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Il signor Moog ci ha lasciati

Publie le lunedì 22 agosto 2005 par Open-Publishing

di Roberto Brunelli

In principio, secondo taluni, fu l’«intonarumori»: una grande scatola generatrice di rumori dotata di apposita leva. Se l’erano inventata quei diavoli dei futuristi, violentemente ossessivi in fatto di modernità...

Chissà se Robert Moog ne sapeva qualcosa dei futuristi. Certamente, in fatto di modernità ed elettronica, questo signore nato nel ‘34 a New York è uno che ha marchiato a fuoco la storia.

Non solo perché oggi tutta la musica elettronica che conosciamo, dalla techno all’hip hop all’ambient, gli deve quasi tutto, ma perché il dottor Moog - scomparso a 71 anni nella sua casa in North Carolina - ci ha consegnato il suono di un’epoca, quella degli anni Settanta. Un suono particolare, che aveva in sé la chiave del paradosso: era un suono «sintetico», elettronico, eppure era un po’ sporco, era sensuale, caldo, umano, era visione del futuro e orchestralità allo stesso tempo, e per questo veniva appassionatamente amato soprattutto da gente come Genesis, Yes, Emerson Lake & Palmer, Pink Floyd, Frank Zappa, Van der Graaf Generator e, in Italia, le Orme e la Pfm, gente che cercò di ampliare i confini del nel rock immettendovi le strutture della musica classica e della musica colta. Stiamo parlando - appunto - del sintetizzatore moog, la prima tastiera elettronica effettivamente utilizzable su larga scala, in sala di registrazione come sul palco.

Sapete, fino allora il sintetizzatore era un grosso «coso» da laboratorio: nato negli anni cinquanta, era uno dei mezzi della sperimentazione dell’avanguardia, e già ti vedi le foto in bianco e nero di gente come Luciano Berio, John Cage, Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Edgar Varèse alle prese con il nuovo mezzo che ti rimandava a un immaginario più vicino al cinema di fantascienza che non alla musica in divenire, con i suoi oscillatori, le schede perforate e bizzarrie varie. Incredibile a dirsi, ma la musica elettronica ebbe un grande impulso proprio da pellicole come Il pianeta proibito, film-culto di Fred M. Wilcox, del ‘56, dove il suono elettronico precedeva e accompagnava l’arrivo dell’alieno di turno. Era però un percorso ancora stretto tra l’avanguardia e il folkoristico, finché non giunse sui suoi sentieri il perspicace Bob Moog. Che era uno con la verve dell’inventore d’altri tempi. Aveva preso dal padre, un radio amatore, e già a 14 anni s’inventò un aggeggio chiamato «theremin», portato all’empireo rock dai Beach Boys nientemeno che con Good Vibrations.

Tutto cambia nel (eh sì, fatidico...) ‘68, quando Wendy Carlos registrò un disco, Switched-on Bach, che altro non erano se non variazioni su temi di Johann Sebastian Bach effettuate con il nuovo strumento. Fu un successone: i Beatles ne fecero uso in Abbey Road, ma la grande svolta arriva con l’assolo di Keith Emerson in Lucky Man.

Piegato su quella tastierina piccola ma potente, Keith fa diventare il moog uno strumento passionale, graffiante, solido. E poi il moog diventa anche una questione di colpo d’occhio: avete presente i lunghissimi capelli biondi di Rick Wakeman che splendevano nel buio, con una mano sull’organo Hammond, l’altra sul moog? Il tastierista-demiurgo e orchestratore, praticamente un’icona della mitologia seventies

Oggi che Bobby ci ha lasciati tanta acqua è scorsa sotto il ponte del moog, passando dalla freddezza teutonica dei Kraftwerk alle calurie della fusion. Eppure, non solo la tastierina ha un suo festival (l’anno scorso si è celebrato a New York), ma soprattutto rispunta sempre più spesso nelle sonorità di oggi: il moog lo scovi tra i solchi degli Stereolab come di Fat Boy Slim, lo ritrovi nelle sperimentazioni di un giovane dj e magari in un disco di Lenny Kravitz e chissà dove. Perché il futuro, quello vero, non passa mai. http://www.moogmusic.com/

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