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Nell’anniversario dell’11 settembre, con l’Iran l’Europa tratta mentre Bush minaccia un’altra guerra

Publie le martedì 12 settembre 2006 par Open-Publishing

Dazibao Nucleare USA medio-oriente Gennaro Carotenuto

di Gennaro Carotenuto

Questo articolo è la traduzione in italiano di quello da me scritto per il quotidiano "La Jornada" di Città del Messico.

Per celebrare l’11, il presidente statunitense George W. Bush non trova di meglio che minacciare una nuova guerra contro il più ovvio e più difficile dei bersagli: l’Iran. Questo paese, secondo Bush, “è come Al Qaeda”. È la misura del fallimento di cinque anni di "guerra al terrore".

Nella fase attuale dei negoziati tra Unione Europea (la troika), le Nazioni Unite (i 5+1) e l’Iran, le parole più sagge le ha avute Felipe González. Atterrando a Madrid, dopo di essersi incontrato a Teheran con il presidente iraniano Mahmoud Ahmedinejad, l’ex presidente socialista spagnolo ha affermato che ci sono importanti margini di trattativa, che l’Iran non vuole l’arma atomica, ma esige il rispetto del suo diritto allo sviluppo tecnologico garantito dallo stesso trattato di non proliferazione nucleare.

In una situazione nella quale Bush e Ahmedinejad si scambiano quotidianamente insulti che risultano surreali per l’osservatore internazionale, González ha riportato la crisi al suo punto di partenza, spogliandola di propaganda e estremismi.

Risulta chiaro che, nella partita per il nucleare iraniano, si confrontano almeno quattro posizioni. La prima è quella dello stesso Iran, che vive una fase storica nella quale vede possibile la consacrazione del proprio ruolo di potenza regionale. Il suicidio statunitense in Iraq ha trasformato questo paese in zona d’influenza iraniana -paradossale dopo che negli anni ’80, con Saddam Hussein, gli Stati Uniti avevano utilizzato proprio l’Iraq per limitare l’espansione rivoluzionaria degli ayatollah- e il fallimento bellico israeliano in Libano ha aumentato il prestigio perfino dell’industria bellica persiana.
Una seconda posizione, quella europea, cerca una soluzione che convinca Teheran a rinunziare alla bomba attraverso i negoziati. Per l’Unione Europea, una nueva guerra statunitense, sarebbe una tragedia e un rischio mortale per la sicurezza energetica e commerciale dell’Europa. Anche se non escludono sanzioni, puntano sui negoziati. Un terzo gruppo, che in parte si interseca col secondo, maggioritario nel Consiglio di Sicurezza, ma che lascia perplesse la Cina e la Russia, punta a sanzioni immediate contro l’Iran che il 31 agosto ha violato la risoluzione numero 1.696 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e non ha sospeso il processo di arricchimento dell’uranio. L’ultima squadra, espressione del neoconservatorismo statunitense, con presenze importanti in Israele, cerca di utilizzare il pretesto nucleare per impedire che Teheran eserciti il suo ruolo di potenza regionale e regolare definitivamente e con le armi i conti sia con l’Iran che con la Siria.

L’Iran, firmando nel 1970 il trattato di non proliferazione nucleare, accettò di rinunciare alla bomba atomica e il fatto che la rivoluzione komeinista non abbia mai denunciato quella firma, va inteso come un valore in sé. Tuttavia, proprio per quello stesso trattato, nessuno può discutere il diritto iraniano allo sviluppo nucleare pacifico. Purtroppo, sia gli Stati Uniti che l’Iran, quando dicono pacifico intendono bellico e sia il fondamentalista protestante Bush che il fondamentalista sciita Ahmedinejad, si considerano strumenti delle loro rispettive divinità per realizzare missioni storiche. Bush, per mettere fine alla politica estera indipendente inaugurata in Iran solo dalla Repubblica Islamica (dopo l’episodio Mossadeq quando gli anglostatunitensi dimostrarono di considerare l’Iran come una semicolonia alla stregua del Guatemala o della Repubblica Dominicana), è disposto a sacrificare perfino quel minimo di governabilità raggiunto in Iraq, proprio in coabitazione con Teheran. Bush vuol giocarsi le traballanti relazioni con gli sciiti iracheni, per evitare la realizzazione dei presunti obbiettivi iraniani, ma per farlo confonde la minaccia del sunnita Osama Bin Laden con quella degli sciiti iraniani: mettere fine al neocolonialismo statunitense nella regione, ai regimi musulmani prooccidentali, distruggere Israele. Ahmedinejad risponde con un discorso radicale che si accorda perfettamente al discorso di Bush e la retorica dell’uno è funzionale a quella dell’altro. Per il presidente iraniano l’Islam è il futuro rispetto ad un liberalismo decadente. Bush, cinque anni dopo l’11 settembre, non può ammettere che la guerra contro il terrorismo, e tutta l’impalcatura dell’unilateralismo neocon, siano in stallo -se non sconfitti- per l’incapacità del messianismo protestante di coniugare la forza con la politica. Non un solo paese al mondo è oggi più sicuro per gli interessi statunitensi, e la dimostrazione definitiva è stato il caso libanese. Il Libano era mostrato come modello del successo della strategia di esportazione della democrazia e del Grande Medio Oriente ma, alla prima occasione, l’alleato israeliano ha ritenuto di non avere altra via che cancellarlo dal pianeta. Oggi i nemici sono aumentati rispetto a cinque anni fa e dopo l’ultima guerra libanese il mondo islamico si è perfino convinto che sia Israele che gli Stati Uniti non siano invincibili. Paradossalmente il pianeta è molto più multilaterale oggi di quando inizio l’imposizione dell’unilateralismo statunitense chiamato "Progetto per un nuovo secolo americano", le tavole della legge del neoconservatorismo. È chiaro oggi che proprio la logica della guerra contro il terrorismo impedisce agli Stati Uniti di fare politica, raccogliendo i segnali che gli iraniani moderati -i riformisti di Kathami, i tecnomullah di Akbar Hashemi Rafsanjani- hanno continuato a lanciare verso Washington. Bush non ascolta, non ascolta mai, e sogna oggi di imporre il più stretto isolamento all’Iran -quasi un embargo che ricorda quello di Cuba- per abbattere il regime, possibilmente manu militari.

Quello di Bush è un sogno pericoloso oltre che impraticabile. Sia la Russia che la Cina, entrambi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, come altri attori globali come l’India e il Venezuela, testimoniano che la comunità internazionale, che coincide sempre meno con l’Occidente, va in un’altra direzione e non ha nessun interesse ad isolare l’Iran. Dal 1997 il riformista -qualunque cosa significhi- Mohammad Kathami ha lanciato ininterrottamente segnali di riconciliazione. Mentre gli europei -in particolare Germania ed Italia- stabilivano fruttuose relazioni con Teheran, solo “il grande Satana” non raccolse quei segnali. Adesso in Iran la stagione riformista è terminata -soprattutto a causa delle guerre concentriche con le quali gli Stati Uniti hanno circondato il paese, dall’Afghanistan all’Iraq- e sono ritornati a comandare gli estremisti. Forse ha ragione Bush sul fatto che con Ahmedinejad non si può trattare. Eppure, chi ha spinto l’Iran verso una svolta a destra se non la politica costantemente aggressiva degli Stati Uniti che ha rafforzato i Pasdaran dei quali proprio Ahmedinejad è espressione, incapace di differenziare tra le diverse anime della teocrazia iraniana? Forse la misura più chiara dell’incapacità statunitense di comprendere la realtà iraniana e quindi fare politica è testimoniata dal protervo, crudele e dannoso mantenimento nella lista dei gruppi terroristi dei "Mojahedin del popolo", la principale organizzazione politico-militare che si oppone al regime. Proprio questa settimana il mojahedin Valiollah Feyz Mahdavi, 28 anni, è morto in galera in circostanze che neanche Amnistia Internazionale riesce a chiarire. È almeno il sesto prigioniero politico iraniano morto in carcere quest’anno nell’indifferenza di quell’Occidente che si autodefinisce "comunità internazionale". Tale indifferenza esplicita che il cammino verso il cambio di regime per i neocon passa esclusivamente attraverso il loro intervento dall’esterno. L’uso della forza appare sempre di più l’unico strumento della politica estera statunitense anche se, in questo modo, perfino la deterrenza perde valore come arma negoziale. È palese che l’aggressività statunitense sia invece lo strumento più utile alla continuità dello stesso regime iraniano. Ed è la misura del totale fallimento della politica mediorientale di Bush a cinque anni dall’11 settembre.

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