Home > LA GUERRA E I MOVIMENTI DEI MIGRANTI
Questo rischia di essere un secolo di guerra costante, una guerra apparentemente senza forma che anziché dividere i fronti li attraversa e proprio per questo ci impone una presa di posizione.
Questa guerra non ci appartiene, ma ci riguarda perché stiamo pagando e pagheremo i costi del regolamento di conti altrui: non solo quelli di una precarizzazione resa ogni giorno più pesante dall’aumento del prezzo del barile del petrolio e dei prezzi in generale, ma anche il prezzo più caro, quello delle vite che attraverso i fronti e le frontiere sono state interrotte.
Da New York a Londra, da Madrid all’Iraq, nelle avventure imperialiste della democrazia e nelle fantasie allucinate e interessate dei nuovi mullah e dei nuovi sceicchi: la guerra è la loro, ma i morti sono nostri.
Di questa guerra i migranti sono sempre stati il capro espiatorio, nelle metropoli e nelle periferie che sempre più si fondono e si confondono. Per questo è necessario cercare di capire l’impatto violento che essa ha sulla loro vita e il modo in cui ne ridefinisce il profilo. Mai come oggi l’equazione tra migrante e terrorista è stata così forte, e trova riscontro nel giro di vite che stanno per subire i diritti umani, come sempre i primi a ‘saltare’ quando il pericolo si avvicina e quando il potere sovrano decide che devono essere sacrificati a un’ossessione securitaria che punta a garantire il controllo e non le vite. Così è nella civilissima Gran Bretagna, ma anche la piccola Italia sta facendo la sua parte, come dimostra il decreto legislativo sul trattamento dei richiedenti asilo o le recenti pratiche antiterrorismo, fatte di rastrellamenti ed espulsioni.
Ma se questo è l’aspetto macroscopico non è certo l’unico. Da tempo diciamo che la vita dei migranti e, in particolare, le condizioni del loro lavoro, anticipano quelle di tutti. In una situazione come quella presente, questo sarà sempre più vero, e nessun eventuale governo di centro-sinistra potrà cambiare le cose.
L’aumento del prezzo del petrolio è destinato a modificare i processi produttivi e a incidere sull’impiego delle forze-lavoro, sulla qualità delle condizioni di lavoro e su quelle delle loro retribuzioni. Il paradigma della precarietà è destinato a radicalizzarsi, ma probabilmente non per tutti o non per tutti allo stesso modo: l’ideologia dello scontro tra civiltà che sostiene questa guerra ha come esito politico una gestione delle migrazioni orientata a rinserrare le fila dell’Italia (e dell’Europa) bianca e cristiana, cercando di favorire l’immigrazione dai paesi dell’Est (il vero serbatoio della manodopera usa e getta presente e futura, sulla cui mobilità si sta contrattando l’assetto reale dell’Europa a 25) e scoraggiare in tutti i modi quella africana, nera, ma più in generale islamica. Questo modificherà le rotte dei flussi migratori internazionali e favorirà la formazione di compagini etniche: l’Europa si sta costruendo anche così (e già da un po’ di tempo), non più cercando di gestire i flussi quali che siano, ma impedendone alcuni e favorendone altri.
Noi non ci occupiamo né di religione, né di civiltà. Ci preoccupano e ci occupano gli effetti che quelle producono. E, da questo punto di vista, vale la pena prestare molta attenzione alla rivendicazione di diritti “fondati sulla differenza delle culture”, perché si rischia di contribuire in maniera sostanziale all’istituzionalizzazione delle forme comunitarie sulla quale oggi l’ideologia dello scontro tra civiltà può pretendere di giustificarsi.
In questo frangente, complicato e tremendo, chiediamo a tutto il movimento di esprimere una posizione chiara e netta contro i signori della guerra (qualunque sia il colore della loro pelle o la loro religione). Una posizione chiara non può più determinarsi sul registro della contrapposizione tra centro e periferia, o, peggio ancora, immaginando vaghi e improbabili fronti antimperialisti, poiché rischierebbe di non scalfire, ma piuttosto di confermare la retorica delle civiltà contrapposte. Il carattere globale delle migrazioni della forza lavoro ha fatto definitivamente saltare questi schemi. Non è più rinviabile l’urgenza di un movimento capace di comprendere e superare ciò che l’antirazzismo è stato finora, facendosi, nei discorsi e nelle pratiche, soggetto di libertà del lavoro vivo dentro e contro i circuiti dell’internazionalizzazione delle merci e della guerra, contro i padroni del mondo e i signori della guerra, dando forza e visibilità alla parola d’ordine politica della libertà di movimento.
Il prossimo 4 settembre il movimento si confronterà non solo con scadenze, ma anche con la propria capacità collettiva di rispondere collettivamente a questa situazione. Dal fatto di saper essere all’altezza dei movimenti dei migranti dipende un pezzo non piccolo del nostro futuro.
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