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Interivsta a Piergiovanni Alleva, diritto del lavoro e Consulente Cgil

Publie le martedì 24 giugno 2008 par Open-Publishing

Interivsta a Piergiovanni Alleva, diritto del lavoro e Consulente Cgil

"E’ una deriva autoritaria, il lavoratore è un obiettivo"

di Tonino Bucci

Con quel tasso di inflazione programmata all’1,7% i salari varranno ancora meno, dice il leader della Cgil Epifani. Un lavoratore con un reddito annuo di 25 mila euro perderebbe mille euro nel giro di due anni. «Cifre ridicole», se la cava il ministro del lavoro Sacconi. Ma il problema è maledettamente serio. Tanto per cominciare, come la misuriamo l’inflazione? E come si può tamponare l’aumento dei prezzi se pure il contratto nazionale verrà fatto a brandelli? Chiediamo di rispondere a Piergiovanni Alleva, docente di diritto del lavoro all’Università di Ancona e consulente della Cgil.

I beni che acquistiamo non incidono per tutti allo stesso modo sul reddito. E’ sbagliata la maniera di misurare l’inflazione?

Lo ripeto già da tempo. Gli acquisti dell’uomo medio sono un’astrazione. C’è una polarizzazione del reddito che una volta non c’era. Oggi aumentano i prezzi dei beni di prima necessità, mentre non aumentano, o addirittura diminuiscono, quelli di alcuni beni voluttuari tipo videocamere, telefonini e televisori al plasma. Il discorso è falsato. E’ chiaro che l’inflazione vera, quella di cui risentono i lavoratori, si misura sui beni necessari. Che sono quelli sotto tiro.

Quali sarebbero i criteri alternativi?

Si potrebbe, per esempio, stabilire un paniere composto di soli beni di prima necessità. Oppure si potrebbe pensare a un’indicizzazione per fasce. Oggi, invece, abbiamo un’inflazione programmata per percentuale. Qualora dovessimo fare degli adeguamenti salariali sia pure per via contrattuale e non automatica, avremmo quello che una volta si sarebbe chiamato un punto differenziale. Un’ingiustizia in sé perché sostiene i redditi più alti. Quand’anche volessi alzare il tasso d’inflazione programmata dall’1,7 al 3,5% - per ipotesi - a tutti i livelli di retribuzione, non farei altro che mantenere di fatto la distanza tra i redditi e in una situazione inflazionistica che colpisce i beni di prima necessità. A tutto danno dei redditi più bassi. D’altra parte, lo spettro degli adeguamenti automatici, cacciato dalla porta, qui rientra dalla finestra. Quando l’inflazione comincia a salire, nonostante tutti gli esorcismi, la pretesa di un adeguamento più o meno garantito, più o meno automatico, diventa inevitabile.

Però nel frattempo Confindustria vuole smantellare la contrattazione nazionale. C’è incoerenza?

La centralità del contratto nazionale, da un lato, ne esce rafforzata, dall’altro viene relativizzata. E’ vero che bisogna garantire l’invarianza salariale. Ma è vero anche che, quando l’inflazione comincia a diventare alta, difficilmente il contratto nazionale riesce a compensarla o anche solo ad avvicinarcisi. La necessità di una contrattazione di secondo livello per riuscire a cogliere gli aumenti di produttività, diventa più evidente.

Più evidente?

Sì. Quanto più l’inflazione è alta, tanto più diventano necessari più strumenti contrattuali.

Però la contrattazione di secondo livello coinvolge solo una minima parte dei lavoratori. Non è così?

E’ il vero problema. Si gioca con le carte truccate. Il contratto nazionale dovrebbe essere la garanzia piena del salario e diventa, invece, garanzia programmata della metà. E’ la stessa cosa dell’accordo del ’93. Epifani sa bene come è andata allora. A quel tempo avevamo la garanzia di invarianza salariale. E invece arrivò l’inflazione programmata che andava in direzione opposta, sistematicamente al di sotto degli aumenti dei prezzi reali. La contrattazione di secondo livello dovrebbe essere, e a mio avviso lo è, la fonte da cui può arrivare una vera ripartizione delle nuove ricchezze tra i lavoratori. Ecco perché dovrebbe essere obbligatoria. O, meglio, deve essere garantita.

Come?

Innanzitutto va garantita la rappresentanza sindacale in tutti i luoghi di lavoro, anche quelli sotto i quindici dipendenti. Magari creando distretti interaziendali di rappresentanza. E poi non dimentichiamoci che l’articolo 36 della Costituzione garantisce la retribuzione reale dei lavoratori - non quella nominale. E’ un baluardo del potere d’acquisto dei salari. E’ una cosa che non si dice mai. Non è un argomento propagandistico. E’ un problema giuridico.

L’Italia è il paese dalla memoria corta. Non sarà cominciato tutto dall’abolizione della scala mobile?

Avevamo un sistema su tre gradini. La scala mobile garantiva l’invarianza dei salari. Il contratto nazionale ripartiva l’aumento generale medio di produttività. Infine, la contrattazione aziendale che poteva anche essere, a quel punto, un fatto di élite che riguardava le punte aziendali di particolare redditività. Quel sistema aveva la sua logica. Poi cosa è successo? Eliminata la scala mobile, il contratto nazionale è diventato l’unica difesa dell’invarianza salariale - scritto nero su bianco nell’accordo del ’93 - e il contratto aziendale avrebbe dovuto fare la massima parte nella redistribuzione della nuova ricchezza. Ma proprio per questo il contratto aziendale doveva essere generalizzato. Non poteva restare un fatto marginale. Questo è il dramma dei salari italiani. Ricordo benissimo quella vicenda, come se fosse accaduta ieri. L’allora ministro del lavoro Giugni anziché rendere obbligatoria la contrattazione di secondo livello, la lasciò in balia dei rapporti di forza. Oggi vogliono sottodimensionare il contratto nazionale rispetto alla tendenza inflattiva, ma non vogliono generalizzare la contrattazione aziendale. E’ un vicolo cieco.

E da un’altra parte ancora si agganciano i salari alla produttività. Se vuoi campare ti devi massacrare di straordinari. Come ne usciamo?

Andiamo verso il paternalismo del mondo padronale o verso la contrattazione individuale o verso il lavoro in nero. Tutti in ordine sparso e ognuno per conto proprio. in queste cose non ci sono né santi né angeli. Ridotti come sono i lavoratori oggi, se a uno gli offrono un salario individuale al nero, quello lo prende. La riduzione del 10% della tassazione sugli straordinari è un modo per mantenere sotto controllo il nero, senza pregiudicare però l’unilateralità dell’azienda nel decidere le retribuzioni - il che significa anche la pattuizione individuale del salario. Non è un caso che la facilitazione fiscale sia stata data a tutti gli aumenti di produttività e non solo, magari, per i salari aziendali contrattati sindacalmente.

Ma la contrattazione aziendale piace a Confindustria. Lei propone la stessa cosa?

Intanto defiscalizzerei solo il salario aziendale che sia stato contrattato. In questo momento la contrattazione aziendale viene agitata strumentalmente da Confindustria come alternativa alla contrattazione nazionale. Ma in linea generale e al di fuori dello scenario presente io non considero i contratti aziendali come fossero gabbie salariali. Io li considero una necessità. Anzi, andrebbero incentivati. Per esempio, detassando le voci retributive aziendali, purché - ripeto - contrattate con il sindacato. Anche a livello nazionale bisognerebbe prevedere un’indennità per mancata contrattazione. Così converrebbe a tutte le imprese andare alla contrattazione aziendale piuttosto che pagare un plus a coloro che non ce l’hanno.

Negli anni abbiamo subìto l’argomentazione di Confindustria: scala mobile uguale spirale inflazionistica. Come rispondiamo?

Che non c’è nessuna relazione automatica. Non è che la scala mobile di per sé generi inflazione. Dipende da come si controllano i prezzi e dall’esistenza di fenomeni speculativi. Io ritengo che la scala mobile dovrebbe esserci, ma dovrebbe essere utilizzata in forma di maggiore detrazione fiscale. In modo da garantire al lavoratore maggiore potere d’acquisto senza aumento nominale dei costi. Proporrei un aumento della fascia no tax di reddito degli operai che copra l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità.

Secondo lei, oggi c’è un disegno organico contro il lavoro dipendente?

Non c’è solo il problema del salario. Attenzione a quello che stanno combinando. Si aprono altri fronti come precariato e contratti a termine. Il decreto legge che sta per arrivare sarà un ulteriore smantellamento dei diritti dei lavoratori. E’ una specie di legge Biagi bis. Andiamo verso una deriva autoritaria forte.

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