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La disfatta americana

Publie le mercoledì 27 ottobre 2004 par Open-Publishing

Dazibao Guerre-Conflitti Elezioni-Eletti


de Marco Calamai

Più ci si avvicina alle elezioni presidenziali del 2 novembre più la situazione
irachena diviene centrale nel duro confronto politico tra Kerry e Bush. E i giornali
americani, specie i più seri e obiettivi, sfornano articoli, cronache e sondaggi
che aiutano vieppiù a capire cosa sta realmente accadendo nel paese scelto dai
neoconservatori come primo esempio di guerra unilaterale e preventiva. I dati,
riferiti pochi giorni fa dal New York Times, parlano chiaro. La resistenza si
consolida: i combattenti e i fiancheggiatori attivi sarebbero ormai più di ventimila.
Dieci volte di più di quei duemila di cui hanno più volte parlato i portavoce
della Casa Bianca, tentando sempre di confondere partigiani con terroristi.

Una
cifra che per altro non prende in considerazione le migliaia di miliziani al
seguito di Muqtada Al Sadr, in questo momento non attivi sul piano militare e
impegnati, dopo l’accordo tra il loro leader e il grande ayatollah Al Sistani,
a preparare la partecipazione sciita alle elezioni di gennaio (ma sempre pronti
a riprendere le armi contro le forze di occupazione se il processo politico-elettorale
venisse compromesso dal governo Allawi). Emerge un dato cruciale per il futuro
dell’Iraq: la popolazione, a grande maggioranza contraria all’occupazione militare
straniera, è sempre più ostile nei riguardi del governo fantoccio di Allawi.

Un regalo per bin Laden

E poi ci sono i terroristi, stranieri ed iracheni, in grado di moltiplicare attentati (suicidi e non) in tutto il territorio iracheno aggirando i sistemi di sicurezza della coalizione e dello sgangherato esercito iracheno. Ecco dunque il più evidente fallimento di Bush e dei suoi ministri e consiglieri: la guerra si sta rivelando un disastro militare per chi la ha concepita nell’illusione che con solo 130-150 mila uomini fosse possibile garantire il controllo del territorio ed imporre un progetto di transizione morbida verso una pseudo democrazia irachena amica degli Usa. Con in più l’ effetto calamita sul terrorismo islamico, un vero regalo a Bin Laden come ha ben spiegato nel suo libro "Contro tutti nemici" Richard Clarke, capo dell’antiterrorismo americano con Bush padre, Clinton e Bush figlio fino alla polemiche dimissioni nella primavera 2003. Così ora vengono a galla gli "errori"di Rumsfield, il duro cow boy della destra Usa che non ha voluto ascoltare i tanti consigli dei generali ed esperti che avevano fin dall’inizio dell’avventura irachena avvertito la Casa Bianca (come ha ben chiarito il New York Times) dei rischi di una invasione affidata ad un numero del tutto inadeguato di soldati e oltretutto concepita con l’obiettivo di ritirarli al più presto (solo 30 mila uomini dovevano restare in Iraq alla fine del 2003).

Ma l’errore militare, come dicono ormai in tanti negli Stati Uniti, è stato un primo luogo un madornale errore politico, frutto di bugie (le armi di distruzione di massa, il legame tra Saddam e Bin Laden) e di una strategia (partorita dalla ideologia astratta dei neoconservatori) che ha sottovalutato la complessità della società irachena nelle sue diverse componenti politiche, etniche e religiose e ha provocato un isolamento e una caduta di prestigio a livello internazionale degli Usa senza precedenti nella storia americana. Dove sono andate a finire le decine di migliaia di bandierine a stelle e striscie che l’Amministrazione Bush intendeva consegnare alle folle che si sarebbero riversate nelle strade per accogliere i "liberatori"? Quanti erano gli iracheni che applaudivano il crollo della gigantesca statua di Saddam di fronte alle telecamere di mezzo mondo? Sarebbe interessante andare a rivedere questa scena e tante altre che, in realtà, facevano intravedere fin dall’inizio una realtà sociale e politica ben diversa da quella sognata dai "rivoluzionari" della destra americana.

Dopo più di un anno e mezzo dall’inizio del conflitto questo errore, a questo punto, non sembra più recuperabile. La realtà è che i soldati americani, spesso male armati e costretti a mesi e mesi di permanenza in Iraq in condizioni durissime, stanno iniziando a manifestare clamorosamente un evidente malessere verso una guerra sempre più rischiosa e di cui non si intravede la fine. Emblematici due episodi recenti: i soldati che si sono rifiutati di andare da Tallil (la base dove sono da mesi "trincerati" i soldati italiani) a Baghdad denunciando apertamente la scarsa protezione del convoglio; i tanti riservisti che si rifiutano di essere arruolati per essere inviati in Iraq. Giovani americani che ora rischiano di essere puniti da tribunali militari. Ma c’è di più. La situazione nel triangolo sunnita, ormai, è sfuggita a tal punto al controllo delle truppe americane che il comando Usa di Baghdad, pochi giorni fa, si è visto costretto (non è mai accaduto in precedenza) a chiedere aiuto alla divisione inglese di Bassora per tentare la "riconquista" delle città sunnite (Falluja è il caso emblematico ma non l’unico) che da mesi sono nelle mani degli insorti.

Ora l’Amministrazione Usa si trova di fronte ad un bivio drammatico: o aumentare massicciamente il numero di soldati americani (autorevoli esperti parlano di almeno 400 mila unità) presenti in Iraq (unica soluzione per tentare di riprendere il controllo del territorio); oppure avviare quella exit strategy di cui si vocifera da tempo. Una scelta in ogni caso traumatica per la già divisa società americana, che naturalmente è stata rinviata a dopo le elezioni del 2 novembre. Lo dimostra la situazione di Falluja: le truppe americane continuano a bombardare la città (quante ormai le vittime civili?) ma l’attacco finale, più volte annunciato da Allawi, non è stato ancora sferrato. Mentre i colpi di mortaio della resistenza colpiscono ovunque, perfino la super protetta "zona verde" di Baghdad, e il terrorismo riesce perfino ad uccidere il capo della sicurezza americana.

Negli ultimi giorni di campagna elettorale i due candidati repubblicani, Bush e Cheney, cercano in ogni modo di camuffare la sconfitta come un successo nella lotta al terrorismo. E dato che in questa logica coloro che si battono contro l’occupazione sono definiti terroristi (in buona parte, oltre tutto, venuti da fuori) ecco che occorre dimostrare che gran parte del paese è pacifico, vive normalmente e si prepara alle elezioni. Ancora una grande bugia che si somma alle tante che sono state dette dall’attuale Amministrazione Usa fino a questo momento. E che oltre tutto nasconde volutamente la situazione di tensione che percorre il mondo sciita, inizialmente favorevole ad un intervento che finalmente colpiva a morte l’odiato regime sunnita di Saddam ma in seguito, sempre più frustrato dalle conseguenze dell’invasione si è rivelato sempre più contrario alla occupazione straniera. Chi scrive, ormai quasi un anno fa, aveva raccontato come a Thi Qar (la provincia di Nassiriya) l’iniziale consenso si stava trasformando in frustrazione e rabbia nei riguardi di una presenza militare che appariva sempre più chiaramente asservita al progetto neocoloniale anglo americano.

Quei giorni a Nassiriya

L’impegno pur generoso, come ho sempre sostenuto, del contingente italiano nella ricostruzione - in realtà pochi progetti di modeste dimensioni oltre tutto finanziati dalla Divisione inglese e non dal governo italiano - coinvolgeva piccoli gruppi sociali e certo non modificava di una virgola uno scenario economico e sociale gravissimo (disoccupazione, inflazione, mercato nero e forme di corruzione di ogni genere, mancanza di sicurezza, sfascio dei servizi pubblici e via dicendo), di fronte al quale le forze di occupazione, sia civili (la Cpa, ovvero l’Autorità provvisoria della coalizione) che militari (la Brigata e i carabinieri) apparivano, pur impegnati al massimo, impotenti. Se non complici, come divenne chiaro, alla fine di ottobre, quando il proconsole Bremer inviò a tutte le 18 province una direttiva che imponeva di licenziare migliaia di lavoratori assunti nel settore pubblico (scuola e sanità in particolare) dopo l’invasione. Una decisione giustificata dall’esigenza di ridurre il previsto deficit statale iracheno con un drastico taglio delle spese e che applicava ad un paese straziato dall’embargo e dalla guerra, le regole del Fondo Monetario Internazionale. Ricordo le discussioni accese di quei giorni all’interno della Cpa di Nassiriya quando denunciai la miopia e la gravità di simili decisioni (che oltre tutto colpivano molti cittadini che avevano subito ogni sorta di angherie da parte di Saddam) e il disagio sincero dello stesso governatore (in quel momento l’inglese John Bourne, che sarebbe stato "sostituito" in anticipo sulla scadenza del suo mandato, forse proprio per il suo atteggiamento critico verso i vertici della coalizione, dalla "dura" Contini) il quale avvertiva il rischio di una esplosione di protesta di massa verso una decisione che non teneva conto della drammatica situazione sociale. Così come ricordo le parole dei rappresentanti dei lavoratori colpiti dalla decisione del proconsole Bremer (un solerte funzionario che non ha capito, o non ha voluto capire, nulla del paese che i suoi superiori gli avevano affidato - che vennero alla Cpa li ricevetti personalmente) rivendicando con rabbia e inquietanti minacce la revoca dei licenziamenti.

Giorni davvero fatali, quelli di fine ottobre e di inizio novembre. A Nassiriya, ma non solo. Resto convinto che, proprio in quelle settimane, matura una profonda e vasta ostilità da parte della popolazione sciita verso le forze della coalizione ( anche quelle italiane). Una ostilità che poi diventerà chiara non tanto con l’attentato del 12 novembre (penso ancora che quella strage venne organizzata da fuori anche se con la complicità di gruppi locali) quanto con la sempre più evidente ascesa del giovane Muqtada Al Sadr, il leader che da un certo momento in poi ha apertamente contestato la presenza delle truppe di coalizione e che ad un certo punto le ha sfidate con le armi a Najaf, nel grande quartiere sciita di Baghdad che porta il nome di suo padre, e nelle città delle province meridionali tra le quali Bassora e la stessa Nassiriya.

La democrazia

Il futuro dell’Iraq, quindi, lo si gioca non solo nel sanguinoso triangolo sunnita, come vuol far credere negroponte, l’attuale ambasciatore americano a Baghdad ( si proprio lui, lo stesso che ha fatto il bello ed il cattivo tempo in America centrale negli anni ottanta), ma anche nel resto del paese. Nel Nord curdo che spera di uscire indenne dalla tragedia irachena mantenendo la sua attuale e sostanziale autonomia ( appunto: ma cosa accadrebbe se il futuro Stato iracheno venisse di nuovo controllato da forze autoritarie oppure integraliste, non importa se sunnite o sciite?) e nel Sud sciita, dove le future elezioni, se davvero si terranno nel gennaio 2005 e soprattutto se non saranno inquinate da brogli di ogni genere, potrebbero esprimere (un autentico incubo per gli Usa) una leadership non solo contraria alla occupazione americana ma anche di netto orientamento integralista. Una tendenza sempre più probabile proprio grazie, paradosso dei paradossi, alla guerra preventiva ed unilaterale voluta da Bush e che gli americani non sanno più "come vincere". Fanno riflettere, a questo proposito, recenti analisi americane che mettono in risalto la crescita del prestigio di Muqtada Al Sadr, esponente dell’anima radicale sciita (ma attenzione a non confondere le idee: non terrorista) che punterebbe alla creazione in Iraq di una repubblica islamica. Davvero uno smacco per i neocons che speravano, e forse sperano ancora, di trapiantare con le armi una nuova democrazia di tipo occidentale nel cuore del Medio Oriente.

Ed ecco, appunto, la questione cruciale: la democrazia. Anche qui gli americani e i loro alleati hanno predicato bene ma razzolato male. Hanno promesso ma hanno impedito. Anche qui è stata detta una grande bugia. In particolare nel mondo sciita il quale, fin dall’inizio, ha espresso una forte spinta verso l’elezione libera di propri rappresentanti a tutti i livelli. Iniziando dai livelli locali: i Consigli municipi e il Consiglio provinciale. Qui, anche a Nassiriya, si è operato sistematicamente per impedire le elezioni provinciali (che infatti non si sono mai tenute malgrado le richieste in tal senso e le manifestazioni di protesta contro il Consiglio provinciale provvisorio cooptato dagli occupanti) e quelle municipali sono state tollerate anche se poi si è tentato in ogni modo di condizionarle. Un altro fattore che spiega la deriva della crisi irachena verso forme sempre più radicali di protesta politica. Alla base della quale c’è la caparbia volontà (una incredibile manifestazione di stupidità politica) di impedire alla popolazione irachena di esprimere ed eleggere liberamente i propri rappresentanti. Per questo, già un anno fa, dissi che con questa politica si castrava ogni possibilità di avviare un processo di transizione democratica e di fatto si impediva agli iracheni di partecipare attivamente alla ricostruzione del loro paese. Ricostruzione che infatti non c’è stata. A meno che non si intenda per tale quei miliardi di dollari che sono finiti nelle tasche della Halliburton (i cui legami con Cheney erano fin dall’inizio ben noti) e di altre società "amiche". Miliardi di dollari che sono stati spesi in gran parte per la logistica militare, per le infrastrutture petrolifere (già: ma dove sono andati a finire gli introiti delle esportazioni irachene di petrolio?) e, tanto per dimostrare che la buona volontà non mancava, per dipingere (come constatai di persona a Nassiriya) le facciate delle scuole (salvo lasciare come prima aule e strutture fatiscenti).

Ma se gli americani stanno perdendo la guerra c’è da chiedersi, a questo punto, come potrà evolvere la situazione irachena. Si faranno le elezioni? E se si faranno saranno davvero elezioni "libere" o non saranno pesantemente inquinate da condizionamenti e brogli di ogni tipo? Già: i brogli. Come pensare che Allawi non abbia già fatto tesoro, grazie al suo consigliere, l’ambasciatore Negroponte, della notevole esperienza della Amministrazione Bush in questo campo? E poi: che fine faranno le città "occupate dagli iracheni che non vogliono l’occupazione americana"?. Non è certo semplice avanzare previsioni. Meglio, comunque, attendere, trattenendo il fiato, il fatidico 2 novembre. Un dato è in ogni caso chiaro: quale che siano le scelte della nuova Amministrazione Usa il disastro iracheno non sarà certo risolto dagli Stati Uniti da soli. La super potenza ha già perso, politicamente e moralmente, la guerra. Non lo diciamo noi, lo dicono i milioni di americani che stanno prendendo coscienza della sciagurata avventura irachena.

http://www.liberazione.it/giornale/041027/LB12D6D6.asp