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Il desiderio italiano di essere servi

Publie le lunedì 2 maggio 2011 par Open-Publishing

In nessun paese la piaga del servilismo è prospera come da noi. Grazie anche ai
comportamenti di questo governo e alla cultura che passa attraverso dei media sempre
più asserviti È il trionfo della sistematica rinuncia alla propria dignità. Ma la
voglia di affermarla torna a farsi strada nelle lotte che animano la scena sociale

La piaga che affligge il paese è il servilismo. Non è una piaga esclusivamente
nostrana; è diffusa in tutto il mondo, e per ragioni strutturali che poco hanno a
che fare con i "valori" propugnati da chi lo pratica. Ma in nessun paese è così
pervasiva, consolidata e ostentata come da noi. Non è un fenomeno esclusivo del
nostro tempo; è vecchio come il mondo. Gli antichi Greci disprezzavano gli schiavi -
prigionieri catturati in guerra o comprati e venduti - perché avevano preferito
servire invece di morire. Il feudalesimo - un regime da non rimpiangere, per molti
versi riproposto da alcuni tratti della nostra epoca - era fondato su un patto
personale che implicava l’asservimento a tutti i livelli gerarchici. Ma quella
fedeltà era regolata da un codice che impegnava tanto il signore che il vassallo.
Oggi invece il servilismo è "nomade": si offre di volta in volta a seconda delle
convenienze: la compravendita di deputati con cui l’Italia si governa e fa mostra di
sé al resto del mondo ne è una delle manifestazioni più esplicite.

Ciò che caratterizza il servilismo del nostro tempo e del nostro paese è l’essere il
meccanismo operativo della competitività: cioè di quella guerra di tutti contro
tutti, per affermarsi a spese degli altri, che è la riproposizione - nei rapporti
interpersonali, nei meccanismi di promozione sociale, negli avanzamenti in carriera,
nella selezione delle classi dirigenti - della concorrenza tra imprese. Un
meccanismo che costituisce il fondamento (indiscusso quanto sistematicamente
disatteso) di quel "pensiero unico" che ha improntato di sé la nostra epoca fin nei
più reconditi e inesplorati recessi del nostro pensiero; anche quando siamo convinti
di esserne immuni.

Il servilismo è la ricerca di un’affermazione personale - anche minima, anche
irrisoria; solo a volte ben remunerata - a spese della propria autonomia. Cioè, non
in base a quello che siamo, o ci sforziamo di essere, o abbiamo acquisito col tempo
e a fatica; bensì rinunciando a tutte queste cose; mettendoci "a disposizione" del
padrone di turno. Pronti non a sviluppare un nuovo modo di pensare - benvenga!- ma
solo a passare a un diverso padrone, che ci dirà lui che cosa possiamo e dobbiamo
"pensare". Il servilismo è la rinuncia sistematica e volontaria alla propria
dignità.

Al servilismo è strettamente legato il razzismo, anch’esso dispiegato, feroce e
ostentato in tutte le sue sfaccettature oggi più mai. Il razzismo è la
rivendicazione di un rango, anche infimo, legato alla nascita, al proprio
territorio, alla propria lingua, alle proprie abitudini, alla propria appartenenza a
un "corpo sociale": un simulacro di una "dignità" affidata a una dimensione
fantastica proprio da chi si sente schiacciato e perdente in un contesto dominato
dalla competizione; costretto a "farsi servo" per cercare di conservare il proprio
status. Il razzismo alligna sempre, in qualche forma sopita, dentro ciascuno di noi,
ma si sviluppa - ce lo ha mostrato Zigmund Bauman fin dai tempi di Modernità e
Olocausto - solo quando è fomentato e coltivato dall’alto, come compensazione delle
frustrazioni di un’esistenza precaria.

Ma che cosa ha reso il servilismo così prospero e diffuso nel nostro paese? Che cosa
ci ha portato a cadere così in basso? Certamente, qui più che altrove, c’è stata una
carenza di difese immunitarie; un deficit di presidi culturali (in senso
antropologico e non elitario) che ha travolto tutta la società come una valanga che
si ingrossa rotolando. Si tratta di un processo sicuramente promosso dall’alto: dai
comportamenti di questo governo, dalla cultura che esprime attraverso mass media
sempre più asserviti; da meccanismi di selezione di ministri, deputati, governatori,
consiglieri, dirigenti politici, manager, banchieri, giornalisti e direttori di
media e istituzioni, ai quali non sono stati e non sono certo estranei partiti,
forze e culture della vera o presunta opposizione.

Ma quei presidi sono affondati, o - auspicabilmente - hanno imboccato un percorso
carsico, anche per un processo che nasce "dal basso"; per responsabilità di molti di
noi. Perché la rivendicazione della propria dignità, che quarant’anni fa aveva
caratterizzato un intero decennio di lotte, di maturazione, di orgoglio di sentirsi
protagonisti, di "presa di parola" da parte di persone che non l’avevano mai avuta,
è stata per anni associata agli esiti fallimentari di quella stagione di cui molti
di noi portano la responsabilità: un fardello che nessuno, o quasi, dei protagonisti
di allora si è sentito di caricare sulle proprie spalle; o lo ha fatto in sordina,
lasciando a pochi, e non certo ai più attrezzati, l’onere di rivendicare il
carattere "formidabile" di quegli anni.

La dignità, la ricerca e la conquista di una propria autonomia personale all’interno
di un processo condiviso, azzerando le disparità e le gerarchie che ne ostacolano la
realizzazione, è il grande contenuto che aveva accomunato le rivolte studentesche
del ’68 contro l’autoritarismo nelle scuole, nell’università, nelle istituzioni e
nella società, con l’insubordinazione e la presa di parola degli operai nelle
fabbriche, contro le discriminazioni, le gerarchie e i meccanismi di imposizione del
servilismo propri dell’organizzazione - allora "fordista" - del lavoro. Un contenuto
che si era andato via via diffondendo in tutti i gangli della società: carceri,
magistratura, esercito, polizia, quartieri, redazioni; per spianare poi la strada al
femminismo degli anni ’70, che in qualche modo aveva coronato, e anche concluso,
quel processo.

Ed à proprio quel contenuto di fondo - premessa di ogni altra rivendicazione
sostanziale, o di ogni progetto condiviso di trasformazione dei rapporti personali e
sociali - quello che, a quarant’anni di distanza, i vari detrattori del
"sessantotto" (ultimo in ordine di tempo, dopo Tremonti, Brunetta, Gelmini,
Giovanardi & Co, si è ora aggiunto il ministro Sacconi) non riescono ancora e non
riusciranno mai a capire; perché è del tutto estraneo al loro modo di vivere e
pensare; e, per dirla tutta, al modo in cui hanno fatto carriera. Ma è anche un
contenuto che molti di noi, se sufficientemente anziani, hanno dimenticato, o fatto
o lasciato dimenticare; e, se più giovani, non hanno mai o quasi mai avuto
l’occasione di sperimentare all’interno di un processo condiviso.

Oggi la voglia di affermare la propria dignità, la legittimità dei propri desideri,
delle proprie aspirazioni, dei propri sforzi, ritorna con forza a farsi strada
all’interno di molti dei processi di lotta o di resistenza che animano la scena
sociale: e non solo da noi, ma anche, e molto di più, in paesi vicini da cui da
troppo tempo avevamo colpevolmente distolto lo sguardo. In tutti i casi - i
movimenti nostrani come le rivolte di altri popoli - si tratta di un fenomeno che va
salutato con rispetto e accolto con gioia.

Si discute molto in questi mesi, soprattutto a proposito delle nuove generazioni, di
una "scomparsa del desiderio" legata alla dissoluzione della figura del padre e del
senso del limite che essa impone. Chi ha avuto occasione per motivi professionali di
osservare da vicino questo fenomeno è certo attrezzato a parlarne con cognizione di
causa. Ma visto dall’esterno, e con diversità lessicali in cui si rispecchiano
approcci tra loro distanti, l’impressione che si ricava da questo dibattito è quella
di una distorsione ottica. Più che prodotto dalla ricerca di un godimento illimitato
indotta dal consumismo, la "scomparsa del desiderio" sembra manifestarsi, per lo
più, come uno stato di depressione provocato da un mondo senza sbocchi diversi dal
servilismo. È difficile, infatti, desiderare di farsi servi; anche se molti lo
fanno: soprattutto per mettersi in grado di poter a loro volta asservire altri. Ma
nella rivendicazione della dignità che torna a fare capolino come evento dirompente
nei movimenti di questo periodo c’è la potenzialità di una reazione e di una "cura"
della depressione. propria di un mondo senza sbocchi.

Ecco che cosa siamo, e perché non ce lo togliamo di dosso. Il manifesto, 29 aprile 2011