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Art.18, il governo: avanti con la legge Roberto Farneti

Publie le lunedì 5 maggio 2003 par Open-Publishing

Nessuna marcia indietro. Il governo intende chiudere al più presto la
partita sulla riforma del mercato del lavoro aperta con l’attacco
all’articolo 18 e sfociata poi nel patto per l’Italia. Il referendum
promosso da Rifondazione comunista per estendere il diritto al
reintegro a
tutti i lavoratori dipendenti si conferma perciò come l’unica strada
realisticamente percorribile per arrivare a contrastare questo
progetto.
L’obiettivo della destra, condiviso nei fatti da Cisl e Uil, è sempre
quello: rendere il lavoro ancora più precario e flessibile, per far
fuori il
sindacato e mettere così a disposizione dei padroni manodopera più
ricattabile e senza diritti.
Il primo passo consiste nell’approvazione della prima parte della
delega, da
ieri in votazione al Senato, che introduce nuovi istituti di
flessibilità
estrema, quali il lavoro a chiamata, e che consegna il collocamento
nelle
mani dei privati. Nonostante l’ostruzionismo dell’opposizione (sono
stati
presentati 500 emendamenti e la seduta è stata più volte interrotta per
chiedere la verifica del numero legale), il disegno di legge numero 848
dovrebbe ricevere entro stasera il via libera dell’Aula di Palazzo
Madama.
Dopo di che, fa sapere il sottosegretario al Welfare Maurizio Sacconi,
toccherà al famigerato "848 bis", che contiene la modifica dell’art.18.
«Abbiamo una comprensibile fretta a vedere approvata anche questa parte
della riforma», ha spiegato Sacconi.
Con buona pace di quanti, nel centrosinistra, avevano gridato allo
scampato
pericolo subito dopo le parole ipocritamente rassicuranti («non andremo
avanti sull’articolo 18») pronunciate a capodanno dal premier Silvio
Berlusconi. «Avete visto? Tanto rumore per nulla», dissero
nell’occasione
Rutelli e Fassino, con il chiaro intento di bacchettare la Cgil. In
realtà,
le deroghe alla tutela contro i licenziamenti ingiusti, concordate dal
ministro Maroni con Cisl e Uil, vanno avanti, anche se Sacconi
rassicura:
una volta recepite le modifiche, di articolo 18 «non se ne parlerà più
per
tre anni» neanche «se prevarranno i no al referendum».
L’esecutivo dovrà tuttavia fare i conti con la «ferma opposizione» di
Rifondazione comunista, che si appella alla Costituzione e a Ciampi:
«Una
volta indetto il referendum - spiega Gigi Malabarba, capogruppo al
Senato
del Prc - qualsiasi legge che lo riguardi può essere applicata solo nel
senso indicato dal quesito e non in direzione contraria». Questo
impedirà al
Capo dello Stato di promulgare l’848 bis prima del referendum, «mentre
se
vincerà il sì - sottolinea Malabarba - non sarà più proponibile dopo».
In allarme anche la Fiom: l’operazione del governo, afferma Giorgio
Cremaschi, rischia di «essere pericolosa come un cesto di mele
avvelenate».
Il motivo è semplice: nel disegno di legge che cancella l’articolo 18 è
stato inserito anche il finanziamento della mobilità lunga per i
dipendenti
di aziende in crisi come la Fiat. Chi si oppone alla delega, afferma
Malabarba, si potrebbe perciò trovare nella condizione scomoda di
dovere
votare contro un provvedimento atteso con ansia da quei lavoratori in
esubero «che sperano nell’aggancio alla pensione». Problema, tuttavia
che,
sostiene il senatore del Prc, potrebbe essere risolto dal governo con
un
decreto.
L’occasione per saltare a pié pari le trappole disseminate
dall’esecutivo
sulla strada di chi si oppone alla distruzione dei diritti dei
lavoratori è
rappresentata proprio dal referendum. Diventa pertanto sempre più
urgente
coagulare un forte schieramento favorevole al sì all’estensione
dell’articolo 18. La domanda che tutti si pongono è: cosa farà la Cgil?
Dopo
il passo avanti di Epifani («certo non staremo con il no»), gli occhi
sono
puntati sul dibattito interno al più grande sindacato italiano. Ieri la
Cgil, per testimoniare la propria contrarietà alla delega, ha
organizzato un
presidio simbolico davanti al Senato. «La destra vuole un mondo dove la
precarietà la fa da padrone», attacca Claudio Treves, della Cgil
nazionale.
E il referendum? «Decideremo. Io personalmente, se vado a votare, voto
sì -
rivela Treves -, anche se ritengo che l’eventuale vittoria non
risolverà il
problema degli atipici».