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Se l’Europa fosse un contropotere

par Benedetto Vecchi

Publie le lunedì 21 novembre 2011 par Benedetto Vecchi - Open-Publishing

La provocazione arriva a metà del seminario tenuto all’Università di Bologna. «Quello che sta accadendo in
Europa può essere considerato la messa in forma di un nuovo modello di governo politico. Stiamo cioè
assistendo al rilancio del processo di unificazione politica dopo la battuta d’arresto successiva ai
referendum francese, olandese e irlandese, che misero in evidenza il diffuso dissenso al processo avviato
dai tecnocrati di Bruxelles. Il rilancio dell’unificazione politica avviene però all’insegna di un neoliberalismo
che, nonostante la sua crisi, è ancora capace di esercitare un’egemonia nel vecchio continente». Etienne
Balibar è un europeista convinto; e tuttavia non ha mai smesso di criticare l’Unione europea rispetto a
quanto faceva nella definizione della sua costituzione. Un’attitudine critica che non viene meno neppure in
questi giorni, con la formazione dei governi tecnici in Grecia e in Italia. «Non credo perciò che l’Europa sarà
la vittima sacrificale necessaria per uscire dalla crisi del capitalismo. Più realisticamente, invece, stiamo
appunto vedendo la formazione di un modello di governo europeo che ha tutte le carte in regola per
affermarsi dentro e oltre la crisi». In Italia per una serie di seminari e per ricevere, a Genova, il premio
«Mondi migranti», il filosofo francese invita a guardare con attenzione le mutazioni in atto dei sistemi
politici nazionali e, soprattutto, sovrannazionali. «In Francia, ma anche in Italia, Germania, Inghilterra, c’è
una forte componente politica e intellettuale che vuol chiudere il discorso europeo per tornare a una
sovranità nazionale, ritenuta la trincea indispensabile per fronteggiare il potere della finanza. Una posizione
che non coglie un dato per me fondamentale: l’interdipendenza tra gli stati e la formazione di un mercato
mondiale che non tollera confini. E soprattutto un cambiamento nella costituzione materiale delle società».

Il dominio della tecnostruttura. La lettura di Balibar non pecca certo di ingenuità. Ha sempre guardato con
favore alla formazione del nuovo soggetto politico sovranazionale chiamato Europa. Una posizione in
controtendenza con quanto sosteneva la «sinistra‐sinistra» francese, e non solo. Un impegno europeista
che non ha però mai omesso il fatto che ciò che stava consumandosi era un processo di
costituzionalizzazione che non aveva nessuna legittimazione popolare. Ed è su questo aspetto che l’analisi di
Balibar attinge alla cronaca di queste settimane, cioè da quando la crisi del cosiddetto debito sovrano ha
messo in forte difficoltà l’Unione europea, nonché ha quasi decretato il fallimento della Grecia e spinto
l’Italia sulla stessa strada intrapresa dal governo di Atene. Il filosofo francese circoscrive la sua analisi alla
dimensione del Politico, ma sa che l’ospite che potrebbe presentarsi ai tavoli istituzionali è la costituzione
materiale terremotata dalla crisi economica. La formula che usa ‐ quella che sta imponendo Bruxelles è una
dittatura della tecnostruttura comunitaria ‐ deve essere quindi articolata in relazione al regime di
accumulazione capitalistico. L’unico accenno che fa su questo tema è un rinvio alle tesi del geografo
marxista David Harvey, quando afferma che la finanza è il mezzo che regola e garantisce l’accumulazione di
capitale attraverso espropriazione della ricchezza sociale. «Recentemente, su "Le Figaro", giornale della
borghesia francese, è stato pubblicato un interessante commento che fotografa con precisione ciò che sta
accadendo in Europa. La decisione di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel di imporre alla Grecia e all’Italia
politiche di austerità ha favorito l’emergere della soluzione del governo tecnico. Ad Atene e a Roma si sono
così insediate due figure di economisti come Mario Monti e Lucas Demetrios Papademos, uomini da sempre
inseriti nella rete di potere che ha come nodo Goldman Sachs. Da questo punto di vista, la situazione che si
è venuta a creare è stata una vera e propria rivoluzione dall’alto. È, questa, un’espressione che ha un’antica
storia. Per anni ho creduto che il primo ad usarla sia stato Friedrich Engels nella prefazione all’edizione del
1895 alla lotte di classe in Francia di Marx. Veniva usata per indicare processi di trasformazione sociale e
politica imposti dalle élite. Poi ho scoperto Engels l’aveva «copiata» da Bismark. Tutto questo per dire che le
rivoluzioni dall’alto ci sono sempre state e che sono servite per dare forma a modelli e dispositivi di governo
che la consuetudine non prevedeva. Bismark aveva perseguitato le organizzazioni socialiste, ma aveva
altresì imposto anche un prototipo del futuro stato sociale. In altri termini, e qui veniamo di nuovo
all’Europa novecentesca, la rivoluzione dall’alto instaura sempre uno stato d’eccezione, necessario appunto
a dare forma a un nuovo modello di governo dei rapporti sociali. Quello che sta accadendo in Europa, con la
retorica dei governi tecnici, è proprio questo: una sospensione delle regole del gioco vigenti per imporre
soluzioni alla crisi. Carl Schmitt ha parlato, in tempi passati, di dittatura commissaria, che non è però di
stampo totalitario, semmai ricorda le forme di dominio esistenti nell’antica Roma. I governi tecnici sono la
forma contemporanea di una dittatura commissaria necessaria per imporre una risposta neoliberale alla
crisi del capitalismo». La «rivoluzione dall’alto» è quindi associata all’instaurazione di stati d’eccezione a
livello nazionale è una descrizione che coglie forti tendenze che hanno caratterizzato la crisi del
neoliberalismo e del suo fratello gemello, il populismo cosiddetto postmoderno. In molti, tuttavia, hanno
spesso indicato nella tecnostruttura uno dei poteri forti che agisce in Europa già da molti anni. Una
tecnostruttura che fa parte, tuttavia, di una rete più ampia, dove agiscono imprese finanziarie, imprese
transnazionali. Insomma è una forma di governance che gestisce il contemporaneo regime di
accumulazione capitalista. Da questo punto di vista, la tecnostruttura garantisce, in Europa, sia il
funzionamento politico che la ripresa del controllo su un ciclo economico «impazzito». In altri termini, il
neoliberalismo impone lo stato d’eccezione per dare slancio al suo progetto politico continentale. Con
alcune contraddizioni, ovviamente, come ad esempio la legittimazione dei governi tecnici da parte dei
parlamenti eletti dal popolo.

La catastrofe annunciata. L’Europa riesce sì a proporre una forma di governo
del continente, ma corre il rischio di creare le condizioni del nuovo divorzio tra democrazia e capitalismo.
Etienne Balibar indica il rischio, anche avverte che ogni stato d’eccezione ha sempre esiti incerti. «È un
processo conflittuale quello in atto. Non è detto che la dittatura commissaria riesca a funzionare in questa
situazione. I tecnocrati, le élite hanno un forte potere persuasivo dalla loro parte, perché partono da un
ricatto: o si fa così o sarà il caos. La paura di una catastrofe riesce così a vincere resistenze e dubbi. Eppure
da un po’ di mesi a questa parte sui giornali della borghesia, ma anche di quelli progressisti, sono in molti a
chiedere che la sovranità popolare si esprima proprio attorno alle forme politiche e ad una eventuale
costituzione europea. Jürgen Habermas scrive da molto tempo sulla necessità di una legittimazione
popolare su quanto sta accadendo in Europa. Il suo obiettivo è di democratizzare le istituzioni europee,
chiudendo così la fase che ha visto i mercati esautorare di fatto il suffragio universale. Sono ovviamente
d’accordo con Habermas, ma penso tuttavia che vadano creati dei veri e propri contropoteri insurrezionali
che contrastino questa forma di governo che si sta affermando a livello europeo. Non penso a
all’insurrezione popolare, ma alle creazioni di istituzioni da parte dei movimenti sociali per contrastare la
tecnostruttura». Per il momento, tuttavia, i movimenti sociali agiscono spesso in una prospettiva nazionale.
Gli unici che si sono posti il problema di costituire uno spazio pubblico europeo di azione politica sono stati
gli indignados spagnoli, che chiedono sia di porre fine alla «dittatura dei mercati» che una necessaria
democratizzazione della vita pubblica. Per il resto, la scelta nazionale sembra più un ripiegamento, un segno
di debolezza che non un punto di forza. «Mi sembra utile usare la distinzione fatta dal filosofo statunitense
Richard Rortry tra campaign e mouvement. Gli indignados spagnoli sono certo un movimento sociale. Si
sono radicati nel territorio, hanno sviluppato proprie istituzioni, hanno definito regole per prendere le
decisioni, hanno infine posto con forza il nodo de i rapporti sociali di produzione. Possono averlo fatto con
linguaggi che un marxista può trovare strani, ma il loro punto di forza è la critica al regime di accumulazione
incentrato sulla espropriazione. Occupy Wall Street ha invece tutte le caratteristiche di una campagna di
sensibilizzazione attorno ad alcuni temi ‐ la povertà, la polarità tra il 99 per cento della popolazione e l’1 per
cento dei ricchi ‐ ma finora non hanno fatto il grande salto nell’azione politica. Quando penso ai
contropoteri insurrezionali penso quindi ai movimenti sociali e alla loro capacità di sviluppare proprie
istituzioni. Solo in presenza di questi contropoteri possiamo condizionare e mettere in crisi la dittatura
commissaria, che è fragile visto che la crisi economica ha impoverito le società. La partita è quindi aperta. E
il risultato finale non è stato ancora scritto».