Home > Contro l’Impero il primato della politica
Caro direttore, prendo l’intervento apparso il 16 gennaio, che porta le firma di Bernocchi,
Cannavò, Bersani e Casarini, ad esempio dell’insieme di "luoghi comuni" o di "fuori luogo" che
andrebbero evitati nella discussione che si sta faticosamente, ma inesorabilmente, avviando nel Partito ed
anche nel movimento.
In primo luogo non credo che la questione, come è stata posta da Bertinotti (e non solo), sin dal
convegno veneziano sulle foibe, sia tacciabile di astrattezza. Siamo perfettamente convinti che la
scelta delle forme di lotta e l’impostazione organizzativa, progettuale, culturale, programmatica
di una forza politica vada collocata nel contesto storico attuale.
Proprio per questo un primo
"fuori luogo" è quello di analizzare il dualismo guerra e terrorismo sciorinando una macabra
casistica, accompagnata da un’arbitraria gradazione sulle forme si lotta armata da considerarsi legittime
o meno...
Nel corso del novecento la distinzione tra guerra civile, guerra guerreggiata e terrorismo era
palese, evidente non solo nelle forme assunte, nei soggetti coinvolti, ma anche e soprattutto nelle
finalità e nei contenuti.
La guerra preventiva, permanente e costituente è invece una categoria totalizzante. E’
combinazione di guerra tecnologica, sociale ed economica e si rappresenta come momento costitutivo di nuovi
mercati, di nuovi campi di relazione sociale, di nuovi poteri.
Al tempo stesso esprime un potenziale di distruzione di massa, indifferenziato e dispiegato che
non ha precedenti. Con una terminologia tradizionale si potrebbe dire che essa ingloba in sé, nello
stesso momento, gli elementi della guerra civile e gli elementi della guerra fra stati. Un
fenomeno la cui novità avevamo in tanti interpretato, già da molto tempo, nella cosiddetta
"libanizzazione dei conflitti", con la variante che oggi siamo precipitati in una fase di unipolarismo dominato
dagli stati uniti d’America.
Lo zapatismo in tutto questo assume esattamente la posizione di
un’alternativa: la liberazione del territorio e l’organizzazione di relazioni sociali liberate intorno
alle zone rosse (che sono occupate per lo più dalle icone del potere globale), piuttosto che
l’assalto alle zone rosse; l’accerchiamento e lo svuotamento della funzione "governativa" attraverso
l’organizzazione del consenso sociale (in forme strutturate e definite di autogoverno) e del
dissenso politico
piuttosto che la conquista del potere...
Non è in discussione la denuncia della criminalizzazione delle lotte sociali attraverso i
meccanismi repressivi e a nessuno passerebbe per la mente dire che gli scioperi selvaggi degli
autoferrotramvieri sono violenti o che lo sono le lotte dei metalmeccanici, od egli occupanti di case etc.
Nè ci stiamo occupando di "tafferugli". Ciò di cui ci stiamo occupando è esattamente il senso che
vogliamo dare al nostro agire politico, a quegli " scontri non voluti" che gli estensori della
lettera su Liberazione attribuiscono ai soggetti in lotta.
Qui sta il punto: nella storia del movimento comunista non ci sono mai stati "scontri non voluti".
L’idea che la trasformazione del mondo si rappresenta come un processo in due tempi in cui si
tratta di stappare il potere all’avversario prima, per usarlo come leva della nuova costruzione
sociale, poi, è intrinseca alla tradizione comunista novecentesca. In questo semplice dualismo, che
richiama tutti i dualismi propri dell’idealismo, compreso quello cristiano, sono contenute( e si sono
giustificate) tutte le tragedie e gli errori legati all’esperienza sovietica, e non solo.
In esso
si è consumata la fatale scissione tra fini e mezzi.
Io credo che oggi cadano proprio le ragioni storiche di questo dualismo e con esse le ragioni
politiche di ogni pratica che a quel meccanismo alludano...
La questione della presa del potere non può essere all’ordine del giorno perché il potere
globalizzato, in quanto tale, non si rappresenta più come un luogo o un nome, ma come meccanismo sociale
oggettivo. D’altra parte la dialettica crisi-guerra-rivoluzione, dimostra oggi la sua inattualità,
in quanto la guerra si presenta come semplice gestione (e riproduzione) della crisi
Interrogarsi sul metodo di lotta della nonviolenza diventa, a questo punto, un interrogativo
fondamentale sul tema della natura del potere e di una rivoluzione possibile, sulla condizione stessa
perché il movimento globale contro il liberismo diventi il soggetto in grado di praticare la
liberazione sociale...
L’apertura di una ricerca e di un dibattito sulla nonviolenza assume oggi per noi caratteristiche
di una fortissima radicalità e di una incommensurabile forza innovativa che ci porterà, lo spero
davvero, alla chiusura dei conti con il novecento e ad aprire, veramente, il sipario sul terzo
millennio, nella convinzione, soggettiva, della permanente attualità del Comunismo.