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12 / 7 / 2011
Tanto tuonò che piovve. Messa a confronto con la potenza della finanza internazionale, la situazione dell’Italia si rivela ormai ben poco differente da quella della Grecia.

Non importa che i cosiddetti «fondamentali» dell’economia siano differenti. La finanza internazionale ha ormai la forza e gli strumenti, se lo volesse, per mettere alle corde persino la Germania. È da mesi che gli economisti lo sanno (o lo temono). Ma non lo dicono, per scaramanzia. Al massimo lo accennano: ma solo per chiedere più lacrime (le loro: di coccodrillo) e più sangue (quello di chi non ne ha quasi più).
Il problema è che non sanno che altro dire. Mario Draghi, per esempio, ha affermato che non ci sono precedenti di fallimento (default) di uno Stato da cui trarre insegnamenti. Intanto non è vero e, vista la posizione che andrà a occupare, sarebbe meglio che anche lui - e non solo lui - studiasse meglio il problema. Perché non c’è solo la Grecia, né solo gli Stati membri più deboli - i cosiddetti PIGS, a cui ora si è aggiunta anche l’Italia: PIIGS - a essere a rischio. Persino Obama teme il default: e non ha solo il problema, anche lui, dei tagli di bilancio: tra un po’ deve rinegoziare una fetta di debito e potrebbe non trovar più sottoscrittori disponibili come un tempo, poi deve confermare l’ultimo stock di moneta creata dal nulla: una cosa (che adesso si chiama quantitave easing) con cui gli Stati Uniti hanno dominato l’economia mondiale per sessant’anni, ma che non è detto gli riesca ancora. Neanche la Francia naviga in buone acque.
E la Germania, locomotiva d’Europa, vive di export verso il resto del continente e verso la Cina. Ma se metà dei paesi membri dell’Ue sarà messa alle strette la bonanza tedesca potrebbe finire. E neanche la Cina va più tanto bene: scioperi, rivolte, aumenti salariali vertiginosi, inflazione, «bolle» finanziarie. Ben scavato vecchia talpa, direbbe Marx. Se sullo sfondo non ci fosse una crisi ambientale di dimensioni planetarie. Insomma: non c’è «aria di crisi». C’è un uragano in arrivo. Per mesi gli economisti hanno trattato Tremonti come un baluardo contro il default del paese: solo perché lui sostiene di esserlo.
Ma è un ministro - il secondo della serie - che non si accorge nemmeno che la casa dove abita viene pagata, vendendo cariche pubbliche a suon di tangenti, da una persona con cui (e con la cui compagna) lui lavora da anni gomito a gomito. Affidereste a quest’uomo i vostri risparmi?
Qualcuno però ha trovato la soluzione: azzerare tutto il deficit pubblico subito. "Lacrime e sangue" ora e non tra due anni: così Perotti e Zingales sul IlSole24ore di sabato scorso. Tagliare subito pensioni, sussidi alle imprese, costi della politica; e giù con le privatizzazioni. Che originalità! Segue un bell’elenco di "roba" - aziende e servizi pubblici - da vendere subito (per decenza non hanno citato anche l’acqua). Per le manovre "intelligenti", aggiungono gli autori, non c’è tempo. Infatti la loro proposta non è una manovra intelligente. Intanto, in queste condizioni, vendere vuol dire svendere. E azzerare il deficit non è possibile, perché poi, anche se non si emettono nuovi titoli, bisognerà rinegoziare quelli in scadenza; i tassi li farà la finanza con le sue società di rating; e non saranno certo quelli di prima. Così il deficit si ricrea di continuo, in una rincorsa senza fine. Prima o dopo il default arriva. Naturalmente, per mettere alle corde pensionati, lavoratori e welfare, e svendere il paese, ci vuole il "consenso", ci avvertono gli autori. Per loro il consenso è il "coinvolgimento dell’opposizione". Forse ci sarà; ma non servirà a niente.
Perché il consenso è un’altra cosa: è il coinvolgimento delle donne e degli uomini che hanno animato l’ultima annata di resistenza nelle fabbriche, di mobilitazioni nelle piazze, di occupazione di scuole e università, di campagne referendarie, di elezioni amministrative, di processi molecolari per ricostruire una solidarietà distrutta dal liberismo e dal degrado politico, morale e culturale del paese. E’ il popolo degli indignados, che ormai, con i nomi e le proposte più diverse, ha invaso la scena anche in Italia: forse con una solidità persino maggiore, dovuta a una storia più lunga, che risale indietro nel tempo, fino al G8 di Genova; e forse anche a prima. Un popolo che quel consenso non lo darà mai.
Se per Perotti e Zingales il problema è "far presto", per altri economisti continua invece a essere la crescita: non quella che permette di ricostituire redditi e occupazione strangolati; ma quella necessaria per ricostituire un "avanzo primario" nei conti pubblici, con cui azzerare il deficit e cominciare a ripagare il debito ai pescecani della finanza internazionale; ben nascosti dietro chi ha investito in Bot qualche migliaia di euro. Questi economisti li rappresenta tutti Paolo Guerrieri sull’Unità del 10.7: "Il paese è fragile - spiega - ma la ricetta per la crescita la conosciamo tutti". E qual è? "Concorrenza, nuove infrastrutture (il Tav?), ricerca (di che?), liberalizzazione (forse voleva dire "privatizzazione") dei servizi (anche dell’acqua?). Cose che sappiamo - aggiunge - ce l’hanno consigliate tutti". Paolo Guerrieri ha appreso questa ricetta dall’economia mainstream e probabilmente continuerà a insegnarla ai suoi allievi per tutto il resto della sua vita. Pensa che per tornare alla crescita, che per lui è la "normalità", basti premere un bottone; perché il disastro attuale è solo una sua momentanea interruzione: non si sa se dovuta agli "eccessi" della finanza o all’inettitudine di Berlusconi.
Ma le cose non stanno così. In un mondo al cappio, è la finanza internazionale che fa le "politiche economiche". Quelle che vedete. Gli Stati non ne fanno più; o ne fanno solo più quel poco che la finanza gli permette di fare; a condizione di poter continuare a speculare e a mandare in malora il pianeta. Anche "la crescita", ormai, le interessa solo fino a un certo punto; se non c’è, poco male: per lo meno finché restano pensioni, salari, welfare, servizi pubblici e beni comuni da saccheggiare. Non è la prima volta nella storia che questo succede. Anche Luigi XIV, il Re Sole, diceva: dopo di me, il diluvio.
Adesso sta a noi - a tutti gli "indignati" che non accettano questo stato di cose e questo futuro - ricostruire dal basso quello che Stati e Governi non sono più in grado di promuovere; e nemmeno di concepire. Cioè il progetto di una società, di un sistema produttivo e di modelli di consumo condivisi, più equi, più sobri, più efficienti, più onesti; ma soprattutto le strade da percorrere - itinerari mai tracciati - per realizzarli. E tutto in un mondo che sarà sempre più - e a breve - cosparso di macerie: sociali, ambientali e morali. Ma anche di reazioni furibonde e, verosimilmente, violente (basta pensare all’occupazione militare della Valle di Susa per imporre il "loro" modello di crescita; o a quella della Campania per imporre la "loro" gestione dei rifiuti). Non sarà una passeggiata per nessuno.
Un programma per realizzare quel progetto oggi non c’è; e non c’è il "soggetto" - per usare un’espressione ormai logora - per elaborarlo e portarlo avanti. Non a caso. Perché è un programma irrinunciabilmente plurale; che può nascere solo dal concorso di mille iniziative dal basso, se saranno in grado di tradursi in proposte che consentano un coordinamento e se avranno la capacità di imporsi con la forza della ragione e dei numeri. Ci aiuta il fatto che per ciascuno di noi l’agire locale è sempre orientato da un pensiero globale. L’opposto di quello che fanno i Governi e le forze che li sorreggono. Provocano disastri globali in nome di convenienze dettate da un meschino pensiero locale. La disfatta delle cosiddetta governance europea non è altro.
Tra i criteri ispiratori della nostra progettualità c’è innanzitutto un salto concettuale: nell’era industriale lo "sviluppo" economico è stato promosso e diretto dall’aumento della produttività del lavoro. Che è andata talmente avanti che oggi è praticamente impossibile misurare il valore di un bene con la quantità di lavoro che esso contiene, anche se ci sono ancora - e sono tanti - dinosauri come Marchionne che lasciano credere di poter battere la concorrenza tedesca o cinese rubando agli operai dieci minuti di pausa, qualche ora di straordinario, o qualche giorno di malattia.
Tutto ciò è avvenuto a scapito dell’ambiente e delle sue risorse, saccheggiate come se non avessero mai fine. Da ora in poi, invece, si tratta di valorizzare le risorse ambientali e renderle sempre più produttive: con la condivisione, la sobrietà, l’efficienza, il riciclo, le fonti rinnovabili, la biodiversità (ecco un modo di distinguere la ricerca che vogliamo dalle vuote declamazioni in suo favore). Perché è dall’uso più accorto delle risorse che dipenderà anche la produttività del lavoro, che non può più essere misurata in giorni, ore, minuti e secondi; ma solo con il grado di cooperazione e condivisione che quell’uso saprà sviluppare.
guidoviale o5D blogspot.com
12 Luglio 2011
Messaggi
1. Uragano in arrivo, 12 luglio 2011, 19:11
Un articolo minimalista! è crisi del capitalismo tout court non una crisi finanziaria che si puo’ ancora aggiustare ,le risposte riformiste non esistono, sono pannicelli caldi,ridicole di fronte al collasso generale del sistema è crisi globale non si salva nessun paese
Una politica di rigore e sacrifici è antitetica alla continua espansione del PIL di cui il capitalismo è assolutamente dipendente .Il capitalismo è ormai una impresa fallimentare che non ha via d’uscita non guadagna per ripagare il debito e non puo’ indebitarsi all’infinito.Sarebbe quasi da pensare che, se ci fosse ancora il muro fra poco tempo ci sarebbe stato un 89 alla rovescia
Alex
1. Uragano in arrivo, 12 luglio 2011, 21:47
Verso il Day After
Come nella geniale invenzione di Ariadne auf Naxos di Hugo von Hofmannstahl e Richard Strauss due compagnie concorrenti recitano in simultanea, per venire incontro al pubblico, la tragedia di Arianna abbandonata e la farsa libertina di Zerbinetta, così sulla scena italiana attuale si esibisce una compagnia di guitti e allo stesso tempo si svolge il dramma della crisi globale e dei suoi effetti devastanti sulle politiche e le economie nazionali.
Con tutti gli equivoci e le dissonanze che ne seguono. Prendiamo l’intervista di Pisanu al Corsera del 7 luglio, che si propone, niente meno, che di delineare il futuro dell’Italia e lo fa in modo non banale, definendo curiosamente il combinato delle recenti elezioni e dei referendum «un piccolo Sessantotto». Il suo problema è quello di «garantire la governabilità e afferrare il nuovo che avanza», senza di che «il Pdl è finito e ad Alfano non resterà che calare il sipario». Per tale obbiettivo, anzi per governare tout court l’Italia con o senza Pdl, occorre –sentite, sentite– «cogliere il "piccolo Sessantotto" delle urne e governare il cambiamento con un patto di fine legislatura per il bene del Paese». Cioè, fare insieme all’opposizione la manovra quadriennale da 50 miliardi, completare le riforme, tracciare le linee fondamentali del futuro d’Italia, dopo di che «tornare a essere avversari su posizioni alternative, secondo le naturali vocazioni».
Insomma, governo tecnico subito e poi di unità nazionale, associando la sinistra alla gestione di una crisi lunga e dolorosa, anzi offrendo così ad essa la possibilità di legittimarsi definitivamente sulla linea della responsabilità nazionale, in stile Togliatti e Berlinguer non Scilipoti e Romano. Anche il neo-moderato Di Pietro ci rientrerebbe bene, mentre Berlusconi o Bossi appaiono troppo bolliti. Il modello è quello offerto da sindacati e Confindustria con la firma dell’accordo “coraggioso” sulla rappresentanza e l’esigibilità dei contratti. Se ci sono riusciti loro, che rappresentano interessi di parte, perché non ci riuscirebbero anche i partiti, che dovrebbero rappresentare solo interessi generali? E tornando sul «piccolo Sessantotto», spiega che il centrosinistra ha vinto «a sua insaputa» (come le case gratuite di Scajola e Tremonti!), dato che il vento rinnovatore, come lo spirito, ha soffiato dove ha voluto, «sorprendendo tutti i partiti e travolgendo le stesse, vecchie nozioni di destra e sinistra», parole morte ormai. «La campagna elettorale l’hanno dominata altri soggetti, con altri mezzi e altri colori: i giovani, le donne, le associazioni, i gruppi occasionali, i social network, le parrocchie... Sono loro che hanno alzato il vento, ma non è stato un fenomeno improvviso, come una perturbazione meteorologica, una tromba d’aria. No, prima c’è stata una lenta accumulazione di sentimenti, idee e pulsioni nel seno della società civile e poi, al momento opportuno, si è scatenata la loro energia».
Perfetto. Il problema allora è come captare quel vento, quei giovani volenterosi e sprovveduti («rondini che annunciano la primavera»), soggetti da non deludere per non lasciarli scivolare «in una protesta violenta». Mettere quel vento nelle vele di una fuoriuscita borghese dalla crisi attuale. In termini classici: una rivoluzione passiva.
Nella formulazione gramsciana essa unisce analisi e strategia risolvendolo in un “rapporto di forze” sempre in movimento, ma in cui prevale l’egemonia di una di esse e produce trasformazione. La rivoluzione passiva surdetermina il conflitto sociale, lo mette al lavoro per la conservazione dell’egemonia borghese, producendo sviluppo, ma in modo che le classi subalterne trovino costantemente sbarrato il passaggio dal livello sociale dello scontro a quello politico. Formula la cui validità oltrepassa le connesse e in parte datate considerazioni sul passaggio della rivoluzione proletaria dalla guerra di movimento e quella di posizione, insomma tutta la problematica degli anni ’30, per arrivare a descrivere ogni situazione in cui il rinvio dello scontro frontale e l’assimilazione di segmenti dell’avversario consente, facendone proprie alcune rivendicazioni, di annientare politicamente l’antitesi, salvaguardandone certe ragioni sociali e rendendole subalterne, passive. Una strategia la cui forza consiste nel non essere compresa dall’antagonista. Il «piccolo Sessantotto» di Pisanu, all’insaputa della sinistra.
Peggio ancora, se quest’ultima assuma programmaticamente il processo passivo di trasformazione come attiva forma di politica. In tal caso, come fenomeno complementare e perdente, emergono anche fughe in avanti (o meglio all’indietro), incongrue citazioni di passate situazioni di scontro, evocazioni arbitrarie che si fondano su illusioni di malleabile passività delle masse, esempi di sovversivismo subalterno, “sporadico e disorganico” –per citare il gramsciano quaderno VIII.
A tale ambizioso progetto ostano due ordini di difficoltà. Gestire una rivoluzione passiva significa avere gli agenti adatti e controllare le condizioni per imbrigliare e dirottare i movimenti sovversivi. Significa possedere capacità egemoniche e confrontarsi con qualcuno che le ha perse.
Per il primo aspetto imbarazza lievemente confrontare i protagonisti delle grandi rivoluzioni passive del passato –Cesare, Napoleone, Giolitti, Ford– con i soggetti contemporanei che dovrebbero corrispondergli: Capezzone con i suoi amici biscazzieri, Brunetta con la sua Titti, il riservato Letta con il loquace Bisignani, Tremonti con il fido attendente Milanese, Casini in Caltagirone, D’Alema con i finanziatori solo “successivamente” inquisiti, Alfano con il partito degli “onesti”, ecc. Non gli regge la pompa. Certo, la sbatacchiata borghesia italiana è sempre pronta a crearsi un nuovo salvatore: rottamato Berlusconi e in palese difficoltà Tremonti da Sondrio, ora si affaccia Mario Monti quale aggancio stellare all’Europa. Come spiega Zerbinetta ad Arianna per consolarla: gli amori sono grandi amori totali, ma il bello è che se ne susseguono molti e ogni nuovo amore viene a me come un Dio, als ein Gott kam jeder gegangen... E vai così!
Il secondo aspetto è quello decisivo. Bisognerebbe accontentare i “subalterni” con concessioni economico-sociali e spogliarli di iniziativa politica. Ahimé, mancano i mezzi per la prima operazione (difficile pescare senza l’esca) e la seconda appare problematica. La precarizzazione ha portato sino in fondo la frammentazione delle classi tradizionali ed è pervenuta al punto in cui comincia a generare un effetto inverso di ricomposizione rabbiosa e consapevole, di indignazione ragionata e produttiva di istituzioni del comune. Elenchiamo semplicemente: lotte dei metalmeccanici e degli studenti, referendum e no-Tav, rivolta delle donne, movimenti sui beni comuni, occupazioni per difendere e diffondere la cultura, prime resistenze alla manovra di luglio.
Popolo e società sono stati dissolti e al loro posto emerge una moltitudine plurale e ribelle, un’illegalità di massa che pone nuove regole, indifferente alle prediche sulla non violenza e agli appelli militari, insorgente e non terrorista –a piazza del Popolo come a piazza Tahrir, in Val di Susa come nell’entroterra tunisino. Ogni distinzione, cara al Pd e al partito-Repubblica, fra simpatici valligiani e torvi black bloc, pimpanti studenti studiosi e agitatori dei centri sociali, ricercatori rampicanti e professionisti dei tumulti, signore per bene e donne indecorose, si rivela una ridicola copertura della violenza poliziesca e soprattutto una sottovalutazione del carattere dirompente dell’insofferenza di massa. L’hanno voluta per risparmiare sui costi di produzione e adesso se la tengano come variabile sociale indipendente, insolvente e minacciosa. Non si illudano che sia una forza mite o un’indignazione meramente correttiva. Chi è indignato vuole cambiare le regole, costruire istituzioni nuove del comune, dunque agisce anche sul terreno istituzionale per stravolgerne le passate compatibilità, visita le sedi del potere per prenderne le misure, usa il referendum e si aggira nei boschi piemontesi, sempre con le peggiori intenzioni, ma con accortezza e respiro lungo. Alla rivoluzione passiva, che è egemonia della finanza internazionale mascherata da sviluppo, imposizione selvaggia di vincoli dal debito sovrano in nome della “stabilità”, opponiamo il rifiuto dell’indebitamento e del peggioramento delle condizioni di vita, la semplice constatazione che la “rivoluzione”neoliberista ha toccato il suo limite e, come ogni marea, è entrata in una fase di riflusso. Non sarà né un piccolo docile Sessantotto né un qualsiasi improbabile revival di scene storiche, ma una dura battaglia per convertire l’apocalittica crisi globale in una catastrofe dei padroni e dei loro dispositivi finanziari di controllo biopolitico.
12/07/2011 Augusto Illuminati
http://www.globalproject.info/it/in_movimento/Verso-il-day-after/9034
2. Uragano in arrivo, 13 luglio 2011, 11:45
la verità è che l’Italia è più vulnerabile che mai per colpa di un governo assolutamente incapace e nullafacente che nel 2008 ha negato pervicamente che ci fosse una crisi finanziaria poi, davanti all’evidenza, ha negato che coinvolgesse l’Italia poi ha sostenuto che l’Italia se la sarebbe cavata "meglio degli altri" per via del maggior risparmio delle famiglie( come se questo fosse un merito del governo)e non ha attuato alcuna politica di sviluppo ma solo di tagli selvaggi ai diritti( sanità, pensioni, scuola ecc.). Risultato? Il debito pubblico è aumentato a dismisura, ci sono 3 milioni di precari praticamente senza speranza di vedersi trasformati i loro contratti in tempo indeterminato, milioni di disoccupati senza speranza di trovare lavoro perchè non si è fatta alcuna politica di sviluppo, il risparmio delle famiglie diminuisce a vista d’occhio e la pensione sta diventando più un incubo che un sogno. Al contrario l’evasione, che ormai raggiunge i 120 miliardi di euro, è stata premiata dal solito condono( naturalmente "l’ultimo" come tutti quelli che l’hanno preceduto), i privilegi della casta non sono stati toccati, le cricche e le associazioni più o meno a delinquere si sono moltiplicate( vedi P2,P3 eP4 in attesa della 5 come nei migliori telefilm). Oggi la speculazione colpisce l’Italia e tutti a puntare il dito contro la speculazione ma se un bullo ci attacca è perchè ci perpisce più deboli, più arrendevoli degli altri ed su questo che dovremmo riflettere invece di vituperare la "malvagia" speculazione, che pure senza dubbio ha le sue colpe, e cioè sul perchè siamo deboli e perchè la speculazione non attacca, per esempio la Germania o la Francia o l’Inghilterra.Non si è fatta alcuna politica di sviluppo e ricerca nell’illusione che le cose sarebbero andate a posto in poco tempo e da sè senza alcun intervento e questo dimostra la cecità della nostra classe politica incapace di comprendere come questa crisi, benchè innescata dai famosi titoli spazzatura come negli anni "80 ( chi ricorda Michael Milken?), è in realtà sistemica e richiede un nuovo modo di produrre e vedere il futuro. In Germania lavora più gente nell’industria dei pannelli solari che nell’industria automobilistica mentre in italia sono ancora visti con sospetto e sono poco incentivati.michele
1. Uragano in arrivo, 13 luglio 2011, 22:03, di qua
Non mi sembra che molti compagni o supposti tali abbiano le idee chiare su cosa sta succedendo ed in cosa consite questo "uragano" ,Prima di tutto non si tratta di un semplice fallimento del neoliberismo ma di ben altro ,si tratta di un crollo inevitabile ,dell’intero sistema capitalista.Non esiste infatti un solo paese della sfera occidentale (e non solo visto che comunque c’è grande interdipendenza con quelli emergenti) che non sia nella cacca, Dal Giappone con un debito del 250%del PIlagli Usa che per avere un’idea rischiano un default se non aumentano il tetto del debito!!! Molti states della confederazione sono ormai in bancarotta, questo sono ora "le perle"del sistema, gli Usa sopravvivano solo perchè stampano moneta all’impazzata e perchè le agenzie di rating sono colluse ma è chiaro che non lo potranno fare ancora a lungo, Francia Germania ed Inghilterra? ma sapete che il debito publico della Francia è superiore al nostro,che l’inghilterra idem e non puo’ continuare a salvare le banche e che la Germania le ha piene compresa la Bundesbank di sopazzatura?Rimangono i cosidetti PIIGS ormai praticamente in "amministrazione controllata"con default sicuro,Paesi Arabi? Magreb? velo pietoso basta pensare alla rinegoziazazione del debito del Dubai!Arabia Saudita che ipervaluta le riserve di petrolio quando ormai nei pozzi è rimasto solo l’acqua salata che ci hanno pompato dentro.Insomma come si fà con una situazione così a parlare di fallimento di neoliberismo bisogna esser di fuori Bisogna essere di fuori per non capire che qui siamo di fronte ad un cambiamento epocale, che prescinde da P4 caste ecc ,(che poi sono sempre stati insiti quasi fondanti ,quasi corroboranti, per ilsistema capitalista)sono nella cacca tutti non solo il bal paese ,anche i piu’ virtuosi ,anche i paesi in cui il politico si dimette perchè non ha pagato i contributi alla Colf!
Da morir da ridere chi si lamenta e da la colpa alla "speculazione" quando questa era proprio il pilastro fondante, il motore del sistema.
Compagni quello che una volta davamo per sicuro ed a cui poi nessuno sembrava piu’ credere, stà ora per avvenire; il capitalismo è alla fine
Alex
2. Uragano in arrivo, 14 luglio 2011, 00:27
Si, la crisi è crisi del capitalismo "tout court" e non solo del modello neoliberista
inaugurato negli ottanta da Reagan e dalla Tatcher, su questo concordo.
Ma che "il capitalismo sia alla fine" ne dubito fortemente.
Che vuoi dire, che il capitale "si abbatte da solo" ?
E poi chi prende il potere ?
Cazzate del genere le ho sentite dire qualche anno fa, ancora da prima di questa crisi, da Toni Negri ... il capitalismo è "morente" per le sue contraddizioni insanabili che ormai esplodono ed a noi basterebbe, secondo Negri, "appropriarci dei nessi amministrativi" ( che vor dì ?) ed aspettare questa morte naturale per prendere il potere ....
Roba da manicomio ....
Radisol