, la missione di un prete, don Cesare Lodeserto, che, appena tornato da altre opere di assistenza in Moldavia, aspetta il verdetto stringendo il rosario con una mano e la fronte con l’altra. «Non tutti sono uguali davanti alla legge, perché ognuno ha la sua storia alle spalle», dice la Conte, svelandoci che le parole e i fatti mutano di dignità a seconda di chi li riferisce. Essere un immigrato senza documenti e rinchiuso in un Cpt equivale allora a non avere storia o, almeno, a non averne una degna d’essere difesa fino in fondo.

      Il teorema si affina ancora nelle parole di Corleto quando chiede al giudice di sotterrare l’accusa più infamante, quella di aver umiliato gli immigrati musulmani obbligandoli a mangiare carne di maiale: sarebbe davvero «un agguato alla Curia, allo Stato, alla Puglia». Di questo stiamo parlando. Non del codice, dei diritti e dei doveri. Il processo a don Cesare diventa davvero un processo alla Chiesa e allo Stato. Va da sé che la condanna non è auspicabile. E qui siamo al capolavoro perché Corleto ci porta su un precipizio: spuntano il terrorismo, gli attentati, le guerre di religione. Non menziona nessuna di queste parole: agita fantasmi senza mai nominarli ma in loro nome chiede al giudice: «Restituiteci don Cesare, un uomo che un giorno mi portò in udienza dal papa». E incontrare il papa non è privilegio di tutti: infatti non tutti sono uguali. Così incardina nella sacralità della legge la sacralità del vangelo, e con essa quella della cittadinanza, dei passaporti e delle frontiere. Ma anche dei manganelli e dei recinti. La sacralità, persino, della fuga e della menzogna: «Era legittimo che questi uomini fuggissero ed era legittimo che mentissero: il diritto alla menzogna nasce quando l’alternativa è la vita». Per questo gli immigrati in fuga sono di «intrinseca inattendibilità». E così attribuisce sì agli immigrati il diritto alla vita, ma a una vita muta che non testimonia nulla. Una raffinatissima discriminazione: questo è stato ieri il terreno torbido dove una sentenza d’assoluzione avrebbe ristabilito, oltre che la giustizia, anche l’ordine delle cose. E su cosa, secondo chi difende Chiesa e Stato, si dovrebbe ristabilire l’ordine e la giustizia? Sulle parole. Ma non sul loro significato: sulla loro potenza. Che promana dalle divise e dalle tonache, dalle biografie e le rispettabili conoscenze.

      «Le affermazioni di Corleto», replica Marcello Petrelli, che difende i migranti, «ci hanno riportato a un processo pre-socratico, dove l’attendibilità della parola dell’imputato o del denunciante dipendeva dal numero delle persone che giuravano per lui. Così abbiamo mandato a morire Socrate». Ma alla fine prete, carabinieri, medici e operatori "colpevoli", mentre chi li difendeva ci chiedeva di barattare il diritto alla giustizia con il diritto del più forte. Da un lato uomini con diritto di parola, dall’altro uomini con il diritto di fuggire. Ma per sempre muti.
      il manifesto - 23 Luglio 2005
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      «Don Cesare è colpevole»

      Lodeserto è stato condannato a un anno e quattro mesi per violenza privata e lesioni aggravate nei confronti di 17 immigrati che nel novembre 2002 avevano tentato la fuga dal Cpt di San Foca a Lecce. Con lui condannati anche sette carabinieri, due medici e sei operatori del centro di detenzione

      ANTONIO MASSARI

      LECCE

      Violenza privata e lesioni aggravate: don Cesare Lodeserto è già andato via quando il giudice Annalisa de Benedictis legge il dispositivo e pronunciando un elenco interminabile di norme lo condanna a un anno e quattro mesi di reclusione e lo relega al definitivo isolamento politico. E’ altrove il «prete dell’accoglienza» (come fino all’ultimo è stato definito dalla sua difesa) ma dietro la balaustra del tribunale ci sono le sue vittime: due dei 17 immigrati che hanno denunciato lui, suo nipote Giuseppe con la compagna Natalia, quattro operatori e dieci carabinieri. «L’importante è che l’abbiano condannato», dice una delle vittime. «Sono felice perché è stata fatta giustizia», dice l’altra, «anche se non completamente: un anno e quattro mesi sono troppo poco rispetto al male che ci ha fatto». E’ la notte del 22 novembre 2002 quando una trentina di immigrati tentano la fuga dal Cpt Regina Pacis di San Foca, in provincia di Lecce, all’epoca gestito da don Cesare: fu una notte di violenza e umiliazioni. Uno di loro, Montassar Souiden, a furia di botte perse i sensi. In quattro, la mattina successiva, furono costretti a mangiare carne di maiale servita su un manganello, come hanno testimoniato Jaku Daniel, il cuoco del centro, e Mustafà Taha, l’autista. Non solo percosse, ma anche frasi ingiuriose: «Dov’è ora il vostro dio?«, chiedevano gli operatori, secondo le testimonianze delle vittime, mentre alcuni carabinieri partecipavano attivamente e altri, quanto meno, non ne impedivano le violenze. E così, in questa sentenza storica, troviamo condannato un intero plotone (sedici persone) in tonaca, camici e divise: un anno e quattro mesi per i carabinieri Vito Ottomano e Francesco D’Ambrosio, accusati di aver costretto gli immigrati a mangiare maiale, mentre per altri cinque la pena è di un anno di reclusione. Assolti gli altri tre carabinieri che quella notte stazionavano nel centro. Un anno e due mesi per il nipote di don Cesare, Giuseppe, e la sua compagna Natalia Vieru. Nove mesi, infine, per quattro operatori e per i medici Anna Catia Cazzato e Giovanni Roberti, colpevoli di aver falsificato i referti medici relativi alle violenze. E’ l’unico reato, quest’ultimo, per il quale don Cesare viene assolto. Per tutti, invece, l’aggravante di aver agito con crudeltà.

      «Una sentenza storica», conferma Marcello Petrelli, il difensore degli immigrati, «caratterizzata da un enorme spessore giuridico: l’assoluzione di alcuni e la condanna di altri conferma l’equilibrio e lo spessore di questo giudizio. Abbiamo avuto una condanna per violenza privata e lesioni aggravate, mentre il capo d’imputazione originario era quello di abuso dei mezzi di correzione: il giudice ha valutato il contenuto delle dichiarazioni degli immigrati e le ha ritenute fondate».

      E’ stato un processo fondato sulle parole, più che sui documenti, che per la gran parte sono stati (evidentemente) ritenuti non esaustivi. Quelli della difesa, in particolare, che ha presentato turni, ordini e memoriali di servizio totalmente incongruenti tra loro. Alcuni mostravano evidenti segni di manipolazione. «Restituiteci don Cesare», aveva esordito nella sua ultima arringa il difensore del sacerdote, l’avvocato Pasquale Corleto, annunciando che la condanna, soprattutto quella relativa all’obbligo di mangiare carne di maiale, avrebbe costituito «un agguato alla Puglia, alla Curia, allo Stato: perché se è vero che non si tratta di un processo politico», ha specificato guardando negli occhi il pm Carolina Elia, «è anche vero che questo processo ha una grande rilevanza politica e sociale». E infatti, pochi minuti dopo la sentenza conferma: «Immagino che ora il legislatore dovrà procedere alla chiusura di questi centri, non so con quali iniziative legislative, ma dovrà prendere atto di questa sentenza».

      Per il resto, si tratta «del primo capitolo di un lungo romanzo: l’accusa ha chiaramente un’impostazione erronea, poiché le querele presentate dagli immigrati sono state poi ritirate, ma il giudice ha evidentemente operato una coraggiosa operazione di salvataggio. Questa situazione troverà sbocco in Cassazione, dove questo nodo, all’ottanta per cento, sarà definitivamente sciolto».

      Su don Cesare, condannato tre mesi fa ad altri otto mesi per simulazione di reato (s’era inviato un sms di minacce per ottenere la scorta), pendono ancora due procedimenti. Nel primo, tuttora in fase di indagine, è accusato di sequestro di persona, favoreggiamento all’immigrazione clandestina, lesioni e abuso dei mezzi di correzione ai danni delle ragazze che lo Stato gli aveva affidato in custodia, in base all’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione, che prevede la protezione sociale per le donne vittime della tratta. Per il secondo, invece, è stato rinviato a giudizio, con l’accusa di peculato, per aver sottratto denaro dalle casse del Regina Pacis, che era sovvenzionato dallo Stato. «Attendiamo l’esito di questi altri due processi», commenta il sostituto procuratore Vincenzo Vignola, «per tirare le somme, almeno in questa prima fase del giudizio: non si è mai soddisfatti della condanna di nessuno, ma sono contento che siamo arrivati al capolinea di questa vicenda giudiziaria: significa che la magistratura, nonostante le attuali polemiche e accuse di parzialità, funziona ancora. So che non è stato semplice, per il pm Carolina Elia, cattolica convinta, sostenere l’accusa contro un prete. Ma le va riconosciuta, oltre la difficoltà del lavoro, la serenità e la professionalità con cui l’ha svolto».

      E l’accusa contro il prete, da ieri trasformatasi in condanna, pesa ora sull’intera Curia leccese e sui poteri forti, del centrodestra e del centrosinistra, che sinora l’hanno sostenuta. Anche per questo, quella di ieri, possiamo annoverarla tra le sentenze storiche: iniziata il 340 novembre 2002 con le denunce del movimento pugliese, i cui membri entrarono in visita nel Cpt. Questa storia è andata avanti nonostante tutto. Nonostante lo senario che, sin da quel giorno, si andava profilando: non solo la condanna di un prete potente e amico dei potenti, non solo la delegittimazione di una parte dell’Arma e della Curia leccese con a capo l’arcivescovo Cosmo Francesco Ruppi.

      il manifesto - 23 Luglio 2005
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      Violenze nel Cpt Regina Pacis, condannato don Cesare Lodeserto

      http://www.unita.it
      di red

      Sequestro di persona, abuso dei mezzi di correzione, violenza privata e minacce: è stato condannato a un anno e quattro mesi don Cesare Lodeserto, ex-direttore del Centro di Permanenza Temporanea pugliese Regina Pacis di San Foca, dopo le denunce di un gruppo di migranti che erano stati “ospiti” del Cpt nel 2002.

      A nulla è valsa una strategia difensiva che ha incredibilmente puntato tutto sull’«intrinseca inattendibilità» dei maghrebini che lo stavano accusando. Dopo sei lunghe ore di camera di consiglio il giudice Annalisa De Benedictis ha deciso di credere a 17 uomini che hanno raccontato come fra le mura del Cpt di Don Cesare fossero all’ordine del giorno violenze e maltrattamenti di ogni tipo. Un posto dove gli “ospiti” potevano essere picchiati «per i più futili motivi, anche se solo si lamentavano per il caldo o se arrivavano tardi a colazione» come ha raccontato in aula Montassar Souden, uno dei testimoni al processo.

      In particolare i fatti che hanno portato prima all’arresto e poi alla condanna di don Cesare risalgono alla notte tra il 21 e il 22 novembre del 2002, quando nel centro di accoglienza si verificò un maxi tentativo di fuga da parte di una ventina di magrebini. Riportati nel cpt i migranti, come 17 di loro hanno testimoniato in aula, furono sottoposti ripetutamente a percosse, punizioni corporali ma anche a violenze psicologiche, come quella di essere costretti a mangiare carne di maiale "servita" su un manganello . Per questo reato in particolare sono stati condannati a un anno e 4 mesi anche i due carabinieri Vito Ottomani e Francesco D’Ambrosio. Per altri cinque carabinieri, in servizio al tempo dei fatti, la pena è di un anno di reclusione. Condannati a un anno e due mesi Giuseppe Lodeserto (nipote di Don Cesare) e la sua compagna Natalia Vieru e infine nove mesi a 4 operatori e medici colpevoli di aver falsificato i referti medici relativi alle violenze. Per tutti l’aggravante di aver agito con crudeltà

      L’ex-direttore del centro è ancora coinvolto in una inchiesta, assieme ad altri, per sequestro di persona, abuso dei mezzi di correzione, minacce, calunnia e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dopo le accuse di alcune donne dell’est, anch’esse ospiti del Regina Pacis, e che per questo fu arrestato l’11 marzo scorso rimanendo ai domiciliari sino al 17 giugno.
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      Regina Pacis, condannato don Cesare Lodeserto

      www.liberazione.it

      Un anno e quattro mesi per l’ex-direttore del centro di S.Foca. Si era difeso accusando i maghrebini: sono intrinsecamente inattendibili. Il giudice dà ragione ai migranti
      Regina Pacis, condannato don Cesare Lodeserto

      Rachele Masci

      Non gli è servito a molto, se non a infangare definitivamente la propria immagine di uomo della Chiesa, l’appello lanciato da Don Cesare Lodeserto, ieri, nell’ultima udienza prima della sentenza definitiva che l’ha condannato a 1 anno e 4 mesi di reclusione. Il sacerdote, direttore del centro pugliese di permanenza temporanea Regina Pacis di San Foca a Melendugno, si è appellato all’ «intrinseca inattendibilità» dei migranti di origine maghrebina che lo accusavano di maltrattamenti e violenze all’interno del centro. Il Giudice del tribunale di Lecce, Annalisa De Benedictis, non ha ritenuto che «la sua parola contasse più di quella dei 17 migranti trattenuti nel centro». Due medici, quattro operatori, e 7 degli 11 carabinieri che si trovavano a fianco di Lodeserto all’epoca dei fatti sono stati tutti condannati.

      Il prete - padrone è colpevole di lesioni personali, abuso dei mezzi di correzione, omissione di intervento per impedire i maltrattamenti, con l’aggravante dell’abuso di potere e violazione dei doveri di chi ricopre una funzione pubblica, nonché crudeltà di agire. Assolto per la falsificazione delle prove.

      I fatti risalgono alla notte tra il 21 e il 22 novembre del 2002, quando nel centro di accoglienza si verificò un tentativo di fuga di un nutrito gruppo di maghrebini. Una fuga, hanno denunciato in seguito i migranti, per la quale furono sottoposti a punizioni corporali e a violenze psicologiche inaudite, costretti persino a mangiare carne di maiale, vietata dal Corano. Dei circa 40 "fuggitivi" pestati poi nel corridoi del centro-lager, 17 hanno deciso di procedere e, in questi mesi, hanno raccontato le violenze tra le mura del Regina Pacis, ex colonia estiva donata da un privato all’Arcidiocesi di Lecce.

      «Picchiati per motivi futili, anche se solo si lamentavano per il caldo o se arrivavano tardi a colazione» come ha raccontato Montassar Souden, uno dei testimoni che più ha contribuito a denunciare gli orrori del Cpt. Privati non solo della loro libertà ma anche umiliati dentro l’inferno di San Foca, come ha raccontato Sajjad, un altro "ospite" del centro al Forum di Bari la settimana scorsa: «I muri del Regina Pacis erano sempre imbrattati di sangue».

      Il sostituto procuratore Carolina Elia, aveva richiesto per l’ex direttore del centro due anni e 8 mesi. Lodeserto, condannato anche a otto mesi (pena sospesa) per simulazione di reato nel 2001 (si fece rinnovare la scorta inviando al proprio telefono cellulare un sms contenente minacce di morte) era agli arresti dal 14 marzo scorso in seguito alla perquisizione del centro disposta dalla procura di Lecce. Ora arriva la condanna.

      www.triburibelli.org