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di Michele Meomartino
All’indomani, nel Settembre 2003, della decisione da parte del Consiglio Comunale di Pescara, su proposta del consigliere Fausto Di Nisio, di esporre la bandiera arcobaleno, simbolo della pace, dal balcone del Palazzo di Città e nelle sedi delle Circoscrizioni, non pochi pacifisti pescaresi salutarono con grande soddisfazione questa decisione.
Perché nella complessa e variegata costruzione della pace anche i simboli hanno la loro importanza.
Una decisione coraggiosa che passò in aula consiliare con i soli voti dell’allora maggioranza perché la minoranza di centrodestra, accusando il centrosinistra di un uso strumentale della bandiera della pace, votò contro.
Negli ultimi giorni attraverso alcuni organi di stampa locali e poi, con la lettera aperta del Presidente dell’Associazione “ Aiutiamoli a vivere “, Tusio De Iuliis, si viene a sapere dell’intenzione da parte della stessa maggioranza di erigere " Un monumento per gli operatori di pace nel mondo ed a ricordo delle Vittime di Nassiriya e contro ogni forma di terrorismo ".
Un’ intenzione che sta suscitando non poche polemiche tra quegli stessi pacifisti che salutarono con soddisfazione la decisone di esporre la bandiera della pace.
Un’ intenzione che, qualora venisse realizzata, produrrebbe una sicura lacerazione non priva di conseguenze, perché molti pacifisti locali ritengono che tale decisione del Consiglio comunale di Pescara sia sbagliata sia nel metodo, che nel merito.
Partiamo dal merito.
Nell’istituire un Comitato tecnico, il Comune non ha interpellato nessuna personalità del mondo pacifista, che pure vanta la città, ma, al di là di alcune personalità della cosiddetta società civile presenti nel Comitato e su cui non mi pronuncio, ci sono solo i rappresentanti dei vertici militari.
Eppure si tratta di erigere un monumento che, come recita l’intestazione, è dedicato agli operatori della pace nel mondo.
Sono consapevole che la pace è un bene talmente universale che non può riguardare solo i suoi costruttori, ma non invitare nemmeno uno dei tanti testimoni che da anni sono impegnati su questi temi a far parte del Comitato, lo ritengo una grave lacuna, oltre ad aver impoverito il lavoro del Comitato stesso.
E veniamo al merito
Da aspirante nonviolento, faccio una lunga premessa che ritengo doverosa in questo mio ragionamento.
La parola Nonviolenza è la traduzione in italiano della parola sanscrita Satyagraha, che vuol dire " Forza della Verità ".
La parola Nonviolenza, quindi, ben lungi dal definire un atteggiamento passivo, come sembra in apparenza esprimere, è un termine attivo e dinamico, perché la ricerca della “ Verità “ presuppone una continua disponibilità e attenzione all’ascolto, al dialogo e al confronto.
In questa ricerca, ogni amico della nonviolenza, come amava definirsi Aldo Capitini, sa che non deve giocare con le parole perché esse, se adeguatamente meditate, rivelano significati importanti che ci aiutano a comprendere meglio la “ Verità “.
Allora, proprio perché si è consci della potenza delle parole, che non vanno usate come se fossero un “ flatus vocis “, esse, per quanto è possibile, devono essere usate con molta prudenza per poter esprimere significati inequivoci e chiari.
Invece, spesso, assistiamo un po’ spregiudicatamente, quando non ipocritamente, all’uso di termini come : “ Guerra umanitaria “, “ Guerra preventiva “, “ Operazione di polizia internazionale “, “ Milizia di pace “, “ Corpi militari di pace “, ecc...........
Tutte espressioni che vengono usate per mitigare, quando non per nascondere, che si tratta di pura e semplice guerra.
Ma non si scherza con le parole.
La guerra è la guerra e lo sa soprattutto chi la vissuta e spesso subita, come la stragrande maggioranza delle vittime.
La guerra, questo flagello, come viene chiamata nella carta dell’Onu del 1948, dopo il secondo conflitto mondiale e la costituzione delle Nazioni Unite, era stata estromessa dalla storia.
Nella Costituzione italiana, all’articolo 11, i nostri Padri costituenti usarono un’ espressione molto forte, come “ Ripudio “ e per Papa Giovanni XXIII è addirittura fuori dalla ragione “ Alienum a ratione “.
Quindi, una volta ripristinato l’uso corretto delle parole, possiamo cercare le ragioni che hanno spinto gli uomini a farla, ma soprattutto per cercare di prevenirla.
Ma prima dobbiamo restituire alle parole un minimo di chiarezza.
Ritornando all’intenzione di erigere un monumento, ritengo che la sua triplice intestazione si presti a più di un equivoco ed è chiaro che la prima e la terza, che sono di ordine generale, sono funzionali e supportano la seconda, che, invece, indica un fatto storico realmente accaduto e che rappresenta la vera ragione dei promotori.
Per cui l’intenzione evocativa di tramandare una memoria alle future generazioni è fortemente compromessa da un messaggio poco chiaro che genera molta confusione.
In modo analogo, questa triplice intestazione ricorda molto i trittici della pittura rinascimentale e, come nella storia dell’arte si insegna, nel trittico, la pala centrale trova il suo pieno compimento e spiegazione nell’ausilio dei significati delle due pale laterali in un nesso coerente che li lega.
Invece, l’intestazione centrale del monumento, che è quella principale : “ A ricordo delle vittime di Nassiriya “, non risulta coerente e strida sia con quella che la precede : “Operatori di pace nel mondo“, sia con l’intestazione che la segue : “ Contro ogni forma di terrorismo “.
A mio avviso, c’è un grande equivoco generato soprattutto dal legame tra le due prime proposizioni dell’intestazione, ma anche dal legame tra la seconda e la terza. In sostanza, il primo legame lascia supporre che la missione militare italiana in Iraq, al fianco delle truppe di occupazione anglo - americane, abbia una valenza di pace.
E il secondo legame, ricordando le vittime di Nassiriya, sceglie come emblema del terrorismo quello di matrice islamica, come se non ci fossero nel mondo di peggiori.
Sia chiaro, per evitare qualsiasi confusione e strumentalizzazione, questa mia, non ha l’ intenzione di giudicare l’Arma dei Carabinieri nel suo complesso, né confonderli con i militari di altre nazionalità presenti in Iraq, né giudicare le vittime di Nassiriya, a cui va il mio profondo rispetto e il mio cordoglio per i loro parenti, ma vuole unicamente esprimere un giudizio negativo sulla volontà politica espressa dal Governo italiano e dalla maggioranza del suo Parlamento che ha permesso la missione in Iraq.
Quindi, la responsabilità politica della missione con tutte le conseguenze, comprese quelle luttuose, vanno attribuite principalmente al Governo italiano e alla sua maggioranza parlamentare, nonostante tale decisione sia stata fortemente avversata sia in Parlamento, che nella società civile.
L’invasione dell’ Iraq è stata una decisione controversa e lacerante non solo in Italia. Vale la pena ricordare che sia il Consiglio di sicurezza dell’Onu, che la maggioranza dei suoi paesi membri erano fortemente contrari.
Vale la pena ricordare che ben 110 milioni di cittadini in tutto il mondo sono scesi in piazza per dire “ No War “ il 15 Febbraio 2003.
Vale la pena ricordare che ben oltre l’ottanta per cento della popolazione italiana è stata contraria alla guerra e all’invio dei nostri Carabinieri a Nassiriya, come ci ha informato il più importante settimanale cattolico “ Famiglia Cristiana “.
Vale la pena ricordare che la ragione principale che gli invasori hanno addotto per giustificare la loro azione è stata il possesso da parte del regime iracheno di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa.
Una ragione falsa e infondata come la stessa amministrazione inglese di Tony Blair è stata costretta ad ammettere incalzata dai mass media e da un’ opinione pubblica sempre più contraria all’avventura irachena.
Varrebbe la pena ricordare tante cose ancora, ma mi fermo qui, almeno per ora, perché ritengo sufficienti questi semplici, ma eloquenti elementi per non considerare la presenza dei nostri militari italiani a Nassiriya all’interno di una prospettiva e di una volontà autenticamente di pace, nonostante le belle parole, spesso ipocrite e false, con cui i governi delle potenze occupanti amano definire la presenza dei militari sul suolo iracheno, che ha evidentemente ben altre ragioni.
Il generale Clausevitz affermava che la guerra è la prosecuzione della politica fatta con altri mezzi. Invece, l’invasione irachena segna proprio la sconfitta della politica e del ruolo delle Nazioni Unite, ormai ridotte a brandelli, e inaugura una nuova fase per l’umanità, quella dell’impero americano con il ritorno in grande stile della guerra, come parametro per dirimere ogni controversia, facendo fare un salto indietro di oltre 60 anni alla storia dell’umanità.
Ma la guerra irachena, tra i tanti drammi che sta generando, ha spalancato le porte a migliaia di terroristi di tutto il mondo riconducibili al fondamentalismo islamico e non solo. Tutti i giorni ci sono decine di attentati terroristici con centinaia di morti, spesso tra la popolazione civile e innocente.
Una piaga che rischia di divampare anche fuori dall’Iraq, come dimostrano i recenti attentati di Londra e di Sharm El Shek.
Ma le potenze occidentali non ci avevano assicurato che la guerra all’Iraq serviva anche per estirpare il terrorismo ?
I fatti dimostrano esattamente il contrario, lo produce.
Forse la guerra è la terapia sbagliata ?
Tuttavia, nel pantano iracheno, in questo autentico ginepraio che è diventato, non mancano, per fortuna, tanti esempi di solidarietà umana, tanti esempi di costruttori di pace : uomini politici, di cultura, di religione, semplici cittadini, che cercano con la martoriata popolazione locale, ormai ridotta allo stremo, di riannodare i fili di una convivenza civile fondata sulla giustizia.
Non mancano nemmeno esempi di Servitori dello stato, come l’italiano Nicola Calipari, che ha sacrificato la propria vita per difendere quella della giornalista de Il Manifesto Giuliana Sgrena che era stata rapita.
Ma tanti sarebbero nella storia i costruttori di pace che hanno sacrificato la propria vita in difesa dei suoi valori.
In questo momento poi, in cui gli enti locali lamentano un po’ tutti una scarsezza di risorse economiche disponibili, forse sarebbe stato più auspicabile utilizzare i fondi necessari alla costruzione del monumento, le stime parlano di oltre 100 mila euro, per un serio programma di educazione alla pace nelle scuole di Pescara.
Un progetto che ritengo molto più urgente e necessario. Un programma scolastico che potrebbe realizzarsi in collaborazione con l’Amministrazione comunale e con le associazioni pacifiste cittadine.
Ma se proprio si vuole dedicare un monumento agli operatori di pace non c’è che l’imbarazzo della scelta. Tuttavia per non fare un torto a nessuno preferirei che l’eventuale monumento riporti semplicemente la scritta : “ In ricordo di tutte le donne e di tutti gli uomini che hanno dedicato la propria vita alla costruzione della pace “.
Poi, per non eludere il proposito di dedicare un’eventuale monumento alle vittime di Nassiriya, ritengo che sia più pertinente che se ne occupi il Ministero della difesa competente o l’Arma dei carabinieri, anziché un’Amministrazione comunale, soprattutto se tale decisone non trova d’accordo tutta la popolazione cittadina.
Anche perché sarebbe veramente paradossale dedicare un monumento alla pace, che è soprattutto concordia, e, nel contempo, generare tantissime divisioni. E una politica degna di questo nome non può non tenerne conto. Me lo auguro come cittadino, come aspirante costruttore di pace e, perché no, come artista.




