Home > Chiapas: l’altro mondo
Arrivando dal mare si attraversa un paradiso tropicale, le mille tonalitá
del verde dell’estate, diafano delle erbe alte, giallo e acquatico degli
stagni (danzanti di pulci d’acqua), pisello squillante delle colline coniche,
irreali nell’azzurro, cupo dei giganteschi alberi dalle larghe braccia bianche
(mancano solo le scimmie), voli d’anatre bianche nel verde: un enorme arcobaleno
ci dá il benvenuto all’aprirsi delle grandi montagne del Chiapas; San Cristobal
flemmatica cittadina coloniale, clima primaverile d’altopiano, pigra con
le sue stradine di ciottoli, un po’ effimera col suo alveare di turisti
internazionali (italiani a branchi), ma imbattersi nel mercato é giá varcare
una soglia quasi proibita: tra i cumoli dei frutti tropicali, dei fiori,
dei legumi, i peperoncini, le noccioline, i cavoli, i pomodori, le facce
scure e chiuse degli indios, che non vogliono foto perché temono per la
loro anima, i cani randagi, le montagne sanguinolente della carne macellata
sui banconi, i nugoli di mosche, di api sui cannoli alla crema, sui bomboloni,
i festoni colorati, le madonne sotto i baldacchini con parrucche dorate
e vaporosi vestiti da sposa, e quell’odore aspro e acre di cibi sconosciuti,
dei rifiuti, dei fiori appassiti, delle pannocchie bollite, e la carne arrostita,
e i secchi di gamberetti agonizzanti al sole, l’odore penetrante e tenace
della povertá; la visita al villaggio indigeno (a pochi chilometri dalla
cittá) é un’esperienza sconcertante: il grande piazzale di cemento, un mercato
con mercanzia per terra e indie accoccolate, vestite di spesse gonne pelose,
e scialli colorati, e le lunghe lucenti trecce nere, bianche lunghissime
delle vecchie, i bambini, piccolissimi a frotte, scalzi, che assediano i
turisti spauriti, pochi casuali sbilenchi edifici tra strade polverose,
un dentista della domenica, un parrucchiere, la chiesa bianca e blu con
le sue cornici smaglianti di colori, gioiello dimenticato tra la polvere;
fuori la luce del mezzogiorno, nella chiesa buio, brusio arcano di litanie
misteriose, un mare tremolante di fiammelle ad incendiare la penombra, la
navata é vuota, nemmeno una panca, paglia in terra, famiglie di indios accoccolati
in cerchio davanti alla loro schiera di esili candeline, piantate per terra
con un rituale di gesti e invocazioni, e lasciate struggere in una danza
di fuoco, davanti alla statua dolorosa della vergine, o un cristo crocifisso,
o un santo dagli occhi imploranti, in qualche gruppo il sacerdote sciamano
suona uno zufolo e agita nell’aria il corpo bianco e inerte di un’anatra,
le vecchie bevono pepsicola e acquavite passandosi la bottiglia, che poi
deporranno ai piedi dell’altare, i turisti si addentrano tra i meandri lampeggianti
di questa mistica stalla, con passi increduli e occhi stralunati, violentando
la bisbigliante intimitá dei devoti coi loro santi, con le loro t-shirt
colorate, e gli zainetti sulle spalle, dove hanno dovuto nascondere la macchina
fotografica (qui é proibito far fotografie: si rischiano delle belle bastonate):
l’odore di resina bruciata annega tutto, e l’ipnotico tremolio delle candele
si mescola al brusio musicale delle preghiere in lingua maya, annullando
ogni domanda; sulla strada del ritorno, incrociamo un contingente dell’esercito
zapatista, diretto chi sa dove: una camionetta con bandiere in testa, e
poi camion e camion, carichi di uomini, scuri coi passamontagna calati,
immobili, in piedi sui cassoni, sfilano tra il verde della campagna, sorti
dal nulla come un’apparizione; il chiapas é qualcosa che turba, e che commuove,
qualcosa che non si puó comprendere, e che ti lascia nel cuore, una spina...