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I Rom di Calabria tra modernità e tradizione

par Maria Gabriella

Publie le giovedì 18 agosto 2011 par Maria Gabriella - Open-Publishing

I Rom di Calabria tra modernità e tradizione

L’Associazione “Terra di Confine” Onlus – Sezione Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi) di Catanzaro, ha per scopo interventi per il recupero socioculturale del popolo rom residente sul nostro territorio in maniera stanziale da quasi cinquant’anni, che permettano il superamento dei pregiudizi nei loro confronti e la loro reale integrazione nel pieno rispetto della diversità. L’Associazione prevede, inoltre, interventi per la prevenzione del disagio giovanile, soprattutto nelle fasce più svantaggiate: oltre ai minori rom, minori extracomunitari, ragazzi residenti nei quartieri suburbani della nostra città; che vivono condizioni di svantaggio economico, nonché di emarginazione sociale, con interventi diretti a prevenire ed arginare il fenomeno degli abbandoni scolastici, dell’analfabetismo, della devianza giovanile. L’Associazione rivolge il suo intervento in maniera particolare alle donne che soprattutto in situazioni di svantaggio economico e culturale sono quelle che vivono condizioni di emarginazione maggiori.
“Terra di Confine” fa parte di una rete nazionale che fa capo all’Associazione Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi). L’Aizo nasce a Torino nel 1971 è federata con la “Romani Union” (L’Associazione Mondiale degli Zingari) riconosciuta dall’ONU, opera nel settore dell’emarginazione specificatamente con e per il popolo zingaro.
Nell’anno 2004/05 l’associazione entra a far parte del “Patto Territoriale per il Sociale dell’Area dei Due Mari” promosso dall’Assessorato Provinciale alle Politiche Sociali. I contributi ricevuti hanno permesso la nascita di un Centro Studi, dove raccogliere materiale informativo, che serva non solo ai rom, ma soprattutto a tutti coloro che vorranno conoscere la storia, la cultura e le tradizioni di un popolo che ha attraversato la storia senza farne parte. Inoltre è stata costruita una piccola struttura in legno all’interno dell’accampamento di Via Lucrezia della Valle, denominata “Scuola Arcobaleno”, che è diventata punto di riferimento per l’intera comunità, e punto di incontro per l’Associazione con tutte le Agenzie Educative presenti sul territorio nonché con altre realtà associative o anche singole persone, interessate alle tematiche di pedagogia interculturale che si portano avanti all’interno della “Scuola Arcobaleno”.
L’associazione nasce il 10 dicembre 2010, ma il mio impegno nasce circa 18 anni fa all’interno prima della Caritas Diocesana e poi della Caritas parrocchiale che faceva capo alla Parrocchia di San Francesco di Paola nel quartiere Samà. Nel 2000 ho deciso di costituire un’associazione che mi permettesse di avere autonomia nel mio lavoro e, soprattutto, di creare una realtà che potesse essere riconosciuta a livello cittadino, per portare avanti un confronto reale e fattivo con le istituzioni sulla realtà rom.
Lo scorso dicembre “Terra di Confine” ha festeggiato i suoi primi dieci anni il 10 dicembre 2010, con un evento pubblico in cui abbiamo presentato un video “Romnì tajsa – donne rom ieri e domani” costruito insieme alle romnì della comunità di Via Lucrezia della Valle, che sono entrate a far parte dell’associazione, decidendo di affiancarmi nel mio lavoro e soprattutto di sostenere e promuovere l’associazione che in questi ultimi anni sta vivendo un periodo di profonda crisi economica, dovuta sicuramente ai tagli che si sono abbattuti sul sociale, ma anche alle trasformazioni che si stanno attuando nel terzo settore, nel quale, ormai, per lavorare devi dimostrare di avere capacità economiche che ti permettano di essere competitiva sul mercato. “Terra di Confine” in questi anni ha preferito mantenere le sue peculiarità di piccola associazione, motivo per il quale spesso si trova tagliata fuori da progettazioni più ampie.
Nonostante i tagli e le difficoltà a reperire risorse sia economiche e di conseguenza anche umane, il nostro impegno non ha subito mai interruzioni, perché riteniamo che il processo di cambiamento messo in atto non possa essere interrotto da logiche di potere e di profitto che non dovrebbero appartenere al mondo del sociale, e soprattutto non possa essere determinato dall’avvicendarsi delle varie coalizioni politiche nella gestione della cosa pubblica.
Per far capire il mio impegno che dura ormai da 18 anni, vanno fatte delle precisazioni sulle comunità Rom presenti sul nostro territorio e sulle modalità che determinano ed hanno determinato i loro continui adattamenti alle politiche di pseudo-integrazione portate avanti nel corso di questi ultimi decenni.
La popolazione Rom presente a Catanzaro fa parte delle comunità definite storiche, arrivate nell’Italia centro-meridionale e quindi anche in Calabria, intorno all’anno 1400. Inizialmente praticavano il nomadismo e poi il seminomadismo, seguendo le vie e gli itinerari delle feste religiose e dei mercati degli animali. Il loro censimento inizia prima della seconda guerra mondiale e si conclude nel dopo-guerra, fonte privilegiato per censirli furono le parrocchie alle quali si rivolgevano per far battezzare i bambini. I loro cognomi (Veneziano, Berlingieri, Passalacqua, Bevilacqua …) gli vengono attribuiti usando i cognomi dei latifondisti sulle cui terre si insediavano. Berlingieri ad esempio è il cognome di una nobile famiglia di Crotone, infatti sul corso principale troviamo Palazzo Berlingieri che è uno dei più antichi e belli della città. In merito ai loro cognomi nasce una delle tante “leggende metropolitane” che è quella di non considerare gli zingari locali come veri zingari, non sono certo come i gitani parola che evoca sempre un certo romanticismo, perché hanno dei cognomi calabresi!
Intorno alla fine degli anni cinquanta sono costretti a sedentarizzarsi e per promuovere questo processo ha inizio una serie di politiche assistenzialistiche, che necessitano per poterne fruire, oltre che del certificato di residenza, anche di un domicilio certo e continuativo. Nel frattempo in Calabria pian piano scompaiono i mercati degli animali, soprattutto quello dei cavalli e degli asini, che era una delle attività principali delle nostre comunità Rom. Intanto al carro era stato sostituito il camion, un mezzo sicuramente più veloce che permette di raggiungere in breve tempo i mercati fuori regione, e consente inoltre lo spostamento solo dei capifamiglia e in generale degli uomini, mentre le donne restano a casa a badare ai figli. Siamo in pieno periodo industriale, benché di industrie in Calabria ce ne siano poche, inizia il fenomeno dell’urbanizzazione con lo spopolamento delle campagne. I territori dove le comunità rom possono insediarsi diventano sempre più angusti e limitati nelle classiche periferie urbane, che nel corso degli anni sono sempre più prossime al centro. Vengono meno le attività artigianali che rappresentavano l’unica forma di sussistenza dei gruppi rom.
Nel corso di questi sessant’anni i Rom si insediano nella periferia sud della città, costruendo baraccopoli che a causa di un’alluvione vengono smantellate, trovando soluzioni provvisorie, su dei terreni in zona, che nel corso degli anni diventano definitive a causa del disinteresse delle istituzioni. Continuano a praticare un semi-nomadismo regionale dettato oltre che da esigenze economiche, da ricongiungimenti familiari, da nuove alleanze che nascono dai matrimoni, oppure da liti e rotture tra nuclei familiari. Continuano a praticare l’allevamento e la vendita di equini, il piccolo artigianato in ferro da vendere alle fiere nel corso delle feste religiose, trasformano la loro attitudine nella lavorazione del ferro nella raccolta del ferro vecchio, attività che purtroppo in questi ultimi anni rischia di sparire perché imbrigliata in regole a loro inaccessibili. Acquistano motocarri e camion ed iniziano a fare i venditori ambulanti oppure gli autotrasportatori, lavorano anche nelle raccolte stagionali (fieno, angurie, olive ecc.)
Intorno agli anni ’70 incominciano i tentativi di integrazione, nasce il quartiere Germaneto, sempre nella periferia sud della città, in un’area abbastanza isolata e nascosta, l’unica cosa positiva è la presenza della scuola materna ed elementare, che in seguito verrà chiusa perché frequentata solo ed esclusivamente da bambini rom, gli altri bambini vengono tutti spostati in scuole anche in paesi limitrofi. Le case assegnate anche a famiglie non-rom, in breve tempo, restano abitate solo dalle famiglie rom, pertanto il tentativo di integrazione viene meno, perché è impensabile che soltanto mettendo a vivere nello stesso territorio nuclei familiari rom e non-rom in automatico scatti l’integrazione!
Negli anni ’80 nascono i grandi quartieri sub-urbani con le cosiddette case popolari da affidare in base a delle graduatorie, molte famiglie rom che abitavano ancora nell’area di Via Lucrezia della Valle in condizioni di sovraffollamento, fanno richiesta della casa ed incominciano a spostarsi nei quartieri Pistoia ed Aranceto. Anche qui si esulta per le buone prassi del Comune che permette l’integrazione tra rom e non-rom, assegnando le case “anche” alle famiglie rom. Ma purtroppo i processi non sono così semplici e lineari, questi quartieri a distanza di trent’anni rappresentano un grosso nodo da risolvere per tutte le Amministrazioni che si sono succedute. Per le famiglie rom il quartiere ha rappresentato se vogliamo un impoverimento sia a livello relazionale che a livello economico. Le famiglie non-rom, che hanno resistito a vivere accanto ai rom perché non hanno avuto altra alternativa, hanno livelli di povertà sia economica che culturale simili a quelle dei rom. Nascono i cosiddetti quartieri ghetto, quelli che determinano la vita ed il futuro di chi vi vive e di chi vi nasce in maniera ineluttabile, lontani dal centro non geograficamente ma simbolicamente, in breve tempo diventano sacche di povertà in cui l’emarginazione, l’esclusione, la disoccupazione, gli abbandoni scolastici, il disagio e la devianza sono comuni a tutti coloro che vi abitano senza alcuna distinzione di appartenenza. I rom dal canto loro, dopo aver sperato ad una forma di riscatto sociale andando ad abitare nelle “palazzine”, si ritrovano con problemi ancora maggiori di quelli che vivevano al campo, aumentano i costi della vita (le bollette da pagare, il canone di affitto, il condominio) e nel contempo diminuiscono le possibilità di lavoro tradizionali: la raccolta del ferro vecchio, l’allevamento di animali ecc. Peggiorano anche le loro modalità di relazione: il ritrovarsi la sera intorno al fuoco per raccontarsi la giornata, la possibilità di celebrare le ricorrenze (matrimoni, nascite e morti) secondo delle usanze proprie … vengono meno le possibilità di equilibrare la loro vita tra dentro e fuori la comunità, mentre al contempo non migliorano affatto i loro rapporti con la popolazione circostante.
Oggi le comunità rom, che in tutto non superano le mille unità, continuano a vivere nella zona sud della città, la maggioranza inseriti nei quartieri ed una piccola parte che potremmo definire “gli irriducibili” vivono, in quelli che ancora oggi vengono definiti erroneamente accampamenti, dove hanno costruito delle case in muratura, hanno i servizi igienici in casa, l’acqua calda e l’energia elettrica. Ad abitare in questi “non luoghi” sono le famiglie che per scelta hanno rifiutato la casa popolare perché ritengono che la vita in questi quartieri non sia degna di essere vissuta, inoltre temono molto che i loro figli possano perdersi in attività delinquenziali più gravi di quelle “consentite” perché verrebbe meno il controllo sociale da parte della comunità.
Possiamo dire che il fenomeno della sedentarizzazione ormai si sia concluso, benché spesso vengano ancora oggi definiti “nomadi”, è finito anche il semi-nomadismo, accade ormai raramente che quando vanno a trovare parenti o amici, soprattutto per ricorrenze, si assentino per più di qualche giorno e soprattutto qualcuno deve sempre restare a casa per vigilare.
Nonostante io sia sempre stata convinta che il nomadismo non sia stato una “vocazione” ma piuttosto una “necessità”, il venir meno di questa consuetudine ha sicuramente privato le comunità rom della possibilità di mantenere modalità di insediamento, che venivano utilizzate per far diminuire i contrasti con le comunità locali. La categoria di “nomade” e di “nomadismo” viene in ogni caso utilizzata sempre in maniera strumentale, oggi più che mai, pensiamo alle soluzioni abitative dei “campi” e alle “politiche di sgombero” utilizzate in tutta Italia per risolvere il “problema Rom”.
I Rom calabresi, benché cittadini italiani da generazioni, iscritti alle anagrafe, con il diritto di voto, con il dovere di mandare a scuola i propri figli, continuano a rappresentare un corpo estraneo all’interno della città. A farne le spese maggiormente sono soprattutto le nuove generazioni che vivono una profonda lacerazione tra tradizione e modernità, a cui non trovano risposta, sia che vivano nei quartieri sub-urbani oppure rinchiusi nei loro campi come in delle riserve indiane, spesso continuano a ripetere in maniera coatta la vita dei loro genitori, perché privi di alternative. I tempi sono cambiati ma purtroppo loro non sono riusciti a mettersi al passo coi tempi, questo non per colpa loro, come a molti fa comodo credere! Il loro anelito di cambiamento si infrange davanti alla mancanza di opportunità, un popolo che oggi sta vivendo, soprattutto attraverso i suoi giovani, una profonda crisi perché sta perdendo quelle che erano le sue ataviche capacità di adattamento.
L’impegno che “Terra di Confine” ha portato avanti in questi lunghi anni è stato prevalentemente rivolto alla scolarizzazione e all’inserimento scolastico dei più piccoli, all’alfabetizzazione degli adulti, si è lavorato principalmente con le donne ed i minori, che all’interno del gruppo rappresentano le fasce più deboli. Ricordo ancora come fosse ieri il mio incontro con la comunità di Via Lucrezia della Valle. La situazione che ho trovato era qualcosa di impensabile, nessun bambino andava a scuola, le donne e i bambini vivevano una sorta di segregazione all’interno del campo, parlavano una lingua incomprensibile, che scoprii in seguito che era un miscuglio di tutti i dialetti calabresi con la mescolanza di qualche parola in romanès (lingua originaria del popolo rom). Il lavoro portato avanti, con progetti che hanno previsto il servizio-sveglia per permettere ai bambini una frequenza regolare, ed il supporto all’interno della scuola sia a livello didattico sia a livello di mediazione sociale tra la scuola e la comunità, ha cambiato e migliorato sicuramente le condizioni. Oggi tutti i bambini frequentano la scuola, ma molto resta ancora da fare sia sul piano dell’accoglienza che su quello dell’integrazione. Dopo otto anni di progetti ma soprattutto di grande impegno nel settore della scolarizzazione dei bambini rom e nella lotta all’emarginazione, all’analfabetismo e alla dispersione scolastica, 5 anni fa mi ritrovo di colpo fuori da questo canale, che fra le altre cose rappresentava per me e per l’associazione l’unica gratificazione economica, benché misera e non rispettosa della mia professionalità. L’unica sicurezza che mi permetteva di affrontare il mio impegno e portarlo avanti pur fra tante difficoltà, avendo un ruolo ben preciso all’interno di una scuola che purtroppo non ha mai accettato me nella stessa misura in cui non accetta i bambini rom.
La L.R. 27/85, che permetteva di portare avanti i progetti all’interno della scuola viene modificata, l’impossibilità da parte delle associazioni di avere piena titolarità nelle progettualità previste da tale legge, hanno permesso al 4° Circolo Didattico di Catanzaro di considerare poco appetibili la mia collaborazione e la mia professionalità nei confronti di una “minoranza” di bambini, come quella dei bambini rom.
La mia posizione non è mai stata facile, mai improntata al dialogo e alla collaborazione, fra chi ha ritenuto sufficiente aprire le porte della scuola e far entrare anche i bambini rom nelle classi, facendo ricadere gli insuccessi e la mancata integrazione sugli stessi, quasi come se fosse una tara ereditaria, facendo pagare ai figli le colpe dei propri padri e dei propri avi; e chi invece lotta da diciotto anni a fianco di questo popolo e soprattutto dei più piccoli, in un cammino che li vede protagonisti e attori del proprio cambiamento, nel pieno rispetto di una umanità che va aldilà di qualsiasi senso di appartenenza.
Nonostante tutto ciò crea un grande danno all’associazione e ancor di più ai minori rom che frequentano la scuola, il nostro impegno continua modificandosi, lavoriamo prevalentemente con la comunità all’interno della piccola scuola “Arcobaleno”. Da tre anni portiamo avanti laboratori di alfabetizzazioni per le giovani donne, cerchiamo di supportare i bambini che frequentano la scuola, portiamo avanti piccoli progetti all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni, e nella Casa Circondariale di Siano.
Le difficoltà non mancano, legate soprattutto alla scarsità delle risorse economiche che non ci permettono di coinvolgere un numero maggiore di persone. I cambiamenti messi in atto hanno bisogno di un impegno costante ma soprattutto di un riconoscimento da parte delle istituzione che spesso è inesistente perché legato a quel fenomeno che la Comunità Europea ha definito “antiziganismo”, che necessità di essere distinto dalla lotta a qualsiasi altra forma di razzismo. In altri termini, si riconosce che i Rom “in ragione delle loro vicissitudini e del loro perpetuo sradicamento, costituiscono una minoranza sfavorita e vulnerabile che ha un carattere particolare” e che, pertanto “hanno bisogno di una protezione speciale” (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grecia, 2008).
“Terra di Confine” inoltre, in questi anni ha organizzato tutta una serie di iniziative volte a promuovere e far conoscere la storia e la cultura Rom. Dal 2006, il 26 gennaio “Giornata della memoria”, promuove momenti di riflessione sull’Olocausto dimenticato del popolo Rom. Negli ultimi due anni, coinvolta dal CSV (Centro Servizi al Volontariato) promuove incontri con le scuole di vari ordini per riflettere e far conoscere la storia di questo popolo che vive accanto a noi da circa sei secoli.
In questi lunghi anni, come ho già detto, mi sono occupata prevalentemente di scolarizzazione, ma lavorando all’interno di una piccola comunità di circa 120 persone, ho avuto la fortuna di fare un cammino che mi ha portato alla vera conoscenza di un’altra cultura in termini antropologici. Oggi sono in grado di decodificare il loro linguaggio e pensiero simbolico, tutto ciò mi permette di capire che le loro capacità adattive alla società maggioritaria stanno venendo meno.
L’attuale situazione è diventata ancor più critica, quella che da alcuni studiosi viene definita “deriva delinquenziale” è una realtà anche nella nostra città. Spesso partecipo ad incontri con le istituzioni, in cui si discute delle problematiche rom e delle possibili risoluzioni e mi rendo conto che le percezioni di chi non vive da vicino queste situazioni, sono molto distanti da quelle di chi da anni ha fatto una scelta ben precisa, quella di essere vicina agli “ultimi”! Quest’impegno ha riempito la mia vita, ma allo stesso tempo l’ha cambiata, non in maniera repentina ma lentamente … i miei punti di riferimento, le mie priorità si sono modificate.
Non è stata una scelta facile, non lo è tuttora, perché è spesso accompagnata dalla sensazione di solitudine di chi ha superato un limite, di chi è andato oltre, di chi ha saputo accogliere e condividere il “marchio” della diversità.
Il rifiuto e l’emarginazione da una parte, il contatto marginale con la nostra cultura attraverso la scuola, ma soprattutto la televisione, sta disgregando la loro cultura. A farne le spese sono soprattutto i giovani che vivono una profonda scissione tra modernità e tradizione. La scuola non è stata in grado di dare risposte al loro desiderio di cambiamento, gli adulti di domani avranno vissuto sulla loro pelle l’insuccesso scolastico con tutte le sue conseguenze. Nuove forme di rivalsa vengono fuori nei confronti di una società che li rifiuta.

Maria Gabriella De Luca presidente “Terra di Confine” sezione Aizo di Catanzaro