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Dall’India, la lezione delle strade L’incontro tra i due mondi

Publie le giovedì 22 gennaio 2004 par Open-Publishing

Bombaynostro servizio I piedi nudi degli Adivasi. I pugni alzati dei
coreani. Lo sguardo dignitoso dei Dalit. Qui «dove ogni mattina ci si
sveglia dal lato sbagliato del capitalismo», come recita uno dei tanti
striscioni che hanno riempito fino all’inverosimile i viali del social
forum, l’abbiamo toccato nelle viscere «il lato sbagliato del capitalismo»,
ovvero il suo volto brutale, l’altra faccia della nostra ricchezza,
relativa ma incommensurabile di fronte alla povertà indiana. A Seattle
l’abbiamo strillato nelle strade: non ci può essere giustizia, né diritti,
né pace, se tutto ciò è solo per pochi. Siamo tutti sulla stessa barca,
urlavano insieme sindacalisti e studenti. Qui abbiamo capito che sulla
stessa barca ci sono anche loro, le vittime di un sistema capace di
produrre abiezioni inimmaginabili.

Ora, su questa nave diretta verso un altro mondo, ci sono anche loro.
Gioiosi, determinati, festanti e decisi. Ci volevano loro a spiegarci che
"tecnologia", "progresso", "sviluppo", "modernità" sono parole vuote quando
piombano dall’alto come bombe. Ci volevano loro per renderci dolorosamente
consapevoli di quanto costano i giocattoli con cui, nel «lato giusto del
capitalismo», viene lenita la nostra infelicità esistenziale, la nostra
solitudine e la precarietà che, sempre più, risucchia silenziosamente le
nostre vite apparentemente sicure.

Perché a legarci a questa gente così diversa da noi, con problemi così
drammaticamente più impellenti dei nostri, non è semplice compassione, né
il dolore morale ogni volta che incroci lo sguardo di un bambino scalzo che
ti chiede da mangiare. Paradossalmente, malgrado la distanza, non c’è stato
niente, negli incontri di questi giorni, che assomigliasse alla
condiscendenza caritatevole dei bianchi nella loro versione migliore. Al
contrario circolava un sentimento di vicinanza impensabile. Una sensazione
 spiazzante viste le innegabili differenze - di identificazione con dei
fratelli più sfortunati ma vittime, come noi, dell’implacabile meccanismo
messo in moto dalla concentrazione del potere e delle risorse in poche,
invisibili mani.

Così, europei e giapponesi, americani e australiani, per una volta non
avevano niente da insegnare. Al contrario ascoltavano attoniti, prendendo
appunti, un indigeno appena uscito dalle foreste che spiegava, in due
parole, la finanziarizzazione dell’economia globale: «una volta arrivavano,
rovinavano la nostra terra ma costruivano una centrale, una fabbrica, un
luogo dove ci sfruttavano in cambio di qualche soldo. Adesso vengono e
distruggono, senza nemmeno darci uno straccio di lavoro». Sono stati loro,
gli abitanti dei villaggi deportati per fare posto alle dighe - un solo
centro commerciale risucchia l’energia prodotta col trasferimento forzato
di cinquemila persone - a spiegarci che l’essenza della globalizzazione
economica sta tutta in una parola: deportazione.

Deportano i governi, per
obbedire agli imperativi di un modello di sviluppo asservito agli interessi
delle corporation che ingoiano foreste, fiumi e posti di lavoro, deporta il
mercato quando, in una città povera come Bombay, fissa il costo degli
appartamenti sulle tariffe di New York, deportano i militari per fare posto
alla globalizzazione armata, ultima tappa di un sistema impazzito che può
tenere sotto controllo il caos che ha innescato soltanto con le bombe.

Ce
lo hanno spiegato i piccoli lavoratori informali asiatici e africani,
spazzati via dai supermercati, i contadini distrutti dai prezzi delle
materie prime alimentari, gli impiegati pubblici sgominati dai piani di
aggiustamento strutturale. Ma la cecità di un sistema impazzito non può che
provocare l’emergere di una resistenza tenace, che sta trovando lingue
comuni e comuni strategie, che costruisce giorno per giorno, nella pratica
e nella riflessione, alternative più umane, più giuste o anche
semplicemente più sensate per garantire un futuro possibile.

In India, forse per la prima volta, abbiamo toccato con mano il potenziale
trasformativo dei forum sociali mondiali. Non soltanto, nel senso più alto
della riflessione, la riappropriazione della possibilità di pensare, nelle
mille tradizioni politiche e nelle mille lingue del pianeta, le mille
alternative di cui viene negata continuamente l’esistenza. Ma anche, e qui
l’abbiamo visto accadere sotto ai nostri occhi, il cambiamento messo in
moto da un incontro internazionale di questa entità. A livello locale è una
reazione chimica esplosiva che dà alle comunità in lotta la visibilità
necessaria per non venire spazzate via nel silenzio dei media e,
contemporaneamente, la possibilità di riconoscersi, di stringere alleanze e
di delineare strategie comuni al di là delle contrapposizioni feroci che
modernità e tradizione alimentano ad arte. «Alla fine vinceremo noi!» hanno
gridato gli ultimi della terra. E oggi sembra davvero possibile.