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Il nemico dell’uomo indebitato

par Roberto Ciccarelli

Publie le lunedì 21 novembre 2011 par Roberto Ciccarelli - Open-Publishing

Da quando la politica è diventata il sinonimo della finanza stentiamo a dare una risposta a questa domanda:
chi è il soggetto di un governo? Chi lo autorizza e chi lo legittima? È forse il «popolo», ormai esautorato
dalle decisioni della Bce o dell’Fmi, o l’ologramma dei «mercati» che ne hanno fagocitato la sovranità,
inventando un soggetto senza alcun rapporto con ciò che lo ha sempre legittimato? Se è questo il quadro in
cui la crisi dei debiti sovrani annichilisce la politica, o quel poco che la crisi ha lasciato intatto, resta da
capire se questo soggetto sia ancora il riferimento per chi è alla ricerca di una nuova politica. In Citoyen
Sujet (Puf, pp. 523, euro 32), il terzo libro pubblicato in un solo anno dal filosofo francese Etienne Balibar,
dopo Violence et Civilité (Galilée) e La proposition de l’Egaliberté (Puf), si trova una risposta alla domanda
più importante del nostro tempo: che cosa viene dopo il soggetto? Diversamente dal dibattito politico che
individua la soluzione alla crisi in un governo che mescola il «liberismo temperato» con una «dittatura
commissaria» e la compassione di rito cattolico romano, Balibar sostiene che il soggetto della politica non
può essere limitato a quello della finanza, dello stato o del popolo. Tale soggetto è il risultato di un
movimento, quello del cittadino‐soggetto, una figura concettuale sulla quale lavora da trent’anni, che vive
grazie ad un doppio movimento costituente: la rivendicazione del «diritto ad avere diritti» e il conflitto con
il suo rovescio, cioè la durezza dei rapporti sociali all’interno dei quali il cittadino‐soggetto rivendica la
posizione originaria a fare politica, rischiando però di essere annientato dal suo «malessere» o da quello
altrui. Nello schema indicato da Balibar da un lato c’è il divenire cittadino del soggetto e dall’altro il divenire
soggetto del cittadino.

’accento qui cade sull’immanenza del «divenire», e non sulle antinomie prodotte
dal «soggetto» (subiectum) nella cui radice latina emerge la contraddizione di un individuo (subjectus) che
si libera a condizione di accettare la subordinazione, la psicopatologia individuale e l’istinto di morte
(subtitus). Nel movimento che costituisce il «cittadino‐soggetto», Balibar vede invece l’espressione di un
conatus, cioè la potenza di una molteplicità di trasformazioni, individuali e collettive, che non possono
essere ridotte ai confini della sovranità del «soggetto» borghese e capitalista teorizzato da Cartesio,
Hobbes, Locke, Rousseau e Hegel che molti considerano ancora l’antidoto alla «fine della politica». Nei
quindici saggi che compongono l’opera di una vita, perfezionata per vent’anni con una messa a punto della
scrittura rispetto alle esigenze della congiuntura teorica e politica, Balibar esclude anche l’idea che tale
potenza sia riducibile alla sostanza primigenia dell’«umano» o a quella morale dei suoi «valori». È a questo
soggetto che egli cerca di sottrarre l’idea dell’antropologia filosofica, cioè di un’idea regolatrice della natura
umana divisa tra l’astrazione del dover essere cittadino e la materialità inconfessabile dei suoi istinti di
uomo‐maschio‐eterosessuale.

Balibar intende invece l’«antropologia» come una «questione critica» creata
da un movimento che è sia immanente che trascendentale all’individuo e alla società. Questo movimento è
l’espressione dell’«essere della relazione» (lo teorizzò già Marx nella VI tesi su Feuerbach) e non il risultato
della rimozione della sua psicosi o sull’impossibilità di garantire la «presenza a se stesso» come ritiene la
psicoanalisi. Nella sua amplissima diagnosi del «malessere», da intendere deleuzianamente come «clinica e
critica» di ciò che esprime il movimento del cittadino‐soggetto nel presente, Balibar ritorna alle sorgenti del
pensiero materialistico. In pagine illuminanti per chiarezza che rendono Citoyen‐Sujet uno dei libri filosofici
più importanti degli ultimi tempi, egli spiega che l’«essenza dell’uomo» non è fondata sulla nozione astratta
di «genere umano», ma sull’insieme dei rapporti sociali. Questa tesi abolisce ogni trascendenza, quella
hegeliana dell’intersoggettività (alla quale sono dedicate pagine importanti), ma anche quella attuale dei
sacrifici o del debito imposti dai governi neo‐liberisti. Il problema del soggetto viene così riposizionato sul
«piano di immanenza» dove la totalità sempre aperta, e mai conclusa, dei rapporti sociali costituiscono
l’«essere umano».

Il pensiero dell’immanenza di Marx, che Citoyen‐Sujet valorizza appieno, estende
l’universalismo al mondo intero delle azioni degli individui che l’autore del Capitale pensava solo come
«produttori» e che, in maniera più comprensiva della differenza sessuale, del queer e delle migrazioni,
Balibar intende come cittadini globali. Cresce però un sospetto: in questa «immanenza» c’è forse un’astuzia
che consegna il divenire del soggetto all’alienazione pura e semplice? Non è così, risponde Balibar, perché la
cittadinanza non è più uno status, ma una condizione politica universale. Questo significa che il suo
«soggetto» non è il «doppio empirico‐trascendentale» che, all’esterno, cioè sul mercato e quindi nella
società, blocca e rimuove l’inquietante movimento interno che lo costituisce e nemmeno quello liberista
che riconosce ai soggetti solo una condizione psicotica o marginale, negando ogni alterità rispetto
all’inferno in cui vivono.

Privilegiando, invece, l’ontologia della relazione, e integrando l’individuo in una
visione trans‐individuale dell’essere sociale, Balibar sostiene che la condizione, di cui il «cittadino‐soggetto»
sarebbe l’espressione, deriva dalla possibilità che il divenire cittadino‐soggetto sia una politica che crea
norme e istituzioni dentro e fuori l’attuale forma del governo. Nella condizione del «cittadino‐soggetto» il
filosofo francese riconosce una virtù politica presente sia nella tradizione insurrezionale delle rivoluzioni
borghesi, sia nelle origini del comunismo. Su queste basi storiche egli declina una politica capace di
coniugare il diritto fondato sull’insubordinazione e l’emancipazione che trae la sua potenza dalla
costruzione di un’opera comune.

Questa riscoperta del pensiero dell’immanenza, e delle sue inesplorate
potenzialità politiche, deve superare la non facile verifica dei poteri o della sua vulnerabilità. Quale forza
politica è capace oggi di incarnare questa prospettiva? Evidentemente nessuna, non perché non possa
esisterne una, ma perché le forze che potrebbero farlo arretrano ancora davanti alla «mostruosità» del loro
divenire «cittadini‐soggetto».