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Chiapas: l’altro mondo

Publie le lunedì 11 agosto 2003 par Open-Publishing

Arrivando dal mare si attraversa un paradiso tropicale, le mille tonalitá

del verde dell’estate, diafano delle erbe alte, giallo e acquatico degli

stagni (danzanti di pulci d’acqua), pisello squillante delle colline coniche,

irreali nell’azzurro, cupo dei giganteschi alberi dalle larghe braccia bianche

(mancano solo le scimmie), voli d’anatre bianche nel verde: un enorme arcobaleno

ci dá il benvenuto all’aprirsi delle grandi montagne del Chiapas; San Cristobal

flemmatica cittadina coloniale, clima primaverile d’altopiano, pigra con

le sue stradine di ciottoli, un po’ effimera col suo alveare di turisti

internazionali (italiani a branchi), ma imbattersi nel mercato é giá varcare

una soglia quasi proibita: tra i cumoli dei frutti tropicali, dei fiori,

dei legumi, i peperoncini, le noccioline, i cavoli, i pomodori, le facce

scure e chiuse degli indios, che non vogliono foto perché temono per la

loro anima, i cani randagi, le montagne sanguinolente della carne macellata

sui banconi, i nugoli di mosche, di api sui cannoli alla crema, sui bomboloni,

i festoni colorati, le madonne sotto i baldacchini con parrucche dorate

e vaporosi vestiti da sposa, e quell’odore aspro e acre di cibi sconosciuti,

dei rifiuti, dei fiori appassiti, delle pannocchie bollite, e la carne arrostita,

e i secchi di gamberetti agonizzanti al sole, l’odore penetrante e tenace

della povertá; la visita al villaggio indigeno (a pochi chilometri dalla

cittá) é un’esperienza sconcertante: il grande piazzale di cemento, un mercato

con mercanzia per terra e indie accoccolate, vestite di spesse gonne pelose,

e scialli colorati, e le lunghe lucenti trecce nere, bianche lunghissime

delle vecchie, i bambini, piccolissimi a frotte, scalzi, che assediano i

turisti spauriti, pochi casuali sbilenchi edifici tra strade polverose,

un dentista della domenica, un parrucchiere, la chiesa bianca e blu con

le sue cornici smaglianti di colori, gioiello dimenticato tra la polvere;

fuori la luce del mezzogiorno, nella chiesa buio, brusio arcano di litanie

misteriose, un mare tremolante di fiammelle ad incendiare la penombra, la

navata é vuota, nemmeno una panca, paglia in terra, famiglie di indios accoccolati

in cerchio davanti alla loro schiera di esili candeline, piantate per terra

con un rituale di gesti e invocazioni, e lasciate struggere in una danza

di fuoco, davanti alla statua dolorosa della vergine, o un cristo crocifisso,

o un santo dagli occhi imploranti, in qualche gruppo il sacerdote sciamano

suona uno zufolo e agita nell’aria il corpo bianco e inerte di un’anatra,

le vecchie bevono pepsicola e acquavite passandosi la bottiglia, che poi

deporranno ai piedi dell’altare, i turisti si addentrano tra i meandri lampeggianti

di questa mistica stalla, con passi increduli e occhi stralunati, violentando

la bisbigliante intimitá dei devoti coi loro santi, con le loro t-shirt

colorate, e gli zainetti sulle spalle, dove hanno dovuto nascondere la macchina

fotografica (qui é proibito far fotografie: si rischiano delle belle bastonate):

l’odore di resina bruciata annega tutto, e l’ipnotico tremolio delle candele

si mescola al brusio musicale delle preghiere in lingua maya, annullando

ogni domanda; sulla strada del ritorno, incrociamo un contingente dell’esercito

zapatista, diretto chi sa dove: una camionetta con bandiere in testa, e

poi camion e camion, carichi di uomini, scuri coi passamontagna calati,

immobili, in piedi sui cassoni, sfilano tra il verde della campagna, sorti

dal nulla come un’apparizione; il chiapas é qualcosa che turba, e che commuove,

qualcosa che non si puó comprendere, e che ti lascia nel cuore, una spina...