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Carlo, un corpo disteso tra bastoni e manganelli (video)

Publie le martedì 19 luglio 2011 par Open-Publishing

La vittima è un ragazzo di 23 anni di Genova. Il racconto dei testimoni. Il Viminale: i militari si sono difesi

GENOVA - Ai piedi della Chiesa di Nostra Signora del Rimedio c’è il corpo di un ragazzo con un foro in faccia, sotto uno zigomo. Carlo, di ventitrè anni, è stato ucciso. Era un «punkabbestia», si chiamano così. Tirava avanti con le elemosine in centro e con i suoi cani. Un colpo di pistola alle cinque o poco più di un giorno terribile. Ucciso. E travolto. Per sfregio? Per follia? Per paura?

Pietà, l’ultima pietà, non è stata concessa a chi era già per terra senza possibilità alcuna di offendere.

Raccontano tutti i testimoni, il fotografo parigino Bruno Abile, il fotografo della Reuters Dylan Martinez, Silvia e le altre tre donne che erano alla finestra del numero 4 di piazza Alimonda, il barista Niclas che poi chiamerà l’ambulanza: per due volte la camionetta dei carabinieri è passata sopra quel corpo. Indietro e avanti. Dove via Caffa e via Ilice si uniscono. Carlo forse se ne era già andato. O forse no. La camionetta è salita su quel corpo.

Ai piedi della Chiesa del Rimedio. Qui si spegne la vita di un ribelle che era arrivato per assediare il G8. Che si era gettato con un estintore in mano, lui con altri cinque o sei che avevano i bastoni, contro la camionetta rimasta isolata. Che ha chiuso gli occhi rivolti verso il cielo. Dicono fino a sera che sia spagnolo. Poi dicono che è italiano. Aveva un cellulare italiano. E vestiti italiani. Si chiamava Carlo Giuliani. Era del 1978. Figlio di un sindacalista della Cgil. Era di Roma. Si era trasferito a Genova. Aveva frequentato il liceo scientifico «Leonardo da Vinci». Era stato uno dei promotori delle occupazioni negli anni Novanta.

La ragione è stata smarrita. Da chi doveva controllare gli scalmanati, poche centinaia, gli «anarchici insurrezionalisti» del blocco nero che non sanno nemmeno che cosa è un G8 e che cosa è un «contro G8». Da chi ha giocato alla guerra. Da chi ha provocato e da chi ha risposto alle provocazioni con una caccia all’uomo. Manganellate a medici, infermieri, soccorritori, fotografi, giornalisti. Perché hanno fatto arrivare quelle poche centinaia di assedianti folli? Perché li hanno guardati al distributore di via Tolemaide cambiarsi per indossare la tuta da battaglia? Perché li hanno visti raccogliere pietre in piazza Paolo da Novi? Perché li hanno visti litigare con i Cobas che proprio non li volevano fra i piedi? Perché hanno aspettato che il «blocco nero», gli estremisti della Polonia, della Grecia, della Germania, dell’Italia spaccassero vetrine, sfondassero bancomat e ingressi blindati di banche in corso Torino e corso Buenos Aires? Perché la ragione è stata smarrita da chi non la doveva smarrire?

Ucciso e schiacciato. La Chiesa del Rimedio in piazza Alimonda è in fondo a un piccolo rettangolo. È la Chiesa della fine di Carlo, un assediante punk. Dall’altra parte c’è la Chiesa di Santa Zita. La Chiesa della scintilla, dove il blocco nero si è scatenato. In alto via Tolemaide, in basso via Pisacane. Il fortino era qui. La battaglia era qui. Tre o quattrocento metri. Assalti. Lacrimogeni. Bombe-carta. Auto in fiamme. Quel ragazzo, che ora non c’è più, fra mezzogiorno e le cinque del pomeriggio ha tirato, ha corso, è scappato, è ritornato. Le sue utopie, le sue fantasie, le sue rabbie sono state cancellate. Che importa sapere se aveva un estintore in mano? Che importa sapere se i carabinieri della jeep circondati, soli, feriti hanno avuto paura? C’è un corpo in mezzo alla strada. Circondato da uomini che imbracciano lo scudo e il manganello. E ancora senza pietà mentre arriva il furgone mortuario azzardano una carica contro chi è lì attorno per vedere, per sapere. Per ricostruire un giorno terribile.

Erano le cinque o poco più. Quel ragazzo, confessano le donne del numero 4 di piazza Alimonda che erano alla finestra, che sono pronte a testimoniare e chiedono di tenere il nome coperto, arrivava giù da via Caffa, dove via Caffa esce in via Tolemaide. Da ore si stavano fronteggiando, polizia e carabinieri davanti alla Chiesa di Nostra Signora del Rimedio.

Gli assedianti su. «Le forze dell’ordine si sono ritirate. I ragazzi hanno lanciato sassi. Due jeep sono rimaste intrappolate, una da un cassonetto della spazzatura. I giovani l’hanno raggiunta e hanno cominciato coi bastoni. Improvvisamente abbiamo visto il giovane a terra. Poi la jeep gli è passata sopra. Indietro e avanti». Il fotografo Bruno Abile, parigino, dà questa versione: «Ho visto un uomo in divisa. Non sulla jeep, ma in strada. Con una pistola in mano. Ho sentito due colpi e il corpo era disteso». Niclas, trent’anni, barista, era sotto gli alberi. Ha visto: «Il ragazzo è caduto. Francamente non posso dire se colpito da un proiettile o da che cosa d’altro. La camionetta l’ha travolto in retromarcia. E l’ha travolto per scappare. Ho aspettato. Ho chiamato con il telefonino il 118. E mentre chiamavo un’ambulanza sono arrivati altri carabinieri e altri poliziotti che mi hanno manganellato. Gli ho urlato: "Ma non capite che c’è un ragazzo a terra? Non capite che chiamo un’ambulanza? Non capite che io non sono un manifestante?". Erano fuori di sé». Dylan Martinez, fotografo della Reuters Italia: «All’improvviso un gruppetto di manifestanti si è avvicinato ad una jeep blu dei Carabinieri. Hanno bersagliato il veicolo con pietre, poi sono saltati sul suo tetto ed hanno cominciato ad infrangerne i finestrini con mazze di metallo e tavole di legno. I Carabinieri dentro la jeep urlavano. Uno dei manifestanti ha raccolto un estintore rosso. Davanti a sé aveva la parte posteriore della jeep, i cui finestrini posteriori erano in frantumi. Due spari sono partiti dall’interno della jeep, e il manifestante è caduto a terra. La jeep è partita in retromarcia passando sopra il torace dell’uomo a terra, poi ha inserito un’altra marcia e si è allontanata. Il sangue usciva dall’occhio dell’uomo. Una persona gli ha tenuto la mano come per sentirne il polso, ma lui era morto».

Il ministro dell’Interno ammette: «Il ragazzo è stato raggiunto da un colpo di arma da fuoco presumibilmente esploso a scopo difensivo da uno dei carabinieri feriti».

Genova era blindata e cupa nel piccolo rettangolo fra la Chiesa del Rimedio e la Chiesa di Santa Zita, la Chiesa dove i migranti chiedono il primo sostegno, il primo pane. Alle cinque, o poco più, Carlo è in una pozza di sangue sotto un lenzuolo bianco. E Adriano Scudieri, ventinove anni, capo scout, arruolatosi come avvocato volontario a difesa dei diritti dei manifestanti, scuote la testa: «Sono deluso. Sono abbattuto. Sono tramortito. Sì, deluso dalle frange di pazzi che hanno distrutto questo quartiere. Ma soprattutto deluso dalle forze dell’ordine, da chi ha picchiato, sparato. E ucciso. Hanno perso tutti». Poco lontano dalla Chiesa del Rimedio c’è un’infermiera, pure lei volontaria, che cura un carabiniere ferito alla testa. Al mattino aveva visto i carabinieri picchiare un suo collega. «Non mi interessa adesso sapere che cosa è accaduto. Io sono qui per medicare i miei amici assedianti e, se c’è bisogno, chi difende gli assediati».

Quel corpo ribelle l’hanno avvolto in un sacco grigio. E alle sette di sera il punk che viveva di elemosine se ne è andato.

Fabio Cavalera
18 luglio 2011

http://www.corriere.it/cronache/speciali/2011/genova-dieci-anni-dopo/notizie/cavalera-carlo-corpo-manganelli_672bdebe-b10a-11e0-8890-9ce9f56cae65.shtml