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Dazibao Guerre-Conflitti medio-oriente Doriana Goracci
de Doriana
Quelle che seguono sono: la posizione da Israele, a favore del boicottaggio, di Reuven Abarjel,tradotta dalle Donne in Nero di Piacenza e resa disponibile con il contributo di Susanna Sinigaglia e la storia di Maria,di Gideon Lévy da Haaretz, tradotta da Marianita De Ambrogio, nostra infaticabile traduttrice delle Donne in Nero di Padova.
Ve le rendo nella loro coerente drammatica semplicità, con la preghiera di usarle come testimonianza di vita e di amore.
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Alla campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele
A NATFHE - Sindacato dei lettori di college e di università, Inghilterra
Mi chiamo Reuven Abarjel. Sono nato in Marocco e vivo in Israele dal 1950. Negli anni Settanta sono stato tra i fondatori del movimento delle Black Panther. La nostra lotta contro il regime israeliano è sempre stata difficile e senza compromessi. Già allora siamo stati colpiti con violenza nelle strade e nelle piazze nel tentativo di spezzare la resistenza dei Mizrahi, e la polizia ha usato tutta la violenza di cui era capace contro di noi agli ordini del primo ministro Golda Meir.
Fin dall’inizio della sua lotta il movimento delle Black Panther ha avviato un dialogo con la leadership palestinese sia qui che in Europa. Delegazioni del movimento sono state in Italia, Francia,
Belgio e Olanda. Al tempo stesso, nei campi profughi palestinesi, ci siamo incontrati con le famiglie che avevano perso i loro figli nella lotta contro l’occupazione. Poco prima della morte di Yasser Arafat io stesso ho fatto parte di una delegazione che l’ha incontrato nella Muqata’a assediata.
Fin dall’inizio della nostra lotta ho compreso che il problema
mediorientale era molto più complesso e profondo di ciò che pensavo, complicato al punto che qualsiasi persona normale stenta a immaginare come si potrebbe risolvere. Qui regna una terribile confusione perché il sistema politico israeliano, mantenuto in essere dalle ragioni del capitalismo internazionale, fa sì che i gruppi palestinesi e Mizrahi oppressi siano schiacciati sotto il peso dell’oppressione e dell’occupazione.
In Israele i Mizrahim sono stati sottoposti a un sofisticato processo di oppressione camuffato da slogan come -siamo tutti fratelli- o -siamo tutti ebrei-. L’establishment Ashkenazita, fingendo solidarietà nei nostri confronti, ha commesso contro di noi dei terribili crimini, come gli esperimenti medici con la radioattività cui sono stati sottoposti 100.000 bambini (negli anni Cinquanta e oltre) quasi tutti appartenenti a famiglie provenienti dal Nordafrica, il rapimento di bambini appartenenti a grandi famiglie Mizrahi dati in adozione a coppie di ebrei provenienti dall’Europa senza figlie l’esclusione degli ebrei Mizrahi dalle migliori scuole e dagli altri centi d’influenza del paese.
E’ preciso dovere di ogni pacifista al mondo, che appartenga o meno al campo accademico, unirsi alla lotta contro i governi razzisti che praticano la discriminazione contro le loro minoranze etniche e i gruppi di poplazione che sono stati privati dei loro diritti. E’
preciso dovere di ogni pacifista incoraggiare questi gruppi ad alzare la loro voce e ad esercitare la loro influenza ovunque, e soprattutto in questa tormentata regione che mette a repentaglio la pace mondiale.
Personalmente sarei felice di sapere che un vasto gruppo di docenti
universitari inglesi ha fatto udire chiara e forte la sua voce
approvando una presa di posizione contenente tre richieste precise:
1. che si ponga fine all’occupazione;
2. che si ponga fine alla discriminazione strutturale dei cittadini
palestinesi d’Israele nel settore dell’istruzione;
3. che Israele accetti che il suo sistema di educazione superiore
rifletta la maggioranza della sua cittadinanza: e la maggioranza
della popolazione è Mizrahi.
Si tratta di alcune delle richieste portate avanti anche dal movimento delle Black Panther, di cui sono stato cofondatore. La nostra lotta è sempre stata contro il razzismo, la discriminazione e l’oppressione della popolazione non-europea di Israele e dei territori occupati dopo il 1967.
Oggi sono membro anziano di un coordinamento chiamato Mizrahi
Democratic Rainbow.
Ed eccoci qui, 35 anni dopo, ad assistere al fenomeno di un vasto
gruppo di intellettuali che si alza in piedi e prende posizione contro l’egemonia politico-accademica dei sionisti in Israele e nel mondo. La resistenza di questi intellettuali a tale egemonia non dipende più dai desideri del sionismo e dei suoi seguaci. L’importanza del boicottaggio non sta tanto nell’atto di boicottare in sé, quando nella posizione di resistenza attiva contro il mondo accademico di Israele e contro la sua collaborazione con la politica egemonica del paese.
Anche se io personalmente non faccio parte del mondo accademico, voglio firmare la petizione. Sono orgoglioso delle lotte cui ho partecipato e cui partecipo ancora contro una forza violenta, che richiede di usare ancora più forza ed energia per essere contrastata. Spero che ci saranno sempre più persone che si uniranno al boicottaggio finché l’occupazione non finirà e il razzismo e la discriminazione non saranno aboliti.
Che molte benedizioni scendano su di voi
Reuven Abarjel
reuven_4@bezeqint.net
MARIA
Gideon Lévy - Haaretz, 15 giugno 2006
www.haaretz.co.il/hasite/pages/ShArtPE.jhtml?itemNo=726896
Maria Aman, la bambina che ha perduto sua madre, suo fratello e sua nonna a causa di un missile israeliano , è stata trasferita, paralizzata e sotto assistenza respiratoria, in un centro di riabilitazione a Gerusalemme, dopo aver rischiato di essere spedita a morire lentamente a Gaza.
Tutto bene quel che finisce bene? Non c’è fine né bene. Maria, una bambina paralizzata e sotto assistenza respiratoria, è stata trasferita questa settimana all’ospedale pediatrico "Alyn" a Gerusalemme, mentre Israele aveva già annunciato il suo ritorno a Gaza. Ora la bambina, che ha perduto da circa un mese sua madre, suo fratello e sua nonna, dovrà seguire un programma di riabilitazione che durerà mesi e alla fine del quale, forse, potrà almeno respirare con i suoi mezzi, parlare e anche alzarsi dal letto.
I medici stimano a circa 6 mesi il tempo della sua ospedalizzazione in questo ospedale famoso. Suo padre sarà al suo fianco, imprigionato nell’ospedale, mentre a casa, a Gaza, lo aspetterà Muaman, il suo bambino di 6 anni, orfano di madre. I due bambini, Maria e Muaman, sono i superstiti de "l’assassinio mirato" prodotto dalle forze aeree e che era diretto su Mohamed Dahduh della Jihad Islamica, ma con lui quasi un’intera famiglia è stata falciata, in modo mirato.
Se non ci fosse stato l’intervento dell’Associazione dei Medici per i Diritti dell’Uomo e la risposta del Ministro della Difesa, Amir Peretz, che si è adoperato per il finanziamento del programma di riabilitazione della bambina, questa sarebbe stata inviata a Gaza dove non esiste nessun ospedale di riabilitazione, per morirvi lentamente. Questa settimana, una soluzione del genere è stata ancora ricercata per suo zio Nahed, anche lui paralizzato e sotto assistenza respiratoria in seguito all’assassinio, e padre di due bambine in tenera età.
Il generale Dan Halutz era particolarmente fiero dell’azione delle sue forze aeree: al termine dell’indagine condotta dall’esercito israeliano, il capo di stato maggiore ha dichiarato che l’attacco era stato attuato con "grande professionalità" e una grande "precisione di giudizio". Ecco allora una proposta per questo sensibile capo di stato maggiore, ex comandante delle forze aeree, a cui nessuna sofferenza umana è estranea: che egli voglia prendersi la pena di recarsi all’ospedale Alyn di Gerusalemme per vedere con i suoi occhi la "grande professionalità" e la "precisione di giudizio" dei suoi piloti.
Forse bisognerebbe anche inviare all’ospedale tutti gli allievi piloti, un po’ prima che se ne escano per le loro missioni di morte, affinché vedano con i loro occhi il risultato che non compare mai sugli schermi dei loro computer sofisticati: una graziosa bambina, il cui piccolo mondo è completamente devastato, e i membri di una famiglia felice, che usavano per la prima volta la vettura appena acquistata, stroncati, scossi dal lutto, resi orfani, infermi.
Lo smalto rosso che era stato applicato con cura sulle piccole unghie si scrosta già. La pelle delle mani si raggrinzisce. Solo i capelli e gli occhi hanno conservato la loro bellezza, come nelle foto. Venerdì scorso, per la prima volta da quando è stata ferita, Maria ha visto il suo papà e sulle sue labbra è apparso un primo debole sorriso. Tre settimane senza mamma e papà, con la sola presenza del fratello del nonno: paralizzata e sotto assistenza respiratoria, immobilizzata, incapace di muovere nulla tranne le labbra, e senza sapere che la mamma, il fratello e la nonna non ci sono più.
Maria non è l’ultima: dopo di lei ci sono stati, venerdì sera, i bambini della famiglia Ghalia, feriti e uccisi sulla spiaggia, non lontano dalla casa di Maria, a Gaza. E non è stata nemmeno la prima: in questi ultimi mesi, abbiamo parlato qui di Omar Abu Uarda, che coltivava agrumi , di Mussa Al-Swarka, che sorvegliava dei cammelli, di Hassan Al-Shafay, che coltivava angurie , e di quei coltivatori di fragole, i figli della famiglia Raban uccisi il primo giorno delle loro vacanze estive da un tiro delle nostre forze armate .
Maryam Raban che ha perduto quattro figli, e tre nipoti nel campo di fragole, è venuta questa settimana a fare visita alla famiglia Ghalia per condividere il loro dolore. Doppio orrore: risulta che Maryam è la sorella di Ali Ghalia ucciso venerdì sera sulla spiaggia, sotto gli occhi di sua figlia che urlava, e che è la zia dei cinque bambini uccisi lì. Così sono i legami di sangue a Gaza.
Quando abbiamo incontrato Maryam Raban dopo la sua tragedia, lei aveva solo chiesto che i soldati del carro armato che avevano tirato l’obice omicida sui suoi figli comparissero davanti alla giustizia. Dalla bocca del padre di Maria, Hamdi Aman, è uscita una richiesta simile durante la nostra visita a casa sua nel quartiere di Tel Al-Hawa, alcuni giorni dopo la tragedia: portare il pilota che ha lanciato il missile a comparire davanti a un tribunale.
Domenica, Hamdi e suo zio Nabil, lo sguardo appannato, erano seduti nella stanza riservata alle famiglie, vicino al dipartimento delle cure intensive dell’ospedale pediatrico a Tel Hashomer. Maria era ricoverata nella camera vicina. Gli sforzi degli intercessori gliel’avevano fatta e quel giorno Maria stava per essere trasferita ad "Alyn", invece che a Gaza. Qualche giorno prima, quando mi ero recato in quel dipartimento, Nabil era solo al capezzale di Maria, da cui non si muoveva mai, né di giorno né di notte, per tre settimane, e l’ospedale aveva annunciato che stavano per rinviarla a Gaza.
Il padre, Hamdi, appresa telefonicamente la notizia, gridava per la disperazione. Domenica, a fianco del letto di Maria, un momento prima del suo trasferimento all’ospedale "Alyn", Hamdi era già più tranquillo. Il numero di telefono di "Ezer Mizion" [organizzazione di assistenza ai malati - NdT] e "Osserva il giorno dello shabbat per santificarlo" sono affissi nella stanza riservata alle famiglie, dove soggiornano membri di famiglie palestinesi: un nonno di Rafah che ormai da 40 giorni di seguito è al capezzale del suo nipotino che ha subito un’operazione al cuore, un padre di Tulkarem al capezzale del suo bambino e uno zio di Gaza venuto per un suo caro. E’ proibito loro, a ciascuno di loro, di uscire da questo ospedale, secondo il prezioso permesso di soggiorno che sono riusciti ad ottenere, e le loro carte d’identità sono state depositate presso l’ufficiale della sicurezza che controlla la loro presenza in permanenza. Nessuno si preoccupa di dar loro da mangiare.
Le notti, le passano su dei letti a castello nella stanza vicina. Alcuni di loro si trovano qui da mesi. Ecco Ramzi Hashash, originario del campo profughi di Balata ma abitante a Jisr al-Zarqa in Israele, che ha perduto due dei suoi figli in una misteriosa esplosione verificatasi nella casa di suo padre nel campo profughi di Balata; i due figli che gli restano sono ricoverati qui con ustioni molto gravi. L’avevamo incontrato subito dopo la tragedia, in febbraio. Da quattro mesi non si è mosso da qui, nemmeno per un istante.
I suoi figli, Amir e Roni, bruciati su tutto il corpo, circolano già nei corridoi e sul suo telefonino, il loro padre può mostrare delle foto di loro prima della tragedia ed anche dopo, il volto coperto da una maschera spaventosa. La moglie israeliana di Ramzi è qui anch’essa, dopo essere stata ricoverata qualche settimane fa in uno stato mentale grave, ed ora Ramzi non la lascia un istante sola con i loro due figli ustionati.
Anche Hamdi Aman ha disposto una modesta presentazione della sua tragedia sullo schermo del suo telefonino. Al suono di una musica araba di lutto, appaiono le sue vittime: ecco la foto di Naima, sua moglie, 27 anni, ecco loro figlio Muhand, sei anni, ed ecco Hanan, sua madre di 46 anni. E poi ecco la foto di Maria, prima e dopo. Hamdi guarda e piange, guarda e singhiozza. "Vedete: una bambina graziosa. Cos’aveva fatto?"
Ieri, voleva recarsi all’ospedale Ikhilov [a Tel Aviv] per vedere suo zio ferito, ma gli è proibito uscire dalle porte dell’ospedale di Tel Hashomer. Sua sorella ha partorito ieri a Gaza una bambina chiamata In Palestina Hanan, alla memoria della nonna. Suo fratello Mohamed gli ha già promesso che se avrà un figlio, perpetuerà la memoria del piccolo Muhand.
Una telefonata per Hamdi dallo sbarramento di Erez: Yankele dice che Hamdi deve venire immediatamente alo sbarramento, per modificare il suo permesso di soggiorno in relazione al nuovo luogo: l’ospedale Alyn. Hamdi ascolta, il volto chino, non riuscendo a decidersi. Andare ora ad Erez? Come andare? Come ritornare? Yankele cambia idea e dice che Hamdi può "intanto" recarsi a Gerusalemme "e dopo si vedrà". Il consigliere alle comunicazioni del Ministro della Difesa, Ilan Ostfeld, telefona per spiegare che da quando il Ministro è stato messo al corrente del progetto di mandare Maria a Gaza, ha ordinato di occuparsi del finanziamento della prosecuzione del trattamento in Israele, qualunque sia la durata.
Sarebbe interessante sapere se il Ministro della Difesa condivide il sentimento del suo capo di stato maggiore per il quale l’attacco è stato eseguito con "grande professionalità" e una grande "precisione di giudizio". Ora attendono l’ambulanza che verrà a prendere Maria. Preparano due enormi sacchi contenenti giochi e giocattoli che dei bravi Israeliani hanno inviato o portato. La bambina giace, immobile, nel suo letto, guardando fissamente quel che accade con occhi tristi. Un piccolo montone bianco tutto lanoso è posato sulla sua spalla.
L’ambulanza di rianimazione del Magen David Adom viaggia fino a Gerusalemme. Dentro ci sono Hamdi, Nabil e Maria e con loro l’equipe medica. Il tubo per respirare è fissato al collo di Maria, collegato direttamente alla trachea. A lato di questo tubo, penetrano altri tubi. Gli occhi della bambina sono chiusi. "Faremo di tutto per farla progredire ma ci vorrà molto tempo", spiega ad Hamdi, con un accento americano, un medico con la kippa, il Dr Eliezer Be’eri, direttore del dipartimento di riabilitazione respiratoria, al suo arrivo all’ospedale Alyn.
Hamdi e Nabil sembrano un po’ stupiti da questo nuovo ambiente. Hamdi è pieno di gratitudine, Nabil si preoccupa di sapere dove potranno passare la notte e se sarà possibile mettere una sedia vicino al letto. La direttrice dell’ospedale, la Dr Shirley Meyer, si occupa di Maria, prendendosi cura di lei con dedizione. Un bambino ebreo ortodosso, paralizzato, è nel letto vicino a Maria, nella sua nuova camera. Hamdi dice: "Poveretto". Maria osserva quel che accade attorno a lei.
"La capo infermiera si chiama Inga e risponderà a tutte le vostre richieste", spiega la direttrice, Shirley Meyer, con un forte accento australiano. L’ospedale è impressionante. Bambini e adolescenti, arabi e ebrei, colpiti dalla sorte, paralizzati e deformi circolano in sedia a rotelle nei corridoi spaziosi e lucidi. La finestra della camera di Maria da su un paesaggio di pineta come lei non ne ha mai visto. Il dottore Be’eri continua le sue spiegazioni rivolte a Hamdi e Nabil: "Possono volerci dei mesi. Vedremo come progredisce, ma ci vuole pazienza. Non è come una malattia dove lo stato del paziente migliora in qualche giorno. Abbiamo altri bambini con un problema comparabile e sono sicuro che parlerete con loro e vi capirete.
Ci vorrà molto tempo e il miglioramento sarà progressivo. Ci vorrà molto tempo prima che lei possa sedersi e ci vorrà molto tempo prima che lei possa stare in piedi per la prima volta. Per il momento, lei è incapace di parlare, incapace di emettere un suono, ma parlerà. Noi lavoreremo affinché possiate comunicare con lei. Vedrete che ci sono molti bambini qui, ma ognuno ha una storia differente. Ciò non vuol dire che lei sarà come loro".
Hamdi racconta al dottor Meyer che Maria gli ha chiesto, venerdì, proprio con le labbra, dov’era la mamma. Allora il dottor Meyer gli spiega: "Noi non sappiamo cosa sa la bambina. Domani, organizzeremo un colloquio con l’assistente sociale e lei vi spiegherà come parlarle e quando. Non è bene mentirle ma vi spiegheranno cosa dirle nel modo giusto, in base alla sua età, la sua comprensione e la persona che glielo dice. Sarebbe meglio che fosse il suo papà a dirglielo.
Apparentemente, lei non fa domande su suo fratello e la nonna. In generale, il bambino cerca innanzitutto la mamma. In generale, diciamo che la mamma è ferita molto gravemente e che si trova da qualche parte lontano, e quando il bambino diventa più forte, gli si dice la verità".