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Giovani Comunisti/e : EMENDAMENTO INTEGRATIVO DEL DOCUMENTO "ALTERNATIVA DI SOCIETA’"

Publie le lunedì 17 gennaio 2005 par Open-Publishing

Dazibao Partito della Rifondazione Comunista Parigi


di Giovani Comunisti/e

Perché “alternativa di società”

Presentiamo questo emendamento integrativo al documento “alternativa di società”,
perché pensiamo la nostra esperienza politica, come patrimonio della Rifondazione
Comunista tutta, come costruzione di nuove pratiche e come ricerca teorica e
politica insieme.

Il dibattito congressuale che ci vede impegnati nella difficile riflessione sulle
prospettive future, così come nell’analisi e valutazione della linea politica,
non può non parlare delle nostre esperienze e dei nostri desideri che hanno fatto
la vita di Rifondazione degli ultimi anni.

Possiamo oggi discutere da protagonisti del movimento dei movimenti perché sin
dalle marce europee abbiamo intrapreso una linea politica: stare insieme alle
tante e ai tanti che in questi anni hanno invaso le strade e le piazze contro
la guerra e il neoliberismo. Ed è questa la premessa indispensabile per assumere
le 15 tesi come punto di partenza della nostra discussione.

Noi rifondazione comunista

Non siamo e non ci sentiamo una questione o un tema a cui dedicare un paragrafo in un documento congressuale. Se questo presupposto non è ancora riconosciuto da tutto il partito, l’autonomia politica delle e dei GC non è ancora acquisita fino in fondo. Siamo un punto di vista particolare, quello di una generazione che, diversamente dalle precedenti, è segnata dalla completa incertezza del presente e dalla certezza della precarietà nel futuro. Questa è anche la generazione che, nelle strade genovesi del ’01, ha messo in discussione il pensiero unico, ha deciso di non sottostare a nessun potere e ha riaperto la possibilità di immaginare un’alternativa di società globale. Noi, siamo stati una parte di quella moltitudine, una parte che si è scoperta e si è fatta scoprire nelle relazioni che abbiamo vissuto durante la costruzione di quelle giornate.

Eravamo e siamo una parzialità particolare, ragazze e ragazzi che hanno compiuto una scelta, quella di far parte di un partito nei tempi di crisi della politica istituzionale. Abbiamo deciso di aderire a Rifondazione Comunista perché sentiamo ancora oggi coincidere l’esplosione d’amore per il cambiamento e la trasformazione della società, con la parola comunista. Una parola da rifondare che non sentiamo come un’identità definita che ci viene dal passato a cui aderire, ma nel suo divenire, nel farsi. E’ sentirsi protagonisti di questa rifondazione, che fa dei circoli, dei centri sociali, delle associazioni e dei collettivi che abbiamo contribuito a costruire, luoghi di relazione e attraversamento dei territori indispensabili per praticare l’alternativa.

A partire da questo sentire e praticare comune vogliamo fare un bilancio delle nostre esperienze di innovazione. Sentiamo il bisogno di affrontare una discussione che vada oltre strumentali contrapposizioni tra continuità e innovazione. L’innovazione non è un progetto rigido, che si può prestabilire senza muovere dai luoghi e dai tempi di vita, ma l’incontro fra la scelta soggettiva dell’apertura e la contaminazione con gli altri. In questo senso va intesa la forma organizzativa, come variabile dipendente della linea politica. Il partire da sé, dalle pratiche e dalle esperienze, senza pretese di generalizzazione è l’elemento comune con cui affrontare la discussione sull’innovazione. Per questo la scelta di tenere una conferenza organizzativa è fondamentale, come lo è porne le premesse nel corso di questo congresso.

Costruire senso e comunità senza ridursi ad essere “paese nel paese” significa avere come primo obiettivo la costruzione di spazi pubblici. La completa spoliazione del tessuto urbano e la riduzione a filiera produttiva delle relazioni sociali pongono la liberazione di spazi pubblici come priorità della nostra pratica per l’alternativa. Spazi che non sono fortini da difendere o isole liberate, ma punti di approdo. Dopo Genova, la nostra esperienza si è concentrata nella ricerca sperimentale di questi luoghi, senza modelli preordinati stiamo provando a trasformare circoli e federazioni, aprire librerie, occupare centri sociali.

Punti di convergenza per militanti e attivisti, ma soprattutto spazi aperti di partecipazione nel territorio, ci parlano di una cittadinanza attiva che mette in discussione l’abito o la divisa del militante totale e onnisciente. E’ a partire da esperienze particolari, infatti, che prende forma una conflittualità globale. Dal collettivo studentesco, all’esperienza di gruppi di inchiesta e di conflitto sul precariato, alla sperimentazione di nuove forme di comunicazione (telestreet, radio pirata e non, nuove produzioni video), attraverso l’autonarrazione vive una produzione in rete che ha cambiato l’idea stessa della politica.

Nel movimento globale disobbedienti al neoliberismo

Molto di quello che siamo oggi lo abbiamo imparato nelle relazioni e nel conflitto di questi anni. La nostra contaminazione è cominciata con le marce europee sino alle giornate di Genova ’01. Essere parte del movimento di movimenti nello scenario mondiale è una scelta di pratiche e di orizzonte. Pratiche di disobbedienza hanno ecceduto le organizzazioni, contaminando il nostro partito, intere comunità e lotte di fabbrica, mettendo in discussione il nesso tra radicalità, legalità e conflitto. E’ per questo che nonostante l’esaurimento della relazione di rete dei disobbedienti continuiamo a pensare e praticare disobbedienza sociale. Praticare l’autoriduzione è allo stesso tempo illegale e giusto per porre il problema della precarietà e dei bassi salari, così come occupare una casa sfitta o tagliare le reti di un cpt.

Da Genova a Cancun la messa in discussione della legittimità degli organismi internazionali che governano la globalizzazione ha posto la questione dell’alternativa al neoliberismo per cambiare le condizioni di vita e per uscire dalla diatriba tra modelli di sviluppo. Nel segno contrario assistiamo alla costruzione di un Europa gigante economico, dove l’ampliamento dei mercati rimane il primo motore dell’integrazione coniugato al modello della fortezza armata. Il trattato costituzionale europeo è la diretta conseguenza di queste politiche.

Per questo lo spazio europeo rappresenta per noi il luogo privilegiato dell’opposizione ai processi di precarizzazione e alla distruzione dei diritti di cittadinanza. La sinistra europea, deve diventare parte dei nuovi spazi pubblici costruiti dal movimento a partire da Firenze col FSE, dalla rete sui migranti con il “no border camp” fino alla rete dei precari con l’“euromayday”. Noi GC abbiamo scelto di costruire una rete europea di associazioni, gruppi e collettivi che ponga al centro dell’iniziativa politica nuove pratiche di eurocittadinanza attiva.

Affermiamo, con Walter Benjamin, che “la tradizione degli oppressi ci insegna che lo stato d’eccezione in cui viviamo è la regola”. Guantanamo, gli aerei della tortura che atterrano sul nostro suolo, l’utilizzo a fini di lucro delle biotecnologie, la neonata società del codice (codice a barre, codice genetico, codice di accesso, codice di riconoscimento) fagocitano i corpi per normatizzarli attraverso il controllo e la segregazione.

Un’eccezione fatta di stato di guerra permanente. Politiche della tolleranza zero che difendono le zone private off-limits, telecamere e sistemi di controllo sono gli strumenti di una militarizzazione dei territori e delle relazioni sociali tanto forzata quanto distruttiva. Rinasce l’offensiva contro lo stato laico, riaffiorano nuove forme di patriarcato, di ghettizzazione delle diversità e del disagio sociale: donne, migranti, persone con patologie psichiche, tossicodipendenti e consumatori di cannabis, gay e trans sono ancora una volta il bersaglio di politiche criminalizzanti e discriminatorie, ispirate da una morale antilibertaria.

Abbiamo bisogno di attuare qui ed ora una alternativa di società. Nuovi pensieri di resistenza prendono corpo e trovano nuove connessioni nel movimento e nella società: le donne respingono gli attacchi all’autodeterminazione sul proprio corpo; gli ambientalisti pongono il problema di un rapporto equilibrato tra l’uomo e il suo ambiente, i migranti, violando le frontiere, parlano di un nuovo diritto di cittadinanza. La tutela del diritto alla salute è la parola d’ordine dei movimenti antiproibizionisti, così come delle associazioni dei malati e dei disabili.

Nel frattempo altri, o anche gli stessi, provano a sottrarre il proprio sapere e la propria creatività all’alienazione del lavoro immateriale, lavorando alla liberazione delle relazioni affettive e comunicative: risorse umane che tentano di lasciare le filiere produttive urbane.

Anche università e scuole sono dentro la filiera produttiva con un ruolo importante attribuito dalle riforme degli ultimi anni. Abbiamo chiamato privatizzazione un processo teso a rendere i saperi merce e la loro trasmissione un possibile mercato. L’autonomia, parola introdotta dal movimento studentesco per indicare la centralità della formazione, è stata adottata dalla Confindustria dai governi per istituire un rapporto di subalternità della scuola e dell’università alle logiche del mercato e dell’impresa. Il “just in time” della formazione della manodopera si traduce in formazione continua, per adeguare i “saperi minimi” alle richieste dell’organizzazione della produzione in quel dato momento. Il sistema dei crediti e dei debiti, la standardizzazione dei tempi di apprendimento, sono strumenti di preparazione alla mentalità dei “nuovi lavori”. Insomma, il significato della parola autonomia (scolastica e universitaria) prende le sembianze del (lavoro) autonomo: subordinazione totale dei tempi di vita alle esigenze della produzione. Infatti, i tempi di socialità, di conflitto sono annichiliti dalla continua corsa, scuola e università perdono centralità nei territori, sono luoghi da attraversare il più velocemente possibile per poter accedere al mercato del lavoro. In questo processo di dequalificazione la parificazione tra pubblico e privato della scuola disegna una società già divisa sul nascere, in cui le diversità culturali, religiose, di estrazione sociale diventano fortificazioni identitarie, di comunità chiuse e impermeabili. Come la riduzione del trasferimento di fondi, la condizione dei e delle precarie nelle università determina la perdita di senso della stessa parola diritto allo studio: è come se l’università e la scuola debbano, prima di ogni altra cosa, educare all’assenza di diritti.

Rivendicare servizi e reddito monetario, praticare l’autoriduzione e altre forme di conflitto disobbediente, come leva per non subire il ricatto della precarietà è un punto di partenza insieme all’adeguamento dei salari all’inflazione reale. Questo è ciò che tiene insieme giovani comunisti\e, fiom, centri sociali e collettivi in un percorso come quello nato in Lombardia con la may-day. Un primo maggio partecipato e conflittuale per dire che la precarietà non è soltanto legata al lavoro, ma investe l’intera condizione di vita.

Allo stesso modo altre battaglie locali, come la difesa dei commons e del diritto alla casa, parlano di questioni più generali come la messa in vendita del patrimonio e dei beni pubblici nel mercato globalizzato.

In questa prospettiva il portato storico del movimento femminista rappresenta un nervo vivo nell’analisi di questi fenomeni e suggerisce la necessità di saper andare oltre la semplice battaglia per la tutela giuridica della libertà. Le donne insegnano che non basta veder scritta l’uguaglianza su carta: si tratta di ricostruire le relazioni sociali a partire da basi nuove, a partire dal materiale flessibile e resistente della differenza e della parzialità. Questa è per noi la base di una politica di tutte e di tutti, la condizione reale della partecipazione per provare ad uscire dal futuro di guerra permanente che la crisi del neoliberismo impone.

In movimento disobbedienti alla guerra

Il movimento globale che ha provato a fermare la guerra preventiva ha segnato le culture delle società nel mondo. Non soltanto le grandi manifestazioni ma la radicalità che si è messa in campo ci pone oggi il problema dell’uscita dalla spirale guerra terrorismo innescata tra l’11 settembre e le guerre in Afghanistan e in Iraq.

Alla militarizzazione dello scontro noi opponiamo la disobbedienza e la diserzione come scelta di fondo.

Il dibattito che abbiamo vissuto negli ultimi tempi è falsato da una mistificazione di partenza che ha indotto non poche ambiguità. Troppo spesso la discussione ha messo in moto una sorta riflesso condizionato che legge la non violenza come la negazione di ogni spazio di conflitto, come ricerca delle compatibilità, passività, pacificazione, assenza di movimento. Pensiamo, invece, che è proprio nella valorizzazione del conflitto, nella ricerca di nuovi spazi e forme attuali in cui declinare oggi la rivoluzione e l’idea di trasformazione della società che trova senso questo dibattito.

Contrapporre alla guerra globale e permanente pratiche di conflitto non violente significa tutt’altro che rinunciare alla radicalità o pretendere di decidere per le popolazioni che subiscono un regime di occupazione. E’ più radicale organizzare la presenza delle/ei GC in Palestina per praticare l’interposizione, fermare un carro armato che assedia una città o vuole distruggere una casa o esultare per ogni elicottero abbattuto? Noi abbiamo deciso di opporre alla distruzione della guerra la costruzione in Palestina e in Chiapas di progetti di cooperazione dal basso.

Non decidiamo della legittimità di un popolo alla resistenza, essa è perfino sancita nel trattato di Ginevra. Il punto è cosa pensiamo e come ci relazioniamo coi progetti politici che le resistenze esprimono. I movimenti contro la guerra in Vietnam potevano condividere coi viet cong un orizzonte di società, oggi noi non possiamo pensare che la nostra idea di società coincide con quella delle varie parti della resistenza irachena. E poi come non vedere che le resistenze armate, con l’eccezione dell’ezln che conduce una resistenza armata e contemporaneamente una critica delle armi, hanno come prospettiva la liberazione dall’occupante e la conquista del potere nazionale?

È necessario abbandonare la strumentalità delle discussioni congressuali per prendere in considerazione quello che è accaduto nella storia del movimento operaio e delle lotte di liberazione. In nome del potere al popolo, della presa del potere della classe operaia e dell’antimperialismo si sono consumate tragedie enormi: i Partiti Comunisti d’Argentina e d’Uruguay, negli anni ’70, per perseguire un progetto di socialismo nazionale in funzione antimperialista, hanno offerto un appoggio critico alle dittature che hanno fatto, di una intera generazione di ragazze e ragazzi, desaparecidos.

Il tema della trasformazione, dell’altro mondo possibile, della rivoluzione è in divenire, il passato è utile al fine di non ripercorrere strade già battute. La trascendenza della rivoluzione è diventata un inganno per milioni di donne e uomini in tutto il mondo. L’idea che la rivoluzione coincida con un momento preciso, con la sostituzione di una classe con un’altra, con la presa di uno o più luoghi del potere è oggi insostenibile. E’ la longevità del capitalismo, la sua fluidità, le sue rivoluzioni che ci indicano una strada alternativa. Gli zapatisti insegnano. Rivoluzione non è esercizio di contro potere, ma costruzione di altro potere. La presa del potere per via violenta ha in sé l’esercizio della violenza per detenerne il controllo, e la storia delle rivoluzioni finite con i carri armati contro studenti e lavoratori ce lo conferma.

Praticare e ricercare la non violenza significa rompere con alcune tradizioni novecentesche del movimento operaio che facevano della lotta armata la forma più alta e radicale di rivoluzione e della conquista del potere il fine ultimo per la liberazione dallo sfruttamento di uomini e donne. Una rottura, però, che non implica la costruzione di nuove ideologie. La categoria della non violenza non è un assoluto, non è un dogma per cui schierarsi con un’adesione acritica o un rifiuto nostalgico, non è una ricetta pronta per tutte le occasioni, retroattiva per la storia, uniforme per il mondo. Così come riteniamo che non possa essere una pregiudiziale per i rapporti del/nel movimento.

Tutto questo parla di noi e di quello che abbiamo concretamente praticato in questi anni, non di un passato lontano o di un futuro lontano al quale affidare le proprie speranze. In questo qui ed ora, in queste esperienze vissute, la disobbedienza ha mostrato una straordinaria capacità di diffondersi, di contaminare soggetti, lotte e linguaggi diversi tra di loro.

Critica del potere è critica della guerra e delle armi che oggi deteniamo. E’ per questo motivo che giudichiamo sbagliata la strada intrapresa dall’Europa con la costruzione dell’esercito europeo. Negli Usa la guerra e la sicurezza sono diventati parte consistente del sistema di ammortizzazione sociale, anche in Italia la trasformazione in esercito professionale ha significato occasione di “lavoro” per migliaia di ragazze e ragazzi, soprattutto nel sud. E’ per questo che il train stopping era oltre il conflitto contro la guerra in Iraq, parlava della critica delle armi, della militarizzazione dei territori attraverso la costruzione di basi.

È a questa esperienza che dobbiamo alludere nelle nostre pratiche future. I nostri corpi, le nostre vite, i nostri desideri non sono sacrificabili nella lotta, ma sono corpi, vite, relazioni a farsi conflitto contro l’invasività della guerra. Al sistema disciplinare che determina nuove forme di organizzazione del lavoro e della società, noi rispondiamo con l’asimmetria della disobbedienza.

A questa irriducibilità del conflitto come espressione viva dei bisogni negati oggi si oppone uno stato di polizia sempre più repressivo e aggressivo. La moltiplicazione degli interventi giudiziari, di polizia, delle forme di controllo e di restrizione delle libertà dice della necessità di riaffermare l’ordine e la legalità come elementi statici e indiscutibili. Il terrorismo e i fenomeni criminali sono una giustificazione senza fondamento dell’aumento delle forze di polizia e della legittimità di uso della violenza. A questo attacco il movimento tutto deve offrire una risposta efficace. Dobbiamo saper imporre, senza alcun passo indietro, la legittimità del conflitto allargando e non restringendo il fronte.

A partire da Genova abbiamo proposto: riconoscibilità delle forze di polizia in piazza, bando dei gas lacrimogeni proibiti dalle convenzioni internazionali, abbandono delle armi da fuoco e chiarezza della catena di comando durante le mobilitazioni. Anche questo è pratica disobbediente e non violenta.

Partecipazione conflitto autogoverno

Dentro il senso di ingiustizia maturato nelle strade di Genova per le autoritarie istituzioni globali (Fmi, Bm, G8), che pretendono di decidere per milioni di donne e uomini, si esprime tutta la straordinarietà e la potenza di pratiche di democrazia radicale costruite dal movimento dei movimenti in questi anni. La promozione di partecipazione e cittadinanza attiva che con il movimento abbiamo saputo sperimentare con protagonismo dentro e fuori le istituzioni è stata in grado di operare una critica efficace alla democrazia rappresentativa, al sistema maggioritario e presidenzialista invocato in Italia da più parti in nome della governabilità.

La nascita della rete del nuovo municipio, eccedendo l’idea stessa del bilancio partecipativo, affronta il nodo più difficile della crisi di senso delle istituzioni ponendo al centro i territori e offrendo nuove possibilità alle donne e agli uomini che li abitano. La democrazia partecipata è uno spazio nuovo in cui la politica e noi siamo chiamati a farci conflittualità e non rappresentanti nelle istituzioni.

Le città possono rappresentare una bussola dell’agire locale per aprire contraddizioni e praticare l’alternativa, come dimostrano, per citarne alcuni, il voto ai migranti in città come Genova e Firenze, il caso Action per Roma, l’inceneritore di Acerra. Le comunità municipali, ribelli alle imposizioni di governi regionali e nazionale (riordini ospedalieri, termovalorizzatori, scorie nucleari, basi militari, ecc), sono oggi la toponomastica delle resistenze da cui ripartire. Il segnale più importante viene dal mezzogiorno, dove alla legge del voto di scambio e della delega per interessi di particolari gruppi di persone, si vanno sostituendo pratiche di cittadinanza attiva. Queste, lungi dal rischio di riproporsi come difese localistiche o campanilistiche, parlano la lingua dei diritti globali e impongono al nostro partito di ripensare il suo ruolo.

Dobbiamo farci promotori della messa in rete, della valorizzazione e della diffusione di queste esperienze, con la consapevolezza di chi sa che per farlo realmente occorre mettere in discussione l’idea stessa che sia il partito o l’assessore di turno a dover prendere le decisioni. Per parte nostra il contributo offerto alla discussione è parziale. Nel campeggio nazionale delle/ei GC abbiamo inaugurato un percorso fatto di autoformazione, scambio di conoscenze, costruzione di rete che sappiamo essere incompleto e inadeguato. C’è bisogno di un impegno forte di tutto il partito in questa direzione in grado di contribuire a determinare quell’effetto moltiplicatore di conflitto e partecipazione sui territori necessario per produrre il cambiamento e la trasformazione della società.

Governo e autonomia

Battere le destre che governano il paese è oggi una necessità della nostra iniziativa politica, ma di sicuro non è sufficiente. Non sufficiente perché le tantissime persone che sono piombate in condizioni di vita drammatiche chiedono un’inversione di tendenza alla crisi politica, sociale ed economica degli ultimi anni. A tutte/i le ragazze e i ragazzi che hanno partecipato con noi al movimento contro la guerra o alle mobilitazioni contro la precarietà non basta sapere che Rifondazione Comunista è contro, ma cosa facciamo per cambiare e su quale ipotesi di alternativa di società chiediamo la loro partecipazione.

Spesso fuori da noi maturano domande che eccedono la nostra stessa maturità. Il documento congressuale che sosteniamo si pone con grande senso di responsabilità il problema del dopo Berlusconi, cercando uno nuovo spazio di ricerca in sintonia con desideri e bisogni di una generazione in movimento. Se oggi siamo nelle condizioni di poter discutere della partecipazione a un governo di centro sinistra è perché abbiamo costruito delle premesse in questi anni.

Due in particolare sono le condizioni determinanti che abbiamo prodotto.

La prima è la scelta di aprire un processo profondo di rifondazione del nostro partito e della politica. La rottura con il centrosinistra, causa della caduta del governo Prodi, è stata una svolta di chiara autonomia del Prc dall’ulivismo. Un’autonomia come sfida per il futuro, dagli esiti affatto scontati, che metteva a rischio l’esistenza stessa di Rifondazione Comunista. Un’autonomia conquistata che non può essere intesa come dato acquisito nel tempo, ma come frutto di un programma politico in divenire.

La seconda condizione è la nostra scelta di essere parte del movimento come luogo privilegiato di costruzione di una alternativa di società.

Tutto questo oggi ci consente di proporci come attori della bonifica delle leggi più atroci del governo Berlusconi e contemporaneamente praticare l’obiettivo del programma come abitanti di spazi pubblici partecipati in cui decidere i percorsi del cambiamento.

Dobbiamo continuare a cercare la rottura della autonomia del politico dal sociale. Questo è possibile solo se non è Rifondazione Comunista da sola a concertare con gli altri partiti politici quali devono essere le nuove leggi da sostituire alla Bossi-Fini, alla Legge 30 e al ddl Moratti. Il movimento dei movimenti non è un’arma o un bacino elettorale del PRC per vincere le elezioni o le resistenze della Fed. Fare una scelta di questo tipo significherebbe tornare indietro, assegnando al nostro partito una funzione di rappresentanza del movimento. Invece dobbiamo esserne parte, continuare a decidere obbedendo ai processi partecipativi.

Non è l’autonomia del movimento in discussione, ma quella dei Governi dalla società. Parlare di autonomia del movimento dei movimenti dalla politica significa non comprendere un processo apertosi nel nostro paese da alcuni anni. Una nuova forma di americanizzzazione è in corso. Nonostante grandi e forti movimenti attraversano gli Usa, l’amministrazione americana continua la strada intrapresa e i movimenti per il cambiamento e di conservazione sono ridotti a lobby a sostegno dell’uno o dell’altro candidato presidente. La potenza del movimento in Europa e in Italia, invece, sta nella capacità di determinare mutamenti di lunga durata, di eccedere la sfera del sociale e di irrompere nella politica dando diritto di cittadinanza anche a quelle e quelli che non si riconoscono in nessuno degli schieramenti politici presenti.

L’idea che un Governo qualsiasi possa determinare la trasformazione che quotidianamente ricerchiamo non è nemmeno da prendere in considerazione, l’idea che col movimento reale tutto possa cambiare è lo scenario nel quale ci muoviamo con altri da comuniste e comunisti.

L’alternativa di società non è un piano quinquennale, ma è e resta un processo complesso fatto di movimenti che, dai territori alle reti, costruiscono una nuova grammatica delle relazioni e producono trasformazione sociale. Per questo non cambia il nostro punto di osservazione del mondo: il movimento dei movimenti come spazio, le disobbedienze come pratiche.

Noi viaggio verso la sinistra alternativa

Il no alla guerra e al neoliberismo sono le coordinate sociali e politiche dentro cui dare vita a un processo rifondativo della politica nel nostro paese. E’ vero che questo movimento dei movimenti non è riuscito a fermare la guerra e le manifestazioni drammatiche del neoliberismo, ma è vero anche che, nonostante i ripetuti attacchi, è riuscito a costruire un senso comune pubblico nel nostro paese.

Spesso ci siamo fatti impressionare dalle alterne crisi e rinascite delle mobilitazioni: la tendenza che si afferma è quella su cui provare a organizzare il futuro del PRC. La domanda di riappropriazione della politica, del proprio territorio, del proprio presente irrompe in un quadro politico che non riesce a cogliere i mutamenti di fondo. Desideri e domande non chiedono di essere tradotti o rappresentati, ma chiedono risposte in termini di forme di protagonismo, partecipazione e riappropriazione diretta. Il tempo della sinistra d’alternativa è qui e ora. E’ nel suo codice genetico che la sinistra di alternativa deve veder scritta tutta la sua apertura e la novità delle sue forme. Nessuno può pensare di confezionare un vecchio contenitore per metterci oggetti dalle forme nuove e in continua trasformazione.

Avviare un processo costituente significa mettere all’ordine del giorno il tema della coesione di sovranità, il reciproco riconoscimento. Essa deve servire a rinnovare la politica o non serve, deve portarla in una dimensione culturale, cooperativa e sociale e dare spazio a molteplici competenze diverse sapendo valorizzarle tutte. Insomma il tentativo di affrontare la politica anche fuori dalle forme classiche della politica. Di ridare senso a tutte quelle pratiche e a tutte quelle tensioni di costruzione di spazi di socialità che sono immediatamente politici, ma che troppe volte sfuggono a chi si muove sul terreno classico di organizzazione e di produzione della politica. La sinistra d’alternativa non è l’orizzonte politico verso cui muoviamo ma una pratica concreta, una modalità di ricerca che deve muovere dall’alto e dal basso, dai territori e dalle reti nazionali per produrre approdi e ripartenze continue per determinare trasformazioni sociali.

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