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Articolo 18, la partita è ancora aperta, di Alberto Burgio

Publie le lunedì 5 maggio 2003 par Open-Publishing

C’è un singolare non detto nel dibattito sviluppatosi intorno al
referendum
sull’articolo 18 da quando, giovedì scorso, la Consulta lo ha giudicato
«ammissibile». Tutti (soprattutto i contrari) discutono
sull’«opportunità»
di riaprire il discorso sulle garanzie in caso di licenziamento senza
giusta
causa in un momento in cui il governo parrebbe avere accantonato la
partita.
O sull’adeguatezza dello strumento referendario. O sulle conseguenze
che il
referendum avrà sui rappporti tra le forze di opposizione. Pochi
sembrano
invece interessati alla questione fondamentale, benché questa sia stata
al
centro del grande risveglio della Cgil la scorsa primavera e della
straordinaria manifestazione del 14 settembre in difesa della
democrazia e
dei diritti.
Che cosa ha indotto Rifondazione, i Verdi, parte della sinistra dei Ds,
la
Fiom e il sindacalismo di base a lanciare la campagna per i referendum
sociali, a cominciare da quello per l’estensione dell’articoolo 18
dello
Statuto dei lavoratori alle imprese con meno di 16 dipendenti (che -
ricordo
- sono il 91,49 per cento delle imprese italiane, per un totale di
oltre tre
milioni 137mila occupati)? Un’idea semplice e difficilmente
confutabile. Un
diritto non può - pena la negazione di se stesso - esistere solo per
alcuni
e non per altri. Una norma che tutela un bene fondamentale come la
sicurezza
del rapporto di lavoro non può valere per una parte soltanto del lavoro
dipendente e lasciarne un’altra - niente affatto trascurabile -
sostanzialmente priva di protezioni. Ma precisamente questa è la
situazione
nella quale ci troviamo oggi, una situazione in palese conflitto con
quella
sensibilità democratica e con quella consapevolezza del ruolo
essenziale dei
diritti che ha ispirato, fin nei suoi esordi, il movimento dei
«girotondi»
sino a farne uno dei protagonisti della nuova resistenza democratica
del
paese.
Sembrano convenirne anche alcuni tra i più fieri oppositori del
referendum.
Lo stesso Cofferati sostiene la necessità di «lavorare per dare
garanzie
alle persone che non le hanno» e, proprio a proposito dell’articolo 18,
afferma che il tema dei diritti è fondamentale e che la loro estensione
costituisce una questione di grande importanza. Dunque il disaccordo
non
verte sul merito della battaglia. Su che cosa ci si divide allora? Non
è
facile dirlo. Si riconosce, in linea di principio, che tutti i
lavoratori
hanno il diritto di non essere cacciati arbitrariamente dal lavoro. Ma
poi
si soggiunge - da parte dei critici del referendum - che questo diritto
non
può essere tutelato per tutti nello stesso modo. Come osservava Cesare
Salvi
sull’Unità del 18 gennaio, questa alquanto misteriosa proposizione
sembra
tanto più discutibile alla luce del fatto che in molte aziende lavorano
fianco a fianco, svolgendo identiche mansioni, dipendenti della grande
e
della piccola impresa. Con l’unica differenza che per una parte di essi
c’è
l’articolo 18, per altri no.
Leggendo alcuni interventi degli avversari del referendum, si ha la
netta
impressione che a ispirarli sia un convincimento che ha già causato
incalcolabili danni alla sinistra politica e sindacale di questo paese,
l’idea che spetti alla sinistra farsi carico delle compatibilità del
sistema
produttivo, al punto di assumere gli interessi dell’impresa come un
vincolo
indiscutibile, come l’unica «variabile indipendente» e determinante.
Per
questo - sposando la prospettiva confindustriale - la critica del
referendum
si trasforma spesso nella polemica contro le troppe «rigidità» che
l’estensione dell’articolo 18 introdurrebbe, giungendo persino ad
agitare
l’indecente argomento di un’ulteriore espansione del sommerso (quasi
che i
diritti fossero merce di scambio, e come se una realtà che incide su
oltre
un quarto del pil fosse seriamente riconducibile alla loro
salvaguardia).
Sarebbe piuttosto il caso di riflettere sui guasti che il proliferare
della
piccola impresa iperflessibile arreca all’economia italiana, per il
fatto di
esaltare la propensione dei nostri imprenditori a trarre profitto
dall’intensificazione dello sfruttamento del lavoro (innovazione di
processo) e dall’abbassamento del salario, più che dalla competizione
su
ricerca e innovazione.
Concludo queste brevi note con un ultimo argomento, più strettamente
politico. Ci si sente dire che, per quante ragioni possano militare a
favore
dell’estensione dell’articolo 18, il referendum ha tuttavia il torto di
dividere la sinistra in una fase in cui di tutto c’è bisogno meno che
di
ulteriori contrapposizioni e in un momento in cui il governo aveva
rinunciato all’offensiva contro il lavoro. Anche in questo caso, però,
il
giudizio è enunciato - come si conviene ai dogmi - senza attardarsi a
dimostrarne la fondatezza. Si potrebbe osservare che, sino a prova
contraria, vi è semmai motivo di pensare che estendere una garanzia
come
quella in discussione significa produrre ragioni di ampliamento della
base
sociale alla quale la sinistra deve rivolgere le proprie attenzioni. Lo
straordinario successo del 23 marzo e del 16 aprile è lì a
testimoniarlo al
di là di ogni ragionevole dubbio. Ma non si tratta solo di ragionamenti
astratti. Proprio ieri il Cnel ha diffuso i dati di un’indagine in base
alla
quale risulta che il lavoro occupa il primo posto nelle preoccupazioni
degli
italiani, e che la stragrande maggioranza è assolutamente contraria
alla
«flessibilità in uscita», cioè a quella libertà di licenziare che i
nostri
imprenditori continuano a considerare un primario fattore di
competitività.
Quanto alla presunta volontà del governo di cancellare dall’agenda
l’attacco
contro il lavoro (si rimprovera ai promotori del referendum di avere
«svegliato il cane che dorme»), basterà rammentare che la legge delega
sul
lavoro contiene anche altri attacchi pesantissimi alla condizione
lavorativa
e rileggere quanto Berlusconi ha dichiarato in occasione di una recente
conferenza-stampa. «Ho in mente di utilizzare il tempo della
legislatura per
far capire a chi ha creduto alla campagna della Cgil e degli altri
sindacati
che l’articolo 18 penalizza soprattutto, anzi soltanto i lavoratori».
Anche
a voler essere più ostinati dei muli, è difficile non capire che la
partita
è tutt’altro che accantonata e illudersi sulla possibilità di indurre
questo
parlamento a votare una legge che possa scongiurare il referendum
introducendo una disciplina estensiva dell’articolo 18. Certo che
dell’unità
delle sinistre il paese ha bisogno. Sarebbe scellerato negarlo. Ma come
non
vedere che proprio a questo fine la battaglia per far vincere questo
referendum è un’occasione preziosa, forse irripetibile?
*Responsabile Giustizia Prc