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Bolzaneto, anatomia di un pestaggio

Publie le martedì 23 settembre 2003 par Open-Publishing

Bolzaneto, anatomia di un pestaggio
Dopo la Diaz, ecco le conclusioni dell’indagine sui torturatori
Tutte le accuse ai 42 poliziotti della caserma genovese, dove i no global
arrestati al G8 del 2001 vennero picchiati, insultati e minacciati Per la
polizia penitenziaria è ancora notte fonda

ALESSANDRO MANTOVANI

Bolzaneto non è la scuola Diaz, i piani nobili del Viminale non c’entrano.
Ma per capire il G8 di Genova bisogna passare per la caserma del VI reparto
mobile della polizia. E sforzarsi di guardare in faccia gli sconosciuti
indiziati - cinque medici pernitenziari e 37 tra uomini e donne della ps,
della penitenziaria e dei carabinieri - raggiunti dagli avvisi di fine
indagine del 12 settembre per i reati commessi su oltre duecento no global
arrestati o fermati tra il 20 e il 21 luglio 2001. Purtroppo era tutto
vero: le dita divaricate a forza fino a «strappare» una mano, lo spray
urticante al Cs spruzzato nelle celle, calci e schiaffoni. Erano moneta
comune le ingiurie fascistoidi, le canzoncine tipo «un due tre, viva
Pinochet», le misure di rigore da campo di concentramento. E le
intimidazioni, continue e inaccettabili: qualcuno l’hanno costretto ad
«abbaiare», altri a dire «sono una merda». Molti raccontano di essere stati
costretti a firmare carte false: nei verbali c’è scritto che nessun
arrestato chiedeva di telefonare a casa, nessuno straniero voleva avvertire
il suo consolato. E gli avvocati non potevano entrare: la procura aveva
infatti disposto il «differimento dei colloqui» con i legali, a prima vista
poco legittimo ma «avallato» dal Csm.

DENUNCE «CREDIBILI».

Le orribili
testimonianze pubblicate nell’estate 2001 dai giornali (Repubblica su
tutti) e verbalizzate dagli increduli gip chiamati a convalidare gli
arresti, sono attendibili perché «provenivano - osserva uno dei pm genovesi
 da persone di nazionalità diverse, rinchiuse in carceri diverse. Non si
capisce come avrebbero fatto a mettersi d’accordo». Da persone, insiste un
altro dei sei magistrati che hanno indagato, «che sono venute qui e ci
hanno fatto mettere a verbale solo quello che ricordavano con certezza,
indicandoci anche che questo o quell’agente - soprattutto carabinieri - si
era comportato bene. Sono stati onesti anche nei riconoscimenti
individuali, difficili per il tempo trascorso, lo shock di quei momenti, le
fotografie impresentabili che ci hanno mandato...» E ancora, quelle denunce
«sono state confermate da altri testimoni o da riscontri oggettivi, non ci
siamo mai accontentati di un singolo riconoscimento, non rafforzato da
altre persone e da riscontri certi come la coincidenza del turno», avvisa
il primo pm. Per questo la vicenda ricostruita meglio aveva per teatro
l’infermeria, dove c’erano i malcapitati no global ma anche gli infermieri
Marco Poggi e Ivano Pratissoli che hanno accusato i medici.

«AGUZZINI» IN CAMICE .

I pubblici ministeri Ranieri Miniati, Francesco
Albini Cardona, Monica Parentini, Stefania Petruziello, Francesco Pinto ed
Enrico Zucca possono così affermare che il dottor Giacomo Toccafondi, 48
anni, coordinatore sanitario con la tuta mimetica, avrebbe stritolato la
mano dolorante di M.P. anziché curarlo; avrebbe detto a V.B. «alla Diaz
dovevano fucilarvi»; avrebbe puntato il manganello contro la bocca ferita
di A.J.K; avrebbe costretto D.K.O. a spogliarsi anche davanti a poliziotti
e a girarsi a destra e a sinistra. Ma Toccafondi nega tutto e continua a
lavorare nel carcere genovese di Pontedecimo. Non sarebbe stato da meno il
dottor Aldo Amenta, 34enne di Casale Monferrato: avrebbe assistito senza
fiatare alla scena in cui Alfredo Incoronato, agente napoletano della
polizia penitenziaria, prendeva a pugni L.G.L., fratturandogli una costola,
e si arebbe divertito a ricucire un’orrenda ferita alla mano di G.P.
(provocata da un agente, vedremo subito come) senza anastetizzarlo, sotto
gli occhi dei colleghi. Non si è mai trovato, invece, il ragazzo straniero
al quale avrebbero strappato un piercing senza anestesia. Alla faccia di
Ippocrate i medici - comprese le dottoresse Adriana Mazzoleni di
Alessandria, Sonia Sciandra di Sanremo e Marilena Zaccardi di Genova - sono
accusati di non aver prestato l’assistenza dovuta, di non aver segnalato
l’origine dolosa di certe ferite, di avere insultato e minacciato a
piacimento. Avrebbero calpestato il diritto alla salute, il regolamento
carcerario e soprattutto l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti
umani, che vieta «la tortura e i trattamenti inumani e degradanti». Ma per
il ministro della giustizia leghista, Roberto Castelli dovrebbero lavorare
nelle carceri fino al giudizio di cassazione.

«COMITATO D’ACCOGLIENZA».

Nel cortile di Bolzaneto c’era un «comitato
d’accoglienza», così lo chiamano i pm. «Gruppi di appartenenti alle varie
forze dell’ordine» che circondavano fin dall’arrivo i cellulari e
accoglievano gli arrestati, appena scesi, «con battute, minacce, insulti e
a volte gesti fisici», in genere «calci». Alcuni indagati hanno dovuto
ammettere che c’era un «assembramento» di colleghi.
Una volta dentro, si legge negli avvisi di fine indagine, gli arrestati
erano «costretti a rimanere, senza plausibile ragione, numerose ore in
piedi, con il volto rivolto verso il muro della cella, con le braccia
alzate, con le gambe divaricate, o in altre posizioni non giustificate,
costituendo ulteriore privazione della libertà personale» . Gli accusati
accampano «ragioni di sicurezza», i pm non ci credono perché il trattamento
si sarebbe «protratto nel tempo al di là di quanto era necessario per le
perquisizioni».

«INUMANO E DEGRADANTE».

Già questo è un reato infamante: articolo 608 del
codice penale, abuso d’autorità su arrestati, pena massima prevista trenta
mesi. Giudicando la Gran Bretagna la Corte europea dei diritti umani
stabilì, anni fa, che l’obbligo di stare in piedi contro il muro, applicato
ai cosiddetti «terroristi» nordirlandesi, è «trattamento inumano e
degradante» ai sensi della Convenzione europea dei diritti umani.
Bisognerebbe convincere l’ingegner Castelli, che vide con i suoi occhi i no
global con la faccia al muro ma dichiarò, in parlamento e non al bar
Padania, che tutto sommato «non era gravissimo» perché «i metalmeccanici
lavorano in piedi dalla mattina alla sera per 35 anni, e non si lamentano».
IL CORRIDOIO. A Bolzaneto c’è un corridoio sul quale si affacciano tutte le
stanze. A destra e a sinistra, passato l’atrio, c’erano gli uffici in cui
la Digos faceva i verbali, poi la stanza della squadra mobile, i bagni e
l’infermeria. In fondo le camere di sicurezza, le prime tre sorvegliate
dalle guardie carcerarie e le altre sei in mano alla ps e ai carabinieri.
Nel corridoio, almeno in alcuni turni dei giorni 20, 21 e 22 luglio 2001,
gli agenti si erano disposti sui lati - «quasi a formare due ali»
specificano i pm - e ogni volta che passava un arrestato ricominciavano con
gli insulti, le mazzate e i cori da stadio come «ne abbiamo ucciso uno,
dobbiamo ucciderne cento», trasparente allusione a Carlo Giuliani ammazzato
da un carabiniere. Il corridoio l’hanno descritto in molti, accusando anche
agenti in borghese e in alcuni casi indicando le divise scure che
potrebbero appartenere agli agenti del temibile Gruppo operativo mobile
della penitenziaria, sui quali tuttavia non sono emersi specifici elementi
di responsabilità.

I TORTURATORI.

E.P ha indicato l’agente penitenziaria Barbara Amadei (32
anni) come la donna che l’accompagnava e «la costringeva - scrivono i pm -
a camminare lungo il corridoio con la faccia abbassata e le mani sulla
testa e consentiva o comunque non impediva che altri agenti la colpissero
con calci, la deridessero e la minacciassero», che la chiamava «puttana» e
«troia» e la obbligava «con violenza e minaccia a chinare la testa
all’interno della turca», cioè nel cesso.
Alcuni indagati sono stati riconosciuti per specifici atti di violenza,
altri per le intimidazioni e gli insulti. Sul poliziotto genovese Massimo
Luigi Pigozzi pesa l’accusa più atroce: «Afferrando con le due mani le dita
della mano sinistra di G.A., e poi tirando violentemente le dita stesse in
senso opposto in modo da divaricarle, cagionava al citato G.A. - scrive il
pm - lesioni personali dalle quali derivava una malattia guarita in 50
giorni (ferita lacero contusa della lunghezza di cinque centimetri tra il
terzo e il quarto raggio della mano sinistra)». Massimo Salomone, ispettore
genovese 40enne, avrebbe preso a pugni D.L. insieme al collega parigrado
Gaetano Antonello; avrebbe poi cercato di costringere la francese V.V. a
firmare i verbali fasulli, le avrebbe mostrato le foto dei figli («o firmi
o non li rivedi mai più) e non avrebbe fatto una piega mentre un altro
poliziotto la picchiava alla nuca. E ancora, l’agente Daniela Cerasuolo
(penitenziaria) avrebbe «scortato» G.P. e C.G. nel corridoio, esponendole
al consueto trattamento. La collega 30enne Silvia Rossi avrebbe percosso
A.D.F. «torcendole un braccio dietro la schiena mentre l’accompagnava in
bagno». Giuliano Patrizi, sovrintendente 48enne della penitenziaria,
avrebbe preso a calci F.F. e B.L., sempre nel corridoio. Tutti, se
rispondono ai pm, respingono le accuse.

I CAPI.

Gli altri, soprattutto i capi, sono stati indagati per il ruolo che
avevano: per il codice penale (articolo 40 secondo comma) un poliziotto che
dolosamente non impedisce un reato dev’essere punito come se lo avesse
commesso. Gli avvocati comprensibilmente attaccano su questo punto «ma noi
 spiega ancora un magistrato - ci siamo accorti fin da subito che a
Bolzaneto gli abusi erano diffusi, generalizzati. Nessuno - insiste -
poteva fermarsi lì per delle ore senza trovarsi nella posizione di
intervenire per fermare le violenze. E infatti alcuni sono intervenuti. Non
ci parlino di teoremi».
Per esempio, l’allora vicecapo della Digos genovese Alessandro Perugini (42
anni) stava in un ufficio che dava sul corridoio, privo di altre porte. Era
il responsabile della caserma, vi è rimasto per intere giornate e con i pm
ha ammesso di aver fatto qualcosa per sciogliere l’«assembramento» nel
cortile, che dunque esisteva anche per lui. E’ troppo affermare che non
fece abbastanza? Lo stesso discorso riguarda Anna Poggi, commissario capo
32enne della questura di Torino, e l’ispettore della penitenziaria Antonio
Gugliotta, 43 anni, responsabile della sicurezza di Bolzaneto e in servizio
al carcere di Taranto, che ha taciuto davanti ai pm. Quanto a Perugini,
lavora ancora alla questura di Genova dove dirige la logistica e il
personale. Nonostante Bolzaneto e nonostante la vicenda arcinota del
minorenne di Ostia, preso a calci dal vicequestore quando era già
immobilizzato.

FALSARI E CARCERIERI.

Quelli dell’ufficio matricola e gli estensori e
sottoscrittori dei verbali rispondono per le false attestazioni, reato
specifico e ben definito: era bianco e scrivevano nero, per un poliziotto
non è poca cosa. Sono i signori Francesco Tolomeo e Giuseppe Fornasiere
(ispettori), Giovanni Amoroso (assistente) e Marcello Mulas (agente
scelto), tutti della penitenziaria. Altri ancora, responsabili della
vigilanza nelle camere di sicurezza, rispondono ex articolo 608 per le
misure di rigore non consentite, benché nessuno li abbia indicati per
questo o quel calcio, per questo o quell’insulto. Vale anche per i
carabinieri che parteciparono ai turni di sorveglianza dal 21 luglio: due
sottotenenti, cinque marescialli e quattro vicebrigadieri, tutti del 9°
battaglione Sardegna e nessuno accusato di particolari violenze.
Vale anche per l’ispettore di ps Aldo Tarascio, finito sui giornali perché
segretario genovese del Silp-Cgil, dunque «poliziotto democratico» e per di
più libero di parlare come sindacalista. Anche Tarascio non ha visto nulla
di strano, ha anzi detto che si occupava direttamente degli arrestati e con
tutta l’umanità di questo mondo. In tutto sono tredici della penitenziaria
più i medici, undici carabinieri e quattordici della ps. Comunque i
magistrati avvertono che qualche posizione minore potrebbe essere
archiviata senza richiesta di rinvio a giudizio.

OMBRE SUL DOTTOR SABELLA.

Per 57 degli iniziali 99 indagati l’archiviazione
è già pronta. I magistrati non hanno mai pensato di mandare a giudizio
tutti coloro - erano centinaia - che prestarono servizio a Bolzaneto. E non
hanno mai inquisito il loro collega Alfonso Sabella, il pm siciliano (ora a
Firenze) che a Genova era il capo-missione del Dap (Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria) e ha così rovinato una reputazione
costruita nella trincea dell’antimafia. Sabella, sentito come teste, ne
esce pulito perché non risulta, a differenza dei Perugini o dei Gugliotta,
che si sia trattenuto a Bolzaneto per un tempo sufficiente a vedere, capire
e intervenire. Vabbè. Tutti però ricordano che Sabella difese a spada
tratta le guardie penitenziarie, per poi trasformarsi in giudice di sé
stesso e firmare l’inchiesta interna, ovviamente assolutoria. Da due anni
il Dap tace: forse Castelli è il ministro che meritano.