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Le conseguenze politiche (anche a sinistra) dello scontro sulla Fiat
Publie le domenica 30 gennaio 2011 par Open-PublishingIl diktat di Marchionne su Pomigliano e Mirafiori illumina il tipo di
risposta che il capitale manifatturiero in un paese avanzato - pensa
di dare alla crisi.

Il successo inatteso dei “no” in entrambe le “consultazioni”,
nonostante il ricatto esplicito, rende la “vittoria” Fiat solo
contingente; la ripresa produttiva in questi stabilimenti (per nulla
certa, nonostante le promesse) vedrà in campo lavoratori niente affatto
piegati al volere dell’impresa.
Naturalmente, non ci si può attendere un collegamento meccanico e
immediato tra resistenza operaia e auspicabile “incendio sociale”.
Se, probabilmente, avverrà quello che diceva qualcuno a suo tempo,
ovvero che i reazionari alzano i massi per farseli ricadere sui piedi, a
sinistra e nel versante di classe bisognerà ben guardarsi da una lettura
meccanicistica. Troppa acqua è passata sotto i ponti e troppe
trasformazioni produttive, sociali ed ideologiche sono intervenute per
potersi aspettare una replica delle dinamiche del conflitto di classe
che abbiamo ben riposte nella nostra esperienza collettiva e memoria
storica. Siamo perciò obbligati ad andare più a fondo nell’analisi per
capire bene, in modo non stereotipato e per predisporci a cogliere
quella tensione sociale che si manifesta ancora sottopelle ma che in un
periodo di crisi sistemica può, in ogni momento, erompere all’esterno.
FIAT, una operazione da “laboratorio”
La risposta Fiat dalla crisi è da manuale: a fronte del venir meno
dell’effetto espansivo fin qui garantito dalla finanziarizzazione – una
delle principali controtendenze alla caduta del saggio del profitto – si
prova ad aumentare il tempo di lavoro. Se si legge con attenzione il
“piano”, infatti, troviamo: aumento esplosivo dello straordinario
obbligatorio, riduzione delle ore di permesso sindacale, divieto di
sciopero. Al netto delle misure illegali o addirittura incostituzionali,
il nocciolo della nuova organizzazione del lavoro si concentra
nell’allungamento della giornata lavorativa. Ovvero, in termini
marxiani, aumento dell’estrazione di plusvalore assoluto.
E’ una risposta regressiva e che mette la Fiat in competizione con la
produzione automobilistica dei paesi emergenti, mentre dai concorrenti
europei (da Volkswagen a Renault, ecc) si punta su nuovi modelli, più
ricchi di innovazione tecnologica, meno inquinanti, ecc.
Ed è una risposta diversa da quanto lo stesso gruppo dirigente Fiat sta
facendo sul marchio Chrysler, chiaramente influenzato dalle condizioni
imposte lì dal governo statunitense.
La crisi sta quindi producendo reazioni diverse non solo a livello di
aree geostrategiche, ma anche all’interno delle singole multinazionali.
Gli Usa, con molte difficoltà, hanno inizialmente tentato di
ripercorrere la politica del debito e del sostegno alla domanda anche se
il recente “discorso sullo stato dell’Unione” di Obama sembra segnare un
cambio di rotta, in direzione della riduzione del deficit pubblico.
L’Europa sotto l’egemonia tedesca, invece, ha anticipato i tempi del
“rientro” nei parametri di Maastricht, anche a rischio di strozzare
nella culla una “ripresa” economica decisamente esangue e disomogenea
nei vari paesi del continente. Germania e Francia puntano sulla
superiore qualità della loro produzione manifatturiera e accentuano la
dipendenza degli altri paesi, trasformati spesso in propri
“contoterzisti”. Questa dinamica polarizza anche la possibilità di
gestire la coesione sociale interna: i paesi più forti possono mantenere
decenti livelli salariali e di welfare, senza forzare oltremisura i
livelli di sfruttamento della forza lavoro. Mentre, man mano che si
scende lungo le varie filiere produttive, queste condizioni vengono
meno: l’allungamento della giornata lavorativa va di pari passo con
l’aumento della disoccupazione, l’incremento dell’età pensionabile si
accompagna all’espulsione della manodopera “garantita” (cinquantenni con
contratto a tempo indeterminato) e alla precarizzazione generale di
tutte le generazioni, il taglio dei servizi sociali rende disponibili
altri settori di investimento per capitali privati a corto di sbocchi.
L’Italia di Marchionne è un paese che va allontanandosi dal cuore
produttivo dell’Europa e che rispecchia, anche merceologicamente, la
polarizzazione estrema implicita in questo tipo di risposta: pochi brand
di lusso (Ferrari, Maserati, Jeep, Dodge, Cherysler, forse anche Alfa
Romeo) per le fasce sociali che mantengono o aumentano il proprio
reddito e il marchio Fiat per quelle povere, possibilmente con modelli
fabbricati in Turchia, Serbia, Polonia (in Messico, per il mercato Usa).
Questo modello si è presentato fin da subito come una rottura
consapevole, chirurgica, senza mediazioni, con il sistema di relazioni
industriali costruito nel dopoguerra. Una rottura “coerente” con il tipo
di competizione che si pensa di fare (le produzioni dei paesi emergenti)
e che punta a riproporne qui alcune modalità.
Un taglio radicale con il passato “concertativo”, caratterizzato da
sindacati generali e da contratti nazionali, ossia dal “compromesso tra
capitale e lavoro”. Il quadro normativo delineato dal “piano Fiat”
prevede infatti un modello di relazioni “complici” a livello aziendale,
di tipo corporativo, nella logica competitiva che assume l’impresa come
un esercito in guerra contro tutti gli altri. E all’interno di un
esercito non è ammissibile né il confronto né, tantomeno, il conflitto.
Solo l’obbedienza gerarchica.
Se questa è l’idea di fondo, è però anche facilmente riconoscibile. Non
siamo più da 50 anni un paese arretrato: i lavoratori sono abituati a
contrattare le condizioni salariali e di lavoro, a costituire sindacati
(e a cambiarli, se insoddisfatti), ad esercitare diritti. Il “modello
Marchionne” incontra resistenze. Anzi, le produce anche là dove erano
diventate quasi un ricordo del passato lontano.
E’ generalizzabile il modello FIAT?
Il Lingotto fa da apripista, dunque. Dobbiamo perciò considerare quale
sia il suo peso specifico nell’economia italiana, insieme alla
compatibilità del suo “modello” con il resto del sistema produttivo.
Lo spin off tra Auto e Industrial sembra preludere a un abbandono del
settore da parte della famiglia Agnelli, ancor oggi azionista di
riferimento tramite l’archeologico schema della società in accomandita
all’apice di una più “moderna” serie di scatole cinesi di derivazione
più finanziaria che industriale. Se l’obiettivo dichiarato del gruppo è
raggiungere i 6 milioni di vetture l’anno (soglia considerata “minima”
per poter restare sul mercato globale), bisogna dire che la quasi
totalità di questa cifra – prendendo per buoni i livelli di produzione
promessi per gli stabilimenti italiani – verrà fabbricata altrove. Al
tempo stesso, però, il mercato italiano è l’unico nel mondo dove la Fiat
raggiunga livelli a doppia cifra (il 27%, nel quarto trimestre 2010).
Non va però sottovalutato il fatto che buona parte dell’”appetibilità”
delle vetture Fiat in Italia sia legato a fattori “affettivi” di stampo
nazionalistico (le vittorie Ferrari in F1, la “nostra” industria
automobilistica), oltre che ai livelli di prezzo (soprattutto a livello
manutenzione). Abbandonare totalmente la produzione in Italia potrebbe
farle perdere ulteriori quote di vendita.
Ma il “cuore” progettuale e il mercato d’elezione è diventato il Nord
America. Lì viene spostato gran parte dello staff che progetta i nuovi
modelli; lì si investe (grazie ai sussidi del governo Usa) in nuove
tecnologie per più bassi consumi e minor inquinamento: lì si pensa di
realizzare i volumi di vendita qui impossibili (l’elemento
nazional-motoristico vale anche per Germania, Francia, Spagna e Gran
Bretagna, naturalmente). A tutti gli effetti, dunque, la Fiat ha ora la
configurazione classica di una vera multinazionale, “basata” (per
quanto, ancora?) in Italia. L’unica, nel settore manifatturiero (Eni,
Enel, Unicredit hanno altre caratteristiche).
Sul piano occupazionale, il solo settore auto ha appena 25.000
dipendenti (ma Termini Imerese è già chiusa), e non si prevedono certo
assunzioni. Ma l’indotto auto è enorme e coinvolge – direttamente o
indirettamente – quasi un milione di persone. Difficile valutare il
disastro occupazionale in caso di fuoriuscita completa del gruppo
dall’Italia, ma impossibile sottovalutare il “peso specifico” della Fiat
nell’industria e nel fatturato complessivo del paese.
Il “modello Fiat”, così come descritto negli “accordi” di Pomigliano e
Mirafiori, sembra attagliarsi meglio ad industrie grandi o molto grandi,
con una presenza già affermata sui mercati globali, e che possono perciò
credibilmente esercitare sui propri dipendenti lo stesso ricatto pensato
da Marchionne: “o così, o me ne vado altrove”.
Per le altre - che hanno il proprio business legato alla territorialità
o dimensioni che non consentono una rapida delocalizzazione - allungare
la giornata lavorativa e comprimere il salario non è semplicissimo. Il
primo obiettivo richiede contrattazione sindacale e qualche
contropartita salariale (persino tramite le organizzazioni “complici”).
Gestire pacificamente un impoverimento così drastico pare proprio che
non sia possibile nemmeno in paesi tradizionalmente dittatoriali (vedere
i moti in Tunisia, Egitto, per altri versi Algeria e Albania).
Nel settore pubblico – evidentemente non “delocalizzabile” si
potrebbe proseguire sulla via delle esternalizzazioni e della
precarizzazione, con seria riduzione dei diritti individuali e
sindacali, nonché delle sigle ammesse alle trattative. Ma proprio la
“rigidità” intrinseca a questo tipo di settori rende problematica una
gestione autoritaria senza contropartite in termini salariali, di
benefit, di “discrezionalità appropriativa”. La stessa sintonia tra
governo e sindacati complici (Cisl, Uil e sindacalismo autonomo e
corporativo) rende difficile portare fino in fondo progetti drastici di
riduzione delle libertà sindacali e di netto peggioramento delle
condizioni di lavoro dei pubblici dipendenti.
La “fortuna” dell’iniziativa Fiat, dunque, si è fin qui giovata di
alcuni fattori difficilmente ripetibili: l’appoggio dichiarato del
governo (lo smantellamento delle tutele legislative del lavoro, opera
del ministro Sacconi), la “complicità” esibita da Cisl, Uil, Ugl e – tra
i metalmeccanici – il sindacato aziendale Fismic. Il tentativo di
isolare la Cgil e espellere la Fiom dalle fabbriche appare quindi
condizionato da fattori politici abbastanza caduchi: il ciclo
berlusconiano volge chiaramente al termine e persino un altro governo
“tecnico” o di “centrodestra allargato” potrebbe trovare necessario
ri-coinvolgere la Cgil nel gioco delle trattative a perdere.
Sul piano strutturale, infine, le poche imprese medio-grandi e pubblica
amministrazione galleggiano su un mare di lavoro disperso e disgregato
che caratterizza ormai oltre il 60% della forza lavoro; un mondo che è
nato e cresciuto nell’assenza di veri diritti individuali e sindacali,
spesso grazie anche alla Cgil e al centrosinistra del “pacchetto Treu”.
Un mondo polverizzato in cui il lavoro di ricucitura sindacale è
oggettivamente difficilissimo e dove il rapporto di lavoro precario è la
norma, non l’eccezione. Un mondo che programmaticamente, però, non è
stato mai organizzato da tutti i sindacati confederali, che, sotto
questo aspetto, sono tutti complici.
La dinamica della crisi dice che l’ambito della precarietà è l’unico in
cui si manifesta una qualche perversa “crescita” dell’occupazione
(soprattutto in “nero”, pare). Si tratta di classe propriamente detta,
generata da una trasformazione della produzione e della relazioni
industriali in atto ormai da tempo. La vicenda FIAT, il tentativo di
eliminare il contratto nazionale, la riduzione dei diritti sindacali
anche nelle grandi concentrazioni di lavoratori sono la conclusione di
un attacco generale già fatto e che ora si appresta ad assaltare le
ultime roccaforti di quelli che sono stati i punti di forza del
conflitto di classe in Italia. Non siamo all’inizio ma alla fine di una
profonda fase di trasformazione che deve essere compresa nei suoi
effetti per poterci mettere in condizione di rispondere.
La trasformazione non è mai del resto un “atto improvviso”, ma il
risultato di processi di lungo periodo che “precipitano” in un certo
luogo, in un certo momento. Per riuscire a organizzare la risposta di
classe, perciò, va colta – nella loro relazione - sia la tendenza che la
congiuntura; sia il dato di lungo periodo (in cui, come si usa dire,
prevalgono gli elementi di continuità) che quello immediato
La crisi del tatticismo.
Se siamo arrivati alla condizione in cui il conflitto di classe è
promosso dall’alto, cioè solo dall’avversario di classe, ci sono sia
ragioni oggettive (arretramento generale, politico e culturale, davanti
alla capacità della borghesia di riprendere il ciclo di crescita dopo
gli anni ‘70 e l’89), sia il prodotto di responsabilità soggettive del
movimento comunista e di classe (sul piano sindacale e di movimento).
Il punto politico, organizzativo e teorico che vogliamo affrontare è
preciso: negli ultimi due decenni, soprattutto in Italia, è stato
abbandonato ogni collegamento organico con la classe reale che andava
evolvendo sotto la spinta delle modifiche produttive complessive. C’è
chi lo ha fatto aggrappandosi a visioni ultra-ortodosse e chi assumendo
posizioni “moderniste” fino al ridicolo. Ma comunque lasciando deperire
quel grande capitale di organizzazione politica, sindacale, sociale e di
coscienza di classe accumulato nei precedenti cicli di lotte.
Senza visione generale, e senza rappresentanza politica a livello
nazionale, tende a prevalere il piccolo cabotaggio, l’iniziativa giorno
per giorno, la pura reazione anche generosa, ma senza progetto e senza
alternativa. E, più spesso, il puro adattamento ad amministrare
l’esistente, che sul piano sindacale diventa difendere la propria
organizzazione, su quello politico il puntare sulla capacità attrattiva
residua di un simbolo prestigioso.
Un “tarlo” che ha minato l’organizzazione di classe nel nostro paese è
stato perciò il tatticismo, il politicismo, il prevalere della
contingenza a scapito della prospettiva e del progetto di società.
Questo “tarlo” è ancora ben presente oggi.
In questo senso si può dare un giudizio positivo sulle recenti scelte
della Fiom, ma quello che si pone nella ed oltre la vicenda Fiat è come
si organizza complessivamente il mondo del lavoro nella sua
configurazione attuale. Il rischio che vediamo è quello di un uso
“politico” della vicenda Fiat, ritenuta magari utilizzabile per ridar
fiato alla politica della “sinistra”. I comitati costituiti da
Bertinotti e Cofferati a sostegno del NO, le varie iniziative politiche
che cercano di ricucire una dialettica con il centrosinistra, il
reciproco uso strumentale tra sindacato e politica a cui stiamo
assistendo, rischiano di divenire un boomerang nel momento in cui tutto
questo non trova prospettive dentro un processo di riorganizzazione
effettiva della classe.
Questa preoccupazione diviene ancora più forte se si considera che
molti dei personaggi che oggi si sono riaffacciati sono gli stessi che
sono stati protagonisti di un’altra avventura, purtroppo quasi rimossa,
ma che ora mostra tutto il suo significato politico. Ci riferiamo al
referendum tenuto nel 1995 sull’art. 19, che ha fissato il criterio dei
“firmatari di contratto” per poter usufruire delle libertà sindacali. Un
referendum promosso dalla sinistra sindacale e da quello che era allora
il Partito della Rifondazione Comunista; concepito per tagliare le gambe
al nascente sindacalismo di base e ai movimenti indipendenti, oggi si
ritorce pesantemente contro quelli che lo hanno promosso. Marchionne,
Cisl e Uil hanno utilizzato proprio quell’articolo per “far fuori” la
Fiom.
Il punto politico che vogliamo mettere in evidenza non è tanto il
merito di quell’episodio di masochismo sindacale, quanto il fatto che
allora come oggi - sia col segno negativo del ’95, sia con quello
positivo attuale - se continua a prevalere la contingenza e la necessità
tattica, in questo momento di crisi non si andrà da nessuna parte, e
conosceremo una nuova sconfitta politica. Quella pratica e quella
cultura sono logorate e ormai da tempo hanno mostrato i loro limiti.
Prendiamo atto che l’esigenza pratica di uscire da questa logica si è
per ora tradotta nel tentativo di dar vita a un “movimento che si
autorappresenta” anche sul terreno della politica, ovvero come “Uniti
contro la crisi” che afferma di voler costruire una “alternativa
sociale”. Non è la prima volta che la sordità dimostrata dalla classe
politica rispetto alle domande sociali stimola processi simili. Nel
passato, però, questi tentativi si sono sempre scontrati, ad un certo
punto, col problema del progetto e dell’organizzazione; ovvero della
necessità di dotarsi di una visione unitaria di lungo periodo, struttura
organizzata, centri di responsabilità e strategia fortemente ancorati
alla prospettiva nettamente indipendente dal centrosinistra.
I Comunisti nel conflitto di classe
Bisogna, dunque, fare i conti con questa situazione sia sul piano
dell’emergenza politica sia su quello delle prospettive che rimane
dirimente e decisivo anche come verifica per i comunisti su come stanno
nel moderno conflitto di classe. La resistenza dei lavoratori della FIAT
è una indicazione importante che va raccolta e rilanciata. Lo sciopero
dei metalmeccanici indetto dalla FIOM e dal sindacalismo di base per il
28 Gennaio è un primo momento importante che non può che essere seguito
dalla sciopero generale e generalizzato. Ci sembra che continuare a
tirare la giacca alla CGIL per chiedere lo sciopero è un modo per non
fare lo sciopero generale. Continuare su questa strada comunque e
chiedere alla FIOM di schierarsi ci sembra un elemento di chiarezza
politica e d’indicazione sul lavoro da svolgere.
Questi sono solo i passaggi preliminari ad una visione complessiva di
riorganizzazione del movimento di classe e dunque dobbiamo indicare con
il massimo della chiarezza i contenuti e i piani di lavoro con i quali
misurarci per far ritrovare ai comunisti una funzione reale dentro lo
scontro di classe che si ripropone in un moderno Stato imperialista.
L’Indipendenza Politica. E’ l’elemento qualitativo che deve
caratterizzare i conflitti nel nostro paese oggi. Quando si parla di
indipendenza non si può intendere solo quella enunciata ma quella
praticata nel conflitto e, soprattutto, nell’organizzazione del mondo
del lavoro e nella società nel suo complesso. Si tratta di confermare e
rafforzare un processo che conduca fuori delle alleanze con il centro
sinistra e che ha bisogno di strutturalità e capacità soggettive.
La Confederalità. Se è vero che l’attacco di Marchionne intende fare
una resa dei conti con la classe operaia della grande impresa e con le
grandi aggregazioni di lavoratori è chiaro che la prima risposta è di
difendere in tutti i modi l’organizzazione sindacale esistente in questi
ambiti. Ma poi bisogna anche andare oltre e rilanciare l’iniziativa
perché la crisi sistemica con la quale le società capitaliste stanno
facendo i conti aumenta le contraddizioni che permettono non solo la
difesa ma anche il rilancio di una vera organizzazione sindacale a
cominciare dalle “roccaforti” del mondo del lavoro.
Questa necessità, però, non può prescindere dalla costruzione di una
nuova confederalità in quanto nessuna categoria è tanto forte da poter
resistere da sola all’attacco a cui sono sottoposti i lavoratori.
Allargare l’organizzazione sindacale anche laddove il lavoro è
disgregato e precarizzato, trovare le forme adeguate di organizzazione
anche per quel 60% di lavoratori considerati fuori dai diritti
sindacali, fare delle aree metropolitane dei centri di aggregazione e di
lotta significa attrezzarci per quello che sarà la dimensione reale del
mondo del lavoro nel prossimo futuro dove alla disgregazione produttiva
e sociale si potrà rispondere solo con una forte soggettività
organizzata della classe.
La Rappresentanza del Blocco Sociale. E’ necessario aprire una nuova
prospettiva sul piano sindacale ma è altrettanto importante ricostruire
una rappresentanza politica delle classi subalterne nel nostro paese.
Sappiamo bene che è un compito improbo che deve fare i conti con la
concretezza dei settori di classe, nella loro odierna condizione di
arretratezza, e con concezioni della sinistra e tra i comunisti che
hanno portato ad una situazione disastrosa. Sarà un percorso complesso,
che procederà per tappe ed ognuna di queste sarà un “esame” da
affrontare che, però, andrà seguito con determinazione in quanto le
contraddizioni che stanno emergendo riguardano la tenuta dell’attuale
sistema sociale.
26 gennaio 2011
http://www.contropiano.org/Documenti/2011/Gennaio11/27-01-11ScontroFiatDocRete.htm#