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Ancora sul nuovo muro della vergogna

Publie le giovedì 10 luglio 2003 par Open-Publishing

Ha’aretz
3 Maggio 2003

Il muro dell’apartheid

Gideon Levy

Per gli israeliani è una "barriera di separazione" per i palestinesi il
"muro dell’apartheid". Per gli israeliani è un ideale, per i palestinesi una
minaccia esistenziale. Per la maggior parte degli israeliani è una soluzione
magica alla paura del terrorismo. Per i palestinesi è una paura profonda.
Una volta ancora non si capiscono, due nazioni che non afferrano il
significato delle rispettive paure.

Una barriera di separazione, un muro di protezione, di sicurezza, una guerra
contro il terrore - ma gli israeliani non hanno alcuna idea di quale sia il
costo per i palestinesi.
Dopo gli insediamenti, gli avamposti, le deviazioni stradali, le confische,
la chiusura, l’accerchiamento, la disoccupazione e il coprifuoco, ora questo
problema è piombato sulla testa di migliaia di residenti che vivono
nell’area del muro, che una volta ancora si ritrovano ad essere vittime
senza avere alcuna colpa.

Contadini i cui campi sono stati confiscati, viticoltori le cui vigne sono
state calpestate, pastori i cui pascoli sono stati distrutti, contadini i
cui pezzi di terra sono rimasti dall’altra parte del muro, uomini
disoccupati la cui ultima risorsa di sussistenza è stata ora distrutta, e
villaggi che sono stati isolati dalle loro risorse di vita.

Una barriera che è stata concepita per proteggere la vita degli israeliani è
stata messa arbitrariamente sulla loro terra che si va riducendo - no, Dio
ce ne guardi, sulla terra degli israeliani. Perché è così, davvero? Perché
non su terra israeliana? Nessuno lo ha chiesto, nessuno si è accordato con
loro, non c’è interesse neppure a discutere la possibilità di chiedere il
loro permesso. Dopo tutto, chi sono?

Il rumore dei martelli si può sentire da lontano: dovunque nel nord della
West Bank si può sentire il rumore del ferro che penetra nella roccia, un
rumore spaventoso che proviene dalle valli e dalle colline. Una flotta di
camion e di bulldozers che sradicano montagne si spostano qui e là.

Lo spettacolo è spaventoso: fra Tul Karm, Jenin e Qalqilyah il terreno è
rotto e tagliato, come una larga ferita lungo la West Bank del nord, come in
seguito ad una grave operazione. Una strada per le pattuglie, un sentiero di
sicurezza e un’infrastruttura di cemento - un’enorme cicatrice

Una brochure verde è stata pubblicata dalle organizzazioni palestinesi per
l’ambiente, "La campagna per il muro dell’apartheid" rivela le sue
statistiche: il 2% delle terre della West Bank sarà espropriato nel corso
del primo stadio, almeno 30 villaggi perderanno parte delle loro terre, 15
villaggi saranno ingabbiati fra il muro e la Green Line, 160.000-180.000
dunams [dai 40.000 ai 45.000 acri] saranno espropriati, 30 pozzi saranno
separati dai loro proprietari. E questo solo nel primo stadio, solo nella
parte nord della West Bank.

Di fronte alla catastrofe.
Un altro blocco stradale di sporcizia e di rifiuti è stato eretto questa
settimana lungo la strada d’accesso a Izbet Tabib, un piccolo villaggio ai
bordi dell’autostrada principale che sale da Qalqilyah fino a Nablus ed è
aperta solo agli ebrei, per stringere ulteriormente d’assedio il villaggio.
Solo un apparato d’occupazione potrebbe pensare ad utilizzare in questo modo
ignobile rifiuti e robaccia - riciclarli e trasformarli in enormi blocchi
stradali, orribili e crudeli. Sul sentiero sudicio che circonda il blocco
stradale, il responsabile del consiglio del villaggio gesticola dalla sua
macchina: ieri è venuto l’esercito, ha scavato, impilato schifezze per i
blocchi stradali e incidentalmente ha danneggiato l’impianto idrico del
villaggio. Ora gli abitanti non hanno acqua.

Attraversiamo una foresta di pini rimbalzando come se ci inerpicassimo sulle
rocce, cercando di raggiungere il villaggio vicino. Alla periferia di Isla
si può già vedere il muro che viene scavato alla destra della strada. Ad
Azun camion enormi provenienti da Ginevra scaricano sacchi bianchi di
farina, dono della Croce Rossa Internazionale.
Gli uomini senza lavoro della città osservano con indifferenza la farina che
viene scaricata. Non siamo a Bagdad o Kabul. Ai bordi della città i taxi si
accalcano. Non hanno che un’unica breve strada - fino al successivo posto di
blocco - e anche loro sono senza lavoro.

Nel villaggio di Jiyus, nell’edificio rinnovato del consiglio comunale, la
cartina del "muro dell’apartheid" è appesa alla parete dell’ufficio di Abdel
Ataf Khaled, del Gruppo Idrologico palestinese. Grandi, enormi macchie color
porpora tingono la mappa ad est della Green Line.

"Siamo di fronte ad una catastrofe" dice l’idrologo Khaled, l’attivista
locale nella lotta contro il muro. Lo scorso luglio, dice, è stato imposto
al villaggio un coprifuoco di un giorno intero. Poi è arrivato l’esercito,
accompagnato dai bulldozers che hanno piantato dei segnali di riferimento
sulla terra del villaggio. Gli abitanti non capivano, nessuno aveva un’idea
di quello che si stava preparando. "Adesso sappiamo che era il momento della
progettazione" dice Khaled.

Durante la prima settimana di settembre i contadini hanno trovato dei fogli
sparpagliati nei loro campi: erano ordini di esproprio. Vi era aggiunta
anche una mappa. Khaled dice che dai fogli e dalla mappa che avevano
ricevuto si capisce che lo spessore del muro sarà di 55-58 metri e che 292
dunams [circa 75 acri] lungo 4.100 metri saranno espropriati dal villaggio.
"In seguito abbiamo scoperto che saranno requisite 600 dunams lungo 6.000
metri" dice Khaled.

La settimana successiva l’esercito ha comunicato a lui e agli altri abitanti
del villaggio che si dovevano incontrare con Ramai dell’Amministrazione
Civile e fare un breve tour nella regione. "Gli abitanti sono stati
sconvolti dal tour" dice il loro rappresentante, Khaled. "Siamo contadini,
hanno detto, e quindi hanno chiesto: saremo autorizzati a lavorare le nostre
terre dall’altra parte del muro?" Rami ha risposto:"Sì" "Facilmente?"
"Facilmente" ha promesso. Ma non gli hanno creduto".

Le ultime risorse
Ci sono 3.200 abitanti a Jiyus, che appartengono a 550 famiglie. Khaled dice
che circa 300 famiglie si sostengono soltanto coltivando la terra, e circa
200 famiglie si guadagnavano la vita lavorando in Israele, cosa che non è
più possibile. Anche queste famiglie hanno provato a rimettersi a lavorare
la terra come ultima risorsa. Mi spiega che 8.600 dunams [2.150 acri] su un
totale di 12.500 dunams [circa 3.120 acri] che costituiscono l’area del
villaggio, comprese le case, sono collocate al di là del muro.
"Non sono terre sterili, si tratta di terreni coltivati" enfatizza. Ci sono
120 serre, ognuna di queste produce 35 tonnellate di pomodori (o cetrioli)
all’anno.
Anche sette pozzi che gli abitanti del villaggio si dividono sono rimasti al
di là del muro. Settecento dunams [175 acri] di orti e 500 dunams [125 acri]
di frutta e verdura e 3.000 dunams di olive ed il resto è costituito da
terre da pascolo.
L’idrologo spiega: "65.000 giorni di lavoro attendono questa comunità
[Jiyus] dall’altra parte del muro. "E che cosa succederà in estate, chiede,
per quelli la cui acqua proviene dai pozzi situati dall’altra parte? "

"Se questi campi non sono irrigati ci sarà una catastrofe ambientale. In
ogni caso, sei dei sette sentieri che portano ai campi sono già stati
sbarrati dalle Forze di Difesa israeliane - prima ancora della comparsa del
muro. Anche adesso occorrono due ore in ogni direzione per raggiungere gli
appezzamenti e si perde tutta la giornata per raggiungere il campo e
ritornare. La coltivazione della terra è un’attività di famiglia. Che cosa
succederà se ci sarà imposta una tassa di transito? Un contadino dovrà
spendere 50 shekels per raggiungere la sua terra con la famiglia?

"Ho una vicina che ha lavorato per tre anni per risparmiare un po’ di denaro
per comprare un pezzo di terra" dice " Ha comprato otto ulivi, un albero per
ogni membro della famiglia. Non poteva immaginare che il muro sarebbe stato
innalzato proprio sui suoi otto alberi. E’ stata sconvolta nel vedere i
simboli rossi sui suoi alberi, segno che indica che il muro passerà proprio
in quel punto. Ormai sono già stati sradicati. Per lei quegli otto alberi
significavano la vita. L’uomo che ha sradicato gli otto alberi non conosceva
la loro storia. Fra di noi ci sono persone per cui gli alberi sono come
figli.

"Qui alcune persone dicono che stiamo per diventare profughi. Che cosa
succederà quando il muro sarà completato e la porta chiusa? La situazione
nel villaggio è già difficile. Quest’anno abbiamo ritirato 45 bambini dalla
scuola materna perché i loro genitori non sono riusciti a pagare i 35
shekels di iscrizione mensile. A 60 famiglie è stata tagliata la corrente
elettrica perché non sono in grado di pagare il loro debito al consiglio
regionale. Che cosa accadrà dopo il muro?

Che cosa vogliono ora mentre la barriera viene costruita sotto i loro occhi?
Khaled: "Tre cose: che ci lascino accedere comodamente e facilmente ai
nostri campi, che ci consentano di restare padroni della nostra terra e che
possiamo vivere in pace e da buoni vicini con Kochav Yair e Tzur Yigal ed il
resto dei nostri vicini ebrei."
All’esterno del villaggio alcuni adolescenti si sono riuniti. Vogliono già
qualcos’altro: "Che ritorniate in Europa."

L’Amministrazione Civile ha dato questa risposta alle nostre domande:" Per
le terre che sono fisicamente confiscate per la costruzione del muro sarà
possibile ricevere denaro in risarcimento, su presentazione di un attestato
di proprietà della terra. Per quelle terre che resteranno nel versante
occidentale del muro, i proprietari o i loro incaricati avranno diritto di
accesso per poter coltivare attraverso varchi collocati lungo il percorso
del muro. L’apparato di sicurezza troverà una soluzione per il transito dei
residenti verso i loro appezzamenti di terra.

"Solo i proprietari di terre che sono materialmente danneggiate riceveranno
un risarcimento. Per ogni bene confiscato è stata emessa un’ordinanza
appropriata tradotta anche in arabo. Inoltre questi avvisi sono stati
pubblicati su ogni proprietà confiscata nei relativi quartier generali degli
Uffici di Coordinamento Unitario del Ministero della Difesa israeliano, ed è
stata inviata comunicazione all’ufficio di coordinamento palestinese. Sono
state predisposte visite presso i proprietari dei terreni qualche giorno
dopo la distribuzione dell’ordinanza e, contemporaneamente, è stata data una
spiegazione circa la proprietà da confiscare."

Al-Quds, un quotidiano palestinese indipendente, ha già scritto che i
contadini i cui campi resteranno dall’altra parte del muro, dovranno pagare
una tassa sul transito di 10 shekels per persona ogni volta che vorranno
accedere al loro campo. L’Amministrazione Civile nega, ma i contadini che
abbiamo incontrato questa settimana sarebbero assai contenti se fosse vero:
dopotutto, già adesso, che il muro non è stato ancora terminato, non hanno
l’autorizzazione per recarsi nei loro campi.

Abed Khaled un contadino di Jiyus, un padre di otto figli che ha lavorato in
Israele per quindici anni, è senza lavoro come tutti gli altri e adesso è
convinto di aver anche perso la sua terra e di essere stato privato
dell’ultima risorsa di sussistenza. "Non c’è lavoro e non c’è terra" mi ha
detto questa settimana.
"La vita è finita".

Traduzione di CV


(http://www.zmag.org/Italy/levy-muroapartheid.htm)