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La squadra di Calipari: «La parola d’ordine era: occhio agli americani»

Publie le martedì 30 agosto 2005 par Open-Publishing
2 commenti

di Vincenzo Vasile

Come passò le sue ultime ore Nicola Calipari? «In realtà negli ultimi giorni della trattativa la notizia più preoccupante arrivava da Baghdad e riguardava il contingente dell’esercito Usa, definito molto pericoloso: pare avessero causato sette morti in quattro giorni, gente dal grilletto facile. La parola d’ordine è: occhio agli americani!». Lo scrivono i componenti della «squadra di Nicola», cioè i funzionari e gli agenti del Sismi che lo affiancarono sino alla tragica conclusione della «trattativa» per liberare Giuliana Sgrena. Il testo redatto dei colleghi di Nicola è contenuto nel libro Nicola Calipari, ucciso dal fuoco amico che sarà in edicola assieme a l’Unità sabato prossimo 3 settembre. Si tratta di un documento importante, scritto da un gruppo di funzionari il cui legame con il loro «capo» sacrificato dal «fuoco amico» ha fruttato negli ambienti dell’intelligence militare un soprannome collettivo: i Calipariani.

Loro, i Calipariani, hanno idee molto chiare su quel che avvenne quella tragica sera del 4 marzo. Contestano vibratamente la tesi, trasfusa nella relazione di parte americana che ha messo una pietra tombale sulla commissione di inchiesta, secondo cui l’uccisione di Calipari sarebbe stata originata da presunte «imprudenze» degli agenti italiani, e della stessa vittima. Del resto, sapete a che cosa doveva servire, secondo l’impostazione originaria, quella commissione che fu sbandierata da Berlusconi come chissà quale risultato del suo personale buon rapporto con l’«amico George»? Proprio a verificare le «colpe» degli ufficiali italiani. Mentre quell’allarme - occhio agli americani! - che circolava tra i nostri militari nei giorni di attesa per la liberazione di Giuliana Sgrena ci dice molto sulla situazione paradossale e tragica in cui si muove la «missione» italiana: spacciata come «missione di pace» in un teatro di guerra sanguinosa, dove è così facile trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato proprio perché sbagliata è quella missione, come sbagliata - profondamente, tragicamente sbagliata - è quella guerra.

I colleghi della «squadra di Nicola» ci consegnano nella loro testimonianza anche un inedito fermo-immagine del loro «capo» in azione a Baghdad alla vigilia della sparatoria al check point : «Le ultime ore sono vissute in affanno sotto una pressione enorme e difficilmente sopportabile: Nicola arriva a gridare al telefono, perde addirittura la pazienza (...) stacca il cellulare, prende in autonomia decisioni fondamentali, delicatissime, condivise esclusivamente con chi gli è accanto in quel momento».

Pressioni? Di chi, e per che cosa? Con chi stava parlando Nicola Calipari a telefono in quelle convulse ore che precedono il rilascio? E perché Calipari ha dovuto, ha preferito, dopo quelle conversazioni, prendere le sue decisioni tecniche e operative sulle modalità della liberazione di Giuliana Sgrena in «autonomia», cioè - noi traduciamo - in perfetta solitudine? Sei mesi dopo, è fin troppo facile riportare la sparatoria di ennesimo fuoco amico contro i carabinieri italiani, avvenuta l’altro giorno sulla stessa strada dell’aeroporto, al clima di sospetto e reciproca diffidenza che regna in terra irachena tra reparti militari che sulla carta sarebbero «alleati». Stavolta i bersagli sono altri servitori dello Stato costretti a procedere, a prendere decisioni quotidiane in altrettanto «autonoma» solitudine, nell’ambiguo e raffazzonato contesto di una «missione» priva in origine di altri scopi che non siano stati legati al misero calcolo di una legittimazione internazionale del governo in carica e del suo premier, come oggi rimane affidata al destino declinante di un ritiro da affrettare, ma anche da centellinare in vista della prova elettorale. Ed è fin troppo facile collegare questo nuovo attrito tra i nostri e i militari americani con la fresca sortita di quell’ambiguo ed emblematico protagonista del sottobosco italiano a Baghdad, che risponde al nome dell’ex commissario straordinario della Croce Rossa, Maurizio Scelli, del quale è nota l’astiosa «concorrenza» intrapresa con gli uomini del Sismi proprio in materia di rilascio degli ostaggi.

Il caso Calipari ci offre, dunque, la possibilità di esaminare come in vitro una vicenda che si ripropone, e che prevedibilmente continuerà a segnare le cronache del nostro contingente in Iraq. Vicenda senza giustizia e senza verità. È solo per caso, cioè per l’iniziativa di un hacker che ha diffuso in chiaro i brani della relazione dei commissari americani crittografati, che sappiamo, per esempio, i nomi dei soldati del check point volante da cui si è sparato contro la Toyota Corolla degli italiani.

Ma è come cercare un ago nel pagliaio di migliaia di «signori Rossi», o di «John Smith». Le autorità americane si rifiutano, infatti, di fornire le generalità complete alla magistratura italiana che - se le cose continueranno a trascinarsi così, senza uno scatto di dignità del governo italiano - sarà costretta a prendere atto delle tesi menzognere della commissione, e rischia di dover concludere con una raggelante archiviazione, pur dopo avere ricostruito con l’ausilio di nuove perizie la verità sulla drammatica sequenza dei fatti. Nel nostro volume pubblichiamo ampi brani dei due dossier, quello italiano e quello statunitense, assieme a un saggio del senatore Massimo Brutti che analizza le contraddizioni e le bugie del documento proveniente dagli Usa. Da quei testi si ricava che giustizia e verità sono state ferite profondamente quella sera al posto di blocco BP 541. Perché non si tratti di lesioni irrimediabilmente mortali vale ciò che scrive in apertura al nostro libro, Rosa Calipari, la moglie del funzionario del Sismi ucciso: «Non è possibile avere pace se non c’è giustizia».

http://www.unita.it/index.asp?SEZIO...

Messaggi

  • L’uccisione di Nicola Calipari. Il mistero dell’ultima telefonata
    di Anna Tarquini

    Telefoni roventi tra Forte Braschi e Palazzo Chigi, richieste di chiarimenti che sono arrivate fin dalla prima mattina ai vertici del servizio militare. C’era grande nervosismo martedì nei palazzi del governo dopo le rivelazioni de l’Unità. Non è piaciuto il testo scritto per il nostro giornale dalla squadra di Nicola Calipari pubblicato ieri come anticipazione del libro che uscirà il prossimo 3 settembre. Una denuncia troppo chiara («la parola d’ordine era occhio agli americani con il grilletto facile») che ad alcuni è sembrata la risposta, anzi l’avallo alle dichiarazioni di Scelli dei giorni scorsi: «Tacere agli americani era la regola e il governo sapeva». Tutto nasce da un equivoco sui tempi della redazione di questo testo che in realtà è stato consegnato in tipografia a inizio luglio e che non è da considerare dunque una risposta alle polemiche di questi giorni. Ma l’incidente non è chiuso, ed è prevedibile che l’episodio abbia comunque degli strascichi nei prossimi giorni. Tra gli elementi che hanno fatto saltare qualcuno sulla sedia c’è la rivelazione, inedita, della litigata al cellulare tra Calipari e un misterioso interlocutore poco prima della liberazione della Sgrena.

    L’immagine ce l’hanno consegnata loro, i colleghi del Sismi. Nicola Calipari che perde la pazienza e urla al cellulare, Nicola che stacca il telefono e decide che dovrà assumersi tutte le responsabilità, da solo. Erano ore di pressioni enormi - scrivono i colleghi. Chi era questo misterioso interlocutore? Quali erano le pressioni? In quei momenti si stava affacciando l’ipotesi che la trattativa per il rilascio di Giuliana Sgrena potesse saltare su un altro binario. E che questo binario parallelo rischiasse di compromettere tutta l’operazione. Cosa stesse accadendo in quelle ore difficili ce lo ha raccontato Gabriele Polo, il direttore de il manifesto, in un editoriale pubblicato il 26 agosto dopo le rivelazioni di Maurizio Scelli, il commissario straordinario della Croce Rossa che ha svelato come il governo italiano nascose le trattative per la liberazione delle due Simone agli americani. Scelli si sarebbe riaffacciato anche in quelle ultime ore del caso Sgrena: «C’era un’interferenza - scrive Polo - e quella interferenza era Scelli».

    Il racconto di Gabriele Polo è una fotografia. È il 25 febbraio, il direttore de il manifesto viene convocato a Palazzo Chigi da Gianni Letta e dal capo del Sismi Nicolò Pollari insieme al compagno di Giuliana Pier Scolari. Devono ascoltare un nastro per riconoscere la voce della giornalista. «Una grande stanza di palazzo Chigi - scrive Polo - , quattro persone attorno a un tavolo ad ascoltare la voce registrata di Giuliana Sgrena, una porta chiusa e dietro quella porta un uomo in attesa».

    L’uomo dietro quella porta è Scelli. «Un’ora prima era stato il suo stesso portavoce a chiamarci per annunciarci che si era aperto un nuovo canale attraverso la Croce Rossa per la liberazione di Giuliana. E che Scelli possedeva la cosiddetta prova in vita. Ma questo Letta e Pollari non lo sapevano ancora. Come non sapevano (e noi con loro) perché mai le trattative con i rapitori, che sembravano a buon punto, negli ultimi giorni si erano bloccate, perché Nicola Calipari segnalava nuove difficoltà e atteggiamenti ambigui dei mediatori, quasi ci fosse un’interferenza. L’interferenza era chiusa dietro quella porta di palazzo Chigi. Maurizio Scelli voleva essere il protagonista della liberazione di un ostaggio in Iraq».

    Dunque sulla strada di Calipari si era frapposto il Commissario straordinario della Croce Rossa che voleva ripetere l’operazione delle due Simone. Ma che in questa occasione, invece, rischiava di mettere in difficoltà proprio l’operato di Calipari. È a queste pressioni che si riferiscono i colleghi di Nicola quando raccontano delle ultime ore vissute in affanno? A questo è legata la telefonata che fece infuriare il funzionario del Sismi? Forse qualcuno suggerì a Calipari che si doveva ripetere l’operazione delle due Simone anche per la liberazione di Giuliana Sgrena: «Che ne dici se mandiamo avanti Scelli?...».

    I colleghi oggi raccontano solo di quella telefonata concitata con un interlocutore. «Le ultime ore - scrive la squadra di Calipari - sono vissute in affanno, sotto una pressione enorme e difficilmente sopportabile. Nicola arriva a gridare al telefono, perde addirittura la pazienza (cosa incredibile per un riflessivo come lui, dotato di invidiabile autocontrollo). Stacca il cellulare». Sono le ore che precedono la liberazione di Giuliana e Nicola resta solo, solo con delicatissime decisioni da prendere.

    http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=44377

    patrizia

    • La lettera della moglie di Calipari all’Unità

      Non c’è pace senza giustizia
      di Rosa Calipari

      3 marzo 1983 - 4 marzo 2005 due date che segnano l’inizio e la fine di un progetto di vita condiviso. Ventidue anni sono pochi per chi ha programmi, ideali e valori comuni; sono pochi per chi rimane ed è travolto in poche decine di secondi da un incubo senza fine. Non è possibile dimenticare la sera del 4 marzo quando al rientro a casa ho trovato ad attendermi alcuni colleghi ed amici di Nicola. Una scena che si affaccia spesso alla mente di chi ha vissuto con un funzionario di polizia «operativo» ma che si tende a rimuovere per difesa e per non farsi sopraffare da un’angoscia paralizzante.

      Con orrore ho urlato il mio «No!» di fronte a ciò che intuivo essere la verità ma che nessuno dei presenti era in grado di confermarmi. E poi: «Ucciso dagli americani, un incidente…. Non si sa cosa è successo». Attonita da quella sera continuo a pormi sempre la stessa domanda «Perché?» ancor più dopo gli esiti contrastanti raggiunti dal Gruppo investigativo congiunto italo-statunitense, incaricato di esaminare la dinamica dei fatti accaduti il 4 marzo. Un’indagine che se negli intenti doveva svolgersi congiuntamente di fatto ha portato alla pubblicazione di due relazioni. Molti i limiti e le restrizioni incontrati dai rappresentanti italiani. Vincoli allo svolgimento delle indagini sono, innanzitutto, derivati dall’esclusiva applicazione della normativa statunitense, Army Regulation 15-6, che disciplina le procedure e le modalità per le inchieste nell’ambito dell’esercito Usa, e che, come risulta dal rapporto italiano, ha posto 14 dei limiti non trascurabili rispetto a quanto previsto dall’ordinamento italiano per analoghe attività. Per quanto attiene, ad esempio, alle modalità di acquisizione delle testimonianze, non potevano essere reiterate le domande ai testimoni già sentiti e non sono stati possibili confronti diretti, per non voler sottolineare che le domande dei rappresentanti italiani potevano essere poste ai testimoni solo tramite il Generale Vangjel, l’Ufficiale statunitense incaricato, già prima dell’arrivo della delegazione italiana, di svolgere indagini.

      Ulteriore elemento di rilevante limitazione per l’indagine congiunta è stato il mancato «congelamento» del luogo nell’immediatezza della sparatoria che, come dichiarato dagli stessi militari Usa, è stato completamente ripulito ed alterato mentre non si consentiva agli italiani, presenti a Baghdad quella sera del 4 marzo, di arrivare sul posto. Ma neanche successivamente, durante i lavori della Commissione congiunta, è stato possibile ricostruire la scena del «crimine», poichè le Autorità militari Usa hanno ritenuto inopportuno, in ragione del segnalato costante e grave pericolo che incombe in prossimità del luogo dell’«evento», anche il sopralluogo notturno.

      Pertanto, manca la certezza sulla ricostruzione della dinamica dei fatti. Tutto ciò non ha, inoltre, consentito di svolgere un’analisi approfondita sul posto, per cui quanto risultato dalla perizia effettuata in Iraq sulla vettura - come emerge dal Rapporto italiano - non sembra avere quella decisiva rilevanza probatoria. E ancora: la rimozione ed eliminazione dei bossoli, la non preservazione delle armi e delle munizioni del reparto coinvolto nel fatto… e, ancora il rientro dell’autovettura, ormai di proprietà dello Stato italiano, solo dopo due mesi…

      È un percorso difficile, doloroso e straziante per chiunque dover affrontare la tragica perdita del proprio compagno ma diventa ancor più arduo se questa avviene in tale contesto e con queste modalità. Nicola era un dirigente del Sismi, un Servizio alleato degli americani, ed ha agito in nome e per conto dello Stato italiano. Non era un Rambo né uno 007 con licenza di uccidere ma un uomo che in altre delicate operazioni aveva dimostrato di possedere le qualità per negoziare anche con gli elementi più integralisti del contesto mediorientale. Dotato di notevole intuito, riflessivo ed osservatore affrontava le situazioni con lucida razionalità, con notevole self-control e con forte determinazione. Consapevole dei rischi insiti nei diversi incarichi ricoperti consigliava la prudenza ai suoi collaboratori e vagliava i costi ed i benefici di ogni opzione. Nicola, anche nella sua precedente carriera in Polizia, ha sempre improntato il suo stile al confronto con gli altri e non allo scontro, «a prevenire, e non a reprimere», diceva. Anche nel rapporto con i suoi collaboratori prediligeva la politica del «consenso» piuttosto che dell’«ordine impartito», dell’affermazione pacata ma «autorevole» della sua opinione e non «autoritaria» anche se si assumeva sempre la piena responsabilità delle proprie decisioni. Uno stile che, spesso, spiazzava gli avversari ma che creava coesione e rafforzava l’identità di Gruppo in coloro che lavoravano al suo fianco. Un particolare pensiero va con affetto alla «squadra di Nicola», ai Calipariani, come qualcuno li definisce all’interno del Servizio forse proprio a voler differenziarne lo stile umano e di lavoro.

      Era certamente nota agli americani la sua partecipazione e collaborazione anche ad altre vicende di sequestri avvenute sul territorio iracheno ed anche in questo caso della giornalista italiana rapita, pur in assenza di una espressa comunicazione formale ai Comandi militari Usa del motivo della missione, Nicola e la sua squadra, come molte altre volte, hanno richiesto l’autorizzazione per atterrare all’aeroporto di Baghdad, per poter alloggiare a Camp Victory e, muniti di tesserini identificativi e di armi, per i loro successivi spostamenti nella capitale irachena. Nicola ha non solo condotto a termine la sua missione, la liberazione di Giuliana Sgrena, ma ha anche sacrificato la sua vita per proteggerla dal «fuoco amico» e, proprio per rispettare quella bandiera nella quale è tornato avvolto da Baghdad, continuo a chiedere con forza e determinazione la verità su quanto è realmente successo e di far luce sulle responsabilità di coloro che direttamente o indirettamente ne hanno causato la morte.

      Non è possibile avere pace se non c’è giustizia.

      http://www.unita.it/index.asp?topic_tipo=&topic_id=44378