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Davanti Abu Ghraib file di padri, sorelle, mogli, madri imploranti.

Publie le mercoledì 5 maggio 2004 par Open-Publishing

Il racconto dal carcere dello scandalo: mosche,
caldo, neppure una tettoia. Solo filo spinato.

ABU GHRAIB - Mosche, caldo, neppure una tettoia contro il sole o la
pioggia. Non una panca. Solo filo spinato, ordini urlati in una lingua
sconosciuta da dietro le casematte irte di mitragliatrici e protette da
barriere grigioverde di sacchetti di sabbia. E dietro il muro un figlio
che è svanito nel nulla. Tante settimane fa.
Alì Hussein Al Eghadi non le conta più. «E’ sparito negli ultimi giorni
del Ramadan, era novembre», dice. Più o meno come descrive i suoi anni.
Non li conta. «Sono nato nel 1937. Mio figlio Jafar è del 1976. Fate voi
il calcolo», sussurra con la lingua riarsa.

Le sue paure ora sono altre. «Alla televisione fanno vedere quelle
immagini vergognose. Sono terrorizzato. Al Jazira ieri annunciava che
qualche prigioniero potrebbe essere morto. Ma io non so. Non so nulla.
La cosa più terribile è non sapere, questa incertezza assoluta». Così da
novembre, almeno cinque volte la settimana, Alì prende un taxi
scalcagnato nel centro di Bagdad e percorre la ventina di chilometri per
venire al carcere di Abu Ghraib.
Attende, fa un segno ai soldati. Qualche volta gli sorridono, ma per lo
più lo ignorano. Un paio di mattine sono venuti brandendo i mitra e
l’hanno spinto via. «Ma io cosa facevo? Niente, cercavo solo di capire
dove sta mio figlio». Anche oggi se ne tornerà a casa con un pugno di
mosche.

«E’ come prima. Anzi peggio di prima», dice Aliah Mahmud, 60 anni, di
Mosul. Il 23 settembre le squadre speciali della celebre Brigata 101
americana (la stessa che ha dato la caccia a Saddam Hussein) irrompevano
in casa loro alle 2 di notte e arrestavano suo marito Salah (60 anni), e
i tre figli, Mohammad (19), Omar (21) e Shahin (24). Lei non cerca
neppure di nascondere che suo marito era un attivista del partito Ba’ath
locale. «Si occupava dell’amministrazione ed era stato poliziotto»,
racconta. Da allora il silenzio. «Nessuno mi ha mai dato una
spiegazione, non c’è mai stato un mandato di cattura. Qualche giorno
dopo alla base americana, posta nell’hotel Oberoy di Mosul, una
segretaria mi disse che erano stati trasferiti all’aeroporto locale. Poi
in dicembre la Croce Rossa mi fece sapere che erano finiti a Abu
Ghraib». E da allora? «Non li ho mai visti. Ho cercato l’aiuto di un
avvocato. Ma mi hanno detto che sono solo soldi buttati via. Se non c’è
accusa non c’è processo e se non c’è processo non è possibile
intraprendere alcuna azione legale», aggiunge.

Una donna sciita vestita completamente di nero piange in silenzio. È
accovacciata a terra. Stremata. Viene da Karbala, il viaggio le porta
via tre ore, interrotto dai posti di blocco e dalle tensioni di un Paese
sconvolto dalla guerriglia. Ogni volta che si mette in taxi è un terno
al lotto. Cerca due fratelli, arrestati 9 mesi fa. E come prova della
loro esistenza possiede solo un bigliettino stropicciato che tiene nelle
mani come fosse la cosa più preziosa al mondo. A malapena, mezzo
cancellato dal sudore e la sporcizia, si legge un nome, Leith Madhi
Latif, e il numero di matricola carceraria segnalato dalla Croce Rossa:
115939, capannone numero 5. «Oggi sono arrivata alle 10 di mattina. Ma
le guardie mi hanno detto, vieni domani alle 7. Mi prendono in giro?».
No, non la prendono in giro, secondo Sa’ad Abdallah Sa’ad, un tizio
sulla trentina che arriva da Tikrit per cercare di vedere il fratello
Hussein, di 40 anni. «Lo sappiamo tutti cosa vogliono. Soldi. Il
problema è che gli americani non vogliono trattare con noi direttamente.

E ai posti di controllo davanti alla prigione ci mettono i
collaborazionisti iracheni. Criminali. Gente senza vergogna.
Collaborazionisti che si fanno pagare sino a 300 dollari per aiutarti a
incontrare i tuoi cari. E se non paghi, niente da fare», spiega
rassegnato. Delle notizie delle torture e delle umiliazioni sessuali
quasi non vuole parlare. «Non lo voglio credere. Non ci voglio pensare.
Spero non abbiano fatto nulla a mio fratello». E tra un capannello di
donne velate si sussurra l’ennesima storia tra quelle che fioriscono
ogni giorno su questo piazzale di attesa. «Una ragazza di Beji ha fatto
giungere una lettera ai gruppi della guerriglia», raccontano. «Vi prego
sparate con i mortai sui padiglioni delle prigioniere. Gli americani le
mettono incinte. Meglio morire che la vergogna per le famiglie!».