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GOVERNO LULA: È ORA DI FORZARE IL LIMITE

Publie le mercoledì 5 maggio 2004 par Open-Publishing

di Plinio de Arruda Sampaio

Più forza al contadino
La riforma agraria è un programma del governo diretto a risolvere un problema e occorre dunque
partire dalla definizione di questo problema: un punto controverso in Brasile. Gli economisti
neoliberisti negano l’esistenza di un problema agrario, perché partono dalla definizione classica
secondo cui la questione agraria è un ostacolo alla penetrazione del capitalismo nelle campagne. (.).
Noi crediamo, invece, che la questione agraria sia il modo per riscattare la grande povertà del
popolo, perché la struttura agraria è alla base di una piramide sociale in cui un piccolo gruppo
domina su tutta la popolazione. La struttura agraria è una fabbrica di miseria. (...) Da questa
struttura dipende un modello agricolo che in Brasile viene molto esaltato, perché è ad alta produttività
e perché consente alti livelli di esportazione. Non si considera, tuttavia, che questo modello
genera miseria, crea dipendenza tecnologica e provoca un’aggressione violenta all’ambiente. Bisogna
cambiare il modello, ma perché questo avvenga è necessario che il contadino abbia più forza.
L’obiettivo del piano nazionale di riforma agraria era proprio quello di dare forza al contadino, perché
in futuro possa fare pressione per un modello più giusto, equilibrato e rispettoso della natura.
(.) Il Piano si proponeva di raggiungere un milione di famiglie in quattro anni, ciascuna delle
quali dovrebbe ricevere una media di 30 ettari (secondo la natura del terreno), per un totale di 30
milioni di ettari di terra da distribuire. Le famiglie che hanno bisogno di terra sono in realtà
molte di più: circa 4 milioni e mezzo. Ma già con un milione di famiglie insediate, a nostro
giudizio, la struttura agraria verrebbe intaccata, provocando uno squilibrio virtuoso, una reazione a
catena che permetterebbe ai contadini di acquistare forza. Tutto questo sarebbe costato 8 miliardi di
dollari e avrebbe creato 3 milioni e mezzo di posti di lavoro permanenti con un reddito pari a tre
salari minimi e mezzo a famiglia: una somma sufficiente a garantire una vita degna. Tuttavia,
questo si scontrava con la raccomandazione del Fondo Monetario Internazionale di accantonare una somma
pari al 4.25% del Pil, che è una quantità di denaro enorme. E il governo, per timore di
rappresaglie, ha deciso allora di ridurre il piano a 520mila famiglie, poco più della metà: un buon
programma, ma che non consente quella massa critica necessaria per colpire il latifondo, che è all’origine
di tutto il problema della povertà in Brasile, un’origine anche culturale, politica, sociale.

Un’economia blindata
In Brasile si è avuto un grande processo di costruzione dell’economia nazionale, accompagnato da
misure di protezione dell’industria locale. Dal 1930 al 1980 si è sviluppato nel Paese un parco
industriale completo, finché la mondializzazione neoliberista non gli ha inferto un colpo
fortissimo. Nel 1989, Lula si presentò come candidato presidenziale impegnandosi a portare avanti il
processo di costruzione nazionale. Ma Lula venne sconfitto. E iniziò così un processo di apertura
irresponsabile dell’economia brasiliana, che poi è finito nelle mani di Fernando Henrique Cardoso. Il
governo Cardoso ha blindato l’economia brasiliana in modo tale che se viene spezzato un elemento si
rischia di rompere tutto.
A mio giudizio Lula ha compiuto un errore: quello di impegnarsi in campagna elettorale a
rispettare gli accordi internazionali firmati da Fernando Henrique Cardoso. L’équipe di consiglieri di
Lula evidentemente non conosceva la profondità della blindatura operata da Cardoso. Se Lula viola
uno di questi accordi la sua credibilità internazionale cade e il denaro straniero che sostiene la
macroeconomia si dilegua.
Io credo che Lula stia sbagliando a non affrontare il Fondo Monetario Internazionale. Adotta una
posizione prudente, nel timore che, se si scontrasse con la comunità finanziaria internazionale,
subirebbe una rappresaglia che avrebbe come conseguenza l’aumento dell’inflazione e della
disoccupazione: un problema molto serio di governabilità. Ma un Paese non può vivere sotto ricatto. E credo
che il popolo darebbe un fortissimo sostegno a Lula. (.)

Forzare il limite
Ho fatto parte del governo Goulart, progettando la riforma agraria del 1964. In quella occasione
ci fu uno scontro tra il popolo e le forze interne ed esterne che volevano impedire il
cambiamento. E la parola chiave era "limite". Io ero nella posizione di forzare il limite ma con molto
timore. Anche oggi ci chiediamo se non sia stato imprudente forzare quel limite, perché a causa di ciò
abbiamo avuto 20 anni di dittatura militare. Ma è anche vero che in questi anni si è formata nella
Chiesa cattolica una coscienza liberatrice, è nato un sindacato vero come la Cut, è nato l’Mst.
Oggi la situazione sociale del Brasile è molto più avanzata che nel 1964. E il dramma è lo stesso.
(.)
La mia posizione è che sarebbe necessario forzare il limite. Potrebbero esserci conseguenze
negative, fatto che giustifica la prudenza di Lula. Il problema è nel limite di quella prudenza. Io
credo che forse dovrebbe essere meno prudente. (.)

Un vuoto preoccupante
Lula aveva suscitato enormi aspettative e queste aspettative si stanno ridimensionando. Ma per
il popolo più povero Lula è ancora una speranza. Quando un addetto delle pulizie dell’aeroporto ha
trovato una borsa con 30mila dollari e l’ha restituita, il direttore gli ha chiesto che premio
avrebbe voluto: "Vorrei stringere la mano a Lula", ha risposto. Perché una cosa è quello che penso
io, uomo politicizzato, un’altra è quello che pensano i milioni di brasiliani delle classi povere.
Io penso che un giorno questa gente si solleverà e se noi avessimo un pensiero articolato e
alternativo da offrire potremmo andargli incontro. Perché una cosa è certa: nessuna nazione può diventare
indipendente senza affrontare problemi, senza vivere momenti di crisi e di lotta. (.)
Se il popolo perdesse speranza in Lula, il vuoto sarebbe brutale. Nel 1954, quando Getulio
Vargas venne ucciso, il popolo brasiliano scese in strada. Ci riunimmo in una casa con un padre
domenicano che era stato consigliere di Giovanni XXIII al Concilio. Ed egli disse: "questo è un popolo
infantile che sta piangendo la morte di suo padre. Si lamenterà, si indignerà, protesterà, ma,
poiché non ha orientamento politico, non ha un’organizzazione capace di dare una parola d’ordine, si
stancherà e tornerà a casa. E se piove tornerà anche prima". E piovve! "Questo popolo cercherà un
nuovo padre e se non avrà risposta fra dieci anni si troverà sotto una dittatura militare". Era il
24 agosto del ’54 (il golpe contro Goulart avvenne il 31 marzo del 1964, ndt). Si sbagliò di appena
sei mesi. Oggi, se Lula non riuscisse a dare una riposta, la forza capace di orientare
politicamente il popolo esiste. E dunque il quadro istituzionale del Paese si modificherebbe, verso destra o
verso sinistra. Sarebbe un vuoto preoccupante, perché non si sa quale direzione potrebbe prendere.
(.)

Un progetto asfissiato
Il progetto Fame Zero si presenta come un programma non meramente assistenzialista: doveva
partire da un piano assistenziale per diventare poi un progetto strutturale. Si è però trovato
asfissiato per due motivi: la mancanza di risorse (quando un medico prescrive una dose di penicillina, non
serve a niente somministrare una dose di molto inferiore. Se però si volesse dare la dose giusta
ci si scontrerebbe con l’Fmi) e il tentativo di fare una cosa che è impossibile con la miseria:
quello di registrarla. Con una certa ingenuità, i responsabili del progetto, preoccupati del
clientelismo politico e della corruzione che hanno caratterizzato tanti programmi assistenziali, volevano
registrare tutto per dimostrare la loro correttezza. Ma così per un anno hanno potuto fare solo
questo.

La 25.ma ora
Ho scritto un articolo dal titolo "La 25.ma", in cui sostengo che Lula si sta avvicinando alla
24.ma ora. Alla 25.ma non c’è più niente da fare. Lula deve fare qualcosa subito. E deve essere
qualcosa di forte. Io credo che dovrebbe cambiare l’équipe economica del governo. (.) La politica è
fatta di simboli, di gesti. Il popolo aspetta un gesto e questo gesto non arriva ancora.