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Da Nablus a Telv Aviv -La settimana scorsa è morto mio padre

Publie le giovedì 10 luglio 2003 par Open-Publishing

Ciao, non una parola, solo un grazie ad Adriana Redaelli che ha tradotto questo messaggio di Neta.
Un abbraccio forte e...teniamoci per mano....

Luisa Morgantini

Neta Golan, è israeliana, tra le fondatrici dell’International Solidarity Movement è,
specializzata in medicina alternativa. Da tempo è impegnata in un lavoro comune con palestinesi per una
pace giusta e la fine dell’occupazione militare israeliana . Durante la seconda Intifadah insieme ad
un gruppo di pacifisti internazionali, durante l’assedio a Ramallah della sede centrale
dell’Autorità Palestinese e di Yasser Arafat, è rimasta della Muqata per un mese a protezione della vita di
Arafat. Neta attualmente vive a Nablus con il marito palestinese Nizar Kamal e la loro bambina
Nawal. Neta e Nizar che si sono conosciuti durante un gruppo di dialogo tra palestinesi e israeliani
Si sono sposati in Italia, a Gradara di cui sono cittadini onorari.

Da Nablus a Tel Aviv
Neta Golan (1)
24 giugno 2003
(International Solidarity Movement June 25, 2003)

La settimana scorsa è morto mio padre.

Ho preso Nawal, la mia bambina di due mesi e ho cercato di andare a Tel Aviv per partecipare al
funerale e stare con la mia famiglia in questo momento di dolore. Nablus, la città dove vivo, era
sotto assedio e completamente isolata. Lo è stata per la maggior parte degli ultimi due anni. I
soldati israeliani minacciavano di sparare a chiunque si avvicinasse al checkpoint. Avevo una
lettera dell’ospedale per un check-up che Nawal avrebbe dovuto fare a Ramallah, così ci siamo presentate
al checkpoint di Hawara in ambulanza. L’ambulanza si è fermata nel posto indicato. I soldati non
hanno sparato, grazie a dio, ma non si sono neppure avvicinati. Dopo circa mezz’ora il conducente
ha deciso di provare parlare con loro. E’ sceso dall’ambulanza. Hanno puntato i fucili su di lui.
E’ rientrato nell’ambulanza. Potevamo solo aspettare. Per tutto il tempo gli autobus dei coloni
diretti agli insediamenti che circondano Nablus hanno continuato a sfrecciare indisturbati.
Inghiottendo la mia rabbia ho ringraziato dio che la mia bambina non fosse malata e che nessuno
nell’ambulanza fosse in condizioni critiche. I soldati non potevano saperlo, ma anche se lo avessero
saputo non avrebbe fatto alcuna differenza.

Un anno fa stavo accompagnando un’ambulanza che doveva passare per un checkpoint di Jenin. Un
giovane con una pallottola in testa era steso sul retro dell’ambulanza e un dottore gli mandava aria
nei polmoni con un respiratore manuale. Stavo seduta vicino al conducente e non dicevo niente
mentre guardavo le condizioni del paziente deteriorarsi. So che mettersi a discutere con dei
soldati può peggiorare le situazione. Non potevo rischiare che succedesse. Mi sono calmata e ho
aspettato che uno spiraglio. Ho offerto una sigaretta al soldato. L’ha accettata. Gliene ho dato un’altra
per l’altro soldato, e poi ho azzardato:
"E’ proprio necessario che aspettiamo tanto? Questo ragazzo sta morendo".
Il soldato appariva imbarazzato.
"Dobbiamo assicurarci che non sia ricercato"
"Se scoprite che è un ricercato, potete venire a prenderlo in ospedale, non scappa di certo con
una pallottola in testa"
"Vedrò che cosa posso fare".
Quel giorno abbiamo passato un’ora e mezza al checkpoint. Un tempo sufficiente per far sì che il
danno cerebrale del giovane divenisse irreversibile. Il soldato, anche lui giovane, faceva il suo
lavoro.
Il giorno del funerale di mio padre abbiamo dovuto aspettare "soltanto" un’ora. Era la terza volta
che Nawal faceva quel viaggio da quando è nata. Malgrado il rischio che l’entrare e l’uscire
comportano sono venuta spesso perché sapevo che mio padre stava morendo.
Volevo che vedesse la sua prima nipotina, volevo dirgli che lo amavo, volevo salutarlo.
Dopo il funerale abbiamo passato una settimana con la mia famiglia israeliana.
A mio marito, che è palestinese, è proibito l’ingresso nella parte israeliana della Palestina
occupata nel 1948. E’ stato duro non averlo con me. Ma sapevo che il poter stare con la mia famiglia
era un privilegio. Continuavo a pensare alla mia amica Amal, una delle donne più belle che io abbia
mai visto. Con grandi occhi nocciola e capelli neri. La sua famiglia è stata costretta a lasciare
la Palestina per la Giordania prima ancora che lei nascesse. Suo marito Abed è della Cisgiordania.
Hanno due bei bambini. Se lei lascia la Cisgiordania per andare a trovare i suoi parenti in
Giordania, non la lasciano più rientrare. I suoi genitori hanno visto i nipotini solo in fotografia.
Suo padre era vecchio e malato, ma lei non ha potuto andarlo a trovare. E’ morto e non ha potuto
andare al funerale o a consolare sua madre. Oggi rifiuta di accettare la morte del padre. Non è la
morte con cui non riesce a venire a patti. Chi vive sotto l’occupazione deve vivere ogni giorno con
la morte. E’ il fatto di aver dovuto scegliere tra il marito e i figli e i genitori con i quali
non può vivere. I suoi capelli hanno incominciato a incanutire all’improvviso.

La politica di negare la residenza ai coniugi dei Palestinesi è una delle molte forme che la
pulizia etnica assume qui.
La politica è vecchia quanto lo stato di Israele, ma Sharon ne va particolarmente orgoglioso.
Nella sua campagna elettorale andava vantandosi di aver fermato l’ingresso dei Palestinesi in Israele
(la "grande" Israele), bloccando completamente le riunificazioni familiari. Amal non vedrà mai
più suo padre. Molte migliaia di Palestinesi condividono il suo stesso destino.

Una volta a casa a Nablus, Nawal ed io siamo ritornate alla nostra famiglia e abbiamo ripreso la
solita vita: ci svegliamo ogni notte per le esplosioni delle case che vengono distrutte, per il
rombare dei carri armati per strada e per gli spari.
Nel frattempo Nawal ha imparato a sorridere e quando sorride splende come il sole.