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La notte in cui le luci si spensero in Georgia
par Daniel Patrick Welch
Publie le domenica 2 ottobre 2011 par Daniel Patrick Welch - Open-Publishing
That’s the night that the lights went out in Georgia
That’s the night that they killed an innocent ma.
Well, don’t trust your soul to no backwoods, southerly lawyer
’Cos the judge in the town’s got blood stains on his hands
— Vicki Lawrence, 1973
Ho sempre pensato che gli Stati Uniti siano un paese estremamente religioso, così tanto da permettere al nostro fondamentalismo teocratico di distorcere e influenzare ogni aspetto della nostra agenda politica. Quest’ultima parte è ancora vera, ma credo che nessuno possa mantenere un comportamento così sadico e distruttivo come quello americano senza la convinzione che non vi sia punizione finale – insomma, che non vi sia inferno.
Quando lo stato della Georgia ha eseguito la condanna a morte di Troy Davis il 21 settembre scorso, sono piovute condanne e critiche da tutto il mondo. Questo omicidio legalizzato ha riportato al centro dell’attenzione la questione del valore e del peso etico di un atto del genere, un cappio sempre più stretto al collo degli Stati Uniti di fronte a un mondo che considera la pena di morte una scelta vile e immorale. Tuttavia, una società così tanto razzista come quella americana è altrettanto determinata a ignorare – forse paradossalmente, forse no - qualunque critica, nel timore di vedere intaccata la propria supremazia.
Come un bugiardo incallito o un ladro con la coscienza sporca, i supporter destrorsi della condanna continuano a vedersi come paladini della giustizia, della democrazia, dei diritti umani – qualsiasi cosa facciano – anche quando, anzi specie quando le loro folli, orrende azioni portano a conseguenze disastrose per il Paese. Non sorprende che Barack Obama abbia trovato inappropriato intervenire sul caso Davis, impegnandosi nel frattempo per ostacolare con ogni mezzo gli sforzi di auto-determinazione della Palestina. Né avrebbero potuto lui e i suoi colleghi della élite notare l’ironia della concomitanza fra il disinteresse di Obama verso l’uccisione di un nero da parte dello Stato della Georgia e l’incoronazione plateale delle Nazioni Unite dopo aver “liberato” la Libia, condita dalla solita retorica standard, enfatica e vuota, a eccezione del vibrante disprezzo che Obama ha fatto trapelare nei confronti dei libici, la cui parte minoritaria di neri è ora alla mercé degli stupratori razzisti della NTC, mentre Obama e i suoi alleati euro-mercenari si congratulano a vicenda ostracizzando tutti i critici e gli oppositori.
Un’ironia del genere non può che essere involontaria. O, come disse Bart Simpson: “the ironing is delicous”. Ma l’ironia sembra ormai morta, lo sanno bene i banchieri, faccendieri, bugiardi e oligarchi che hanno supportato l’elezione di Obama con 700 milioni dollari. E cavolo, l’investimento è valso la pena, per loro. Sarebbe mai stato possibile ritagliare su misura una ricompensa così perfetta come quella del Progetto per un Nuovo secolo Americano al quale il presidente USA sta dedicando così tanti sforzi? Per dirla con Zippy the Pinhead: “che è, un sistema questo?”
E, come in Georgia, non ci sarà pentimento, autocritica, nemmeno il mero accorgersi di quello che il resto del mondo vede e biasima. Avanti tutta. E perché dovrebbe essercene, poi? Il Nobel per la Pace conferito dalla famiglia Nobel, inventori della dinamite (forse l’ironia è morta più tempo fa di quello che io creda) ha dato a Obama carta bianca per coronare i suoi sogni imperialisti, propinando il vecchio petrolio in nuove bottiglie al suo elettorato credulone. che stupidamente gli ha concesso il beneficio del dubbio. Honey, il personaggio della stagista cinese di Doonesbury disperatamente innamorata di Duke, si rivolse una volta a Kissinger (fra tutti) per un consiglio urgente. Come avrebbe potuto, chiese, conciliare i suoi ideali rivoluzionari con gli eccessi della rivoluzione culturale? Kissinger esitò, poi rispose: “Mao ha fatto quello che ha fatto sfidando la minaccia sovietica. Per contrastare la stessa minaccia, io ho consigliato a Nixon di invadere la Cambogia, col risultato di centinaia di migliaia di innocenti uccisi! Eppure non mi vedi abbattuto...” “E’ facile dirlo per lei, professore” rispose Honey. “Ha il suo Nobel per la Pace con cui consolarsi.” Più i tempi cambiano...
E senza mai smentirsi, i leader che ricevono un immeritato beneficio del dubbio presto o tardi finiscono per deludere, gettando l’ennesimo cadavere sotto l’autobus del dubbio – i cui parafanghi sono già incrostati con i resti di Jeremiah Wright, Jesse Jackson e molti altri. Naturalmente, a Troy Davis e quelli come lui il beneficio del dubbio è negato. Mentre i suoi oppressori uccidono, imprigionano, invadono, impoveriscono e vivono nell’impunità e nello squallore morale, i Troy Davis di tutto il mondo sono puniti per non esprimere sufficiente autocritica – per paura di essere marchiati con la più razzista delle etichette, la presunzione.
Più che per altro, Troy è stato punito per essere presuntuoso, per non stare al gioco. La vittoria finale del sistema sull’anima è riuscire a sottometterla a sé. La stanza 101 di Orwell era stata creata per questo, per infliggere torture psicologiche così forti da far gridare a Winston Smith ’Fallo, Julia!’ - e anche, naturalmente, per innamorarsi del Grande Fratello. Troy ha negato tutto questo ai suoi carnefici. Il giorno dopo in cui la Corte Suprema ha deciso che non c’era nulla di preoccupante o sconvolgente sul caso Davis, il comitato della Georgia per il perdono ha graziato un bianco che ha effettivamente ucciso una persona – ha ammesso di averle sparato e averla picchiata a morte con una bomboletta di vernice. Ma a differenza di Davis, che non ha smesso fino all’ultimo di dichiararsi – presuntuosamente – innocente, il tizio bianco ha mostrato il buon vecchio e commovente rimorso Cristiano. Musica per le orecchie del comitato: non siamo in fondo, come sognavano David Duke e Evan Mecham, una Grande Nazione Bianca?
Forse è meglio fare un po’ di chiarezza e stabilire meglio i termini nero su bianco (gioco di parole voluto – datemi una mano là fuori con questa cosa dell’ironia!). Buona parte del lavoro è già stato fatto, crepe sempre più grosse iniziano a farsi strada nell’impero capitalista schiacciato dal peso delle sue contraddizioni interne. Il castello di carte si sta sfasciando, i colpevoli corrono disperatamente alle uscite, come hanno fatto alle Nazioni Unite per “protesta” contro il discorso di Ahmedinejad. La presidenza di Obama è condannata, grazie al cielo, e non sarà granché rimpianta. “End It, Don’t Mend It” (gioco di parole intraducibile: “finitela, non riparatela”, NdT), per parafrasare il senatore Yoda aka lo Hobbit aka l’orribile ometto Joe Lieberman. Forse possiamo mettere da parte l’Internazionalismo Progressista – il modo in cui che quelli che si definiscono progressisti chiamano la strage imperialista di Iracheni, Libici e a breve Siriani e Iraniani – e tornare alla buona vecchia dominazione di... sindrome di … Full Metal Jacket, o qualunque sarà la nuova etichetta dell’impero. I liberali potranno ancora essere gli utili idioti che sono così bravi a essere, ma questa volta dalla nostra parte anziché al servizio dell’impero capitalista.
E possiamo tenere a mente il consiglio di Troy Davis e le parole d’addio di Joe Hill e Mother Jones – “non piangeteci, organizzatevi”. La presunzione è tutto quello che abbiamo, e non ci sono tempi migliori del presente per reagire ai poteri che ci bloccano in questo stato costante di insicurezza e autocritica non esercitandone alcuna su di sé, prendendosi con arroganza qualsiasi libertà di saccheggio e devastazione. È uno strumento classico del potere, già satirizzato nel vecchio adagio rivoluzionario irlandese God Bless England. Ai bambini piace per il suo ritornello nonsense "Whack fol the diddle and the die do day," ma il vero messaggio è nei versi: "When we were savage, fierce and wild/ She came as a mother to her child/ Gently raised us from the slime/ Kept our hands from hellish crime/ And she sent us to heave in her own good time!/ Whack fol the diddle and the die do day."
Quando il Terzo Mondo si sveglierà e si sbarazzerà di questo stupido soprannome schiavista (che non sapremo mai cosa diavolo significhi, fra l’altro), si toglierà finalmente anche l’abito del sottosviluppato, del “paese in via di sviluppo”, dell’emergente, per diventare il Sud del Mondo. Le persone in tutto il mondo stanno prendendo sempre più coscienza – molto più degli Americani – di chi è davvero dalla loro parte e chi no. Gli Europei hanno pianto lacrime di coccodrillo per Troy Davis ribadendo la loro disapprovazione per l’America violenta e razzista, mentre i loro piloti continuano a lanciare bombe sulla Libia e ovunque lo richieda l’agenda imperialista, portando avanti la democrazia di “una bomba, una persona” nei paesi africani, libici, arabi e musulmani. Chi lo sa, nella prossima puntata potrebbero essere efficienti come in Libia, dove le loro 30.000 bombe hanno ucciso 60.000 persone – una bomba, due persone, in breve. Vedete? Sotto il capitalismo anche la democrazia cresce e si espande a ogni anno fiscale. Whack fol the diddle and the die do day....
© 2011 Daniel Patrick Welch. Riproduzione autorizzata con indicazione dell’autore e del sito danielpwelch.com. Traduzione di Gianluca Attoli.