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Le accuse degli attivisti turchi Un ragazzo Usa tra i nove morti
Un fotografo ucciso con un colpo ravvicinato, alla testa. Cadaveri gettati in mare. Feriti gravi scomparsi negli ospedali israeliani. Il racconto degli attivisti internazionali espulsi da Israele e arrivati ieri all’alba in Turchia è quello di un massacro in stile sudamericano. Testimonianze gravissime, non supportate però da prove o registrazioni. Anche se alcuni cineoperatori e una regista a bordo della Mavi Marmara giurano di essere riusciti a salvare dalle perquisizioni alcune schede digitali con le immagini del blitz. La restituzione dei corpi da parte di Gerusalemme ha almeno chiarito la nazionalità delle vittime accertate, nove. Otto sono di nazionalità turca, il nono è un ragazzo di 19 anni, di origini turche ma con nazionalità statunitense. Il giovane si chiamava Furkan Dogan ed è stato colpito da quattro proiettili alla testa e da uno al petto, in base alla ricostruzione dell’agenzia turca Anadolu.
Le certezze finiscono qui. La ricostruzione dei pacifisti, accolti come eroi al loro arrivo all’aeroporto di Istanbul, è infatti lontanissima da quella fornita dall’esercito israeliano. «È stato un atto di pirateria. Siamo stati sequestrati», ha raccontato il giallista svedese Henning Mankell, a bordo della Ms Sofia, la nave svedese del gruppo. Le accuse più gravi arrivano però dalla cineasta brasiliana Iara Lee, che seguiva la Freedom Flotilla per girare un documentario. «Abbiamo visto il corpo di un tecnico informatico - ha raccontato - riverso a faccia in giù, con un foro nella nuca». A Lee, di origine coreana, sono state sequestrate lenti e apparecchiature per centinaia di migliaia di dollari, ma, dice, «siamo riusciti a salvare alcune riprese, le mostreremo al mondo».
Secondo la regista, ci sono molti feriti gravi, ricoverati negli ospedali di Tel Aviv, «che adesso rischiano la vita», e il bilancio reale della strage «è di diciannove vittime, non nove, perché molti cadaveri sono stati gettati in mare» dai commando, dopo essere stati uccisi. Un dato confermato dall’infermiera australiana Jenny Campbell, anche lei a bordo della Mavi Marmara, che sostiene di aver «contato almeno 19 persone morte, nell’infermeria della nave». Per alleggerire la sua posizione, l’esercito israeliano ha reso pubblico un video, girato sulla Mavi Marmara, che mostra un attivista dichiarare la sua volontà di diventare uno «shahid», un martire per la causa islamica. Secondo Gerusalemme la nave era in realtà controllata da un gruppo terroristico vicino ad Al Qaeda. Circostanza ovviamente negata dalla Fondazione di aiuto umanitario (Ihh), la ong turca proprietaria della Mavi Marmara.
Il presidente Bulent Yildirim ha però confermato il duro scontro che ha preceduto il massacro. «È vero, alcuni dei nostri hanno strappato le pistole ai militari, ma non le hanno usate, anche se sarebbe stato loro diritto, le hanno gettate in mare». Yildirim ha anche insistito sui presunti desaparecidos negli ospedali israeliani: «I nostri medici - ha spiegato - hanno consegnato a Israele 38 persone ferite, ma poi ci è stato detto che i ricoverati erano soltanto 21». Per il leader islamico-pacifista Gerusalemme sta truccando le carte sul massacro. Strage che, nella versione di altri pacifisti, sarebbe cominciata prima dell’abbordaggio, con le truppe speciali che avrebbero cominciato a sparare dagli elicotteri. «C’erano già tre morti sulla nave - racconta l’attivista spagnolo Manuel Tapial -. Sono arrivati uccidendo, sparando lacrimogeni, bombe assordanti e a frammentazione. Noi non li abbiamo mai attaccati, è una vergogna che Israele ci accusi».
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