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Gli Aldrovandi: «Quei quattro non meritano di lavorare per lo Stato»

par Checchino Antonini

Publie le giovedì 30 gennaio 2014 par Checchino Antonini - Open-Publishing

I genitori di Federico alla vigilia del rientro in servizio di chi uccise un diciottenne in un’alba di settembre a Ferrara

«Non voglio che questi assassini restino in circolazione, non voglio pagare lo stipendio a quelli che hanno ammazzato mio, non voglio pagarlo io non voglio che lo paghi tu o nessun altro. Queste persone non meritano di lavorare per lo Stato», dice in lacrime Patrizia Moretti e racconta alle Iene, per l’ennesima volta, la storia più straziante della sua vita.

Quella dell’uccisione di suo figlio, Federico Aldrovandi, avvenuta a Ferrara all’alba del 25 settembre 2005, da parte di quattro agenti di polizia che, per quell’omicidio colposo, sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi, ne hanno scontato uno scampolo di sei mesi e dopo altri sei mesi di sospensione tre di loro sono tornati - o stanno per farlo - in servizio. Eppure il loro non è un banale omicidio colposo, come se avessero investito un pedone sulle striscie o facendo manovra. In fondo al servizio, Lino Aldrovandi, il padre di Federico, ricorderà la scia di depistaggi e bugie (c’è un altro processo che ha già prodotto condanne) che seguì quella morte fino alle sentenze e oltre.

Ma proprio mentre la famiglia, dopo tre gradi di giudizio, si aspettava un provvedimento disciplinare adeguato è arrivato il momento degli attacchi. Ad esempio dal Coisp, un sindacato che - senza curarsi di leggere sentenze e ordinanze - chiedeva, sotto l’edificio in cui lavora Patrizia, l’applicazione del decreto salva carceri per i quattro colpevoli e denuncia chiunque critichi i suoi metodi di proselitsmo e propaganda. Tra le forze dell’ordine è vivido il fastidio per una sentenza del genere. Un poliziotto, travisato dalla telecamera, riassume al reporter delle Iene il senso comune del Corpo per casi come questo, dice che i colleghi sono stati sfortunati e che Federico doveva essere fermato a schiaffi. Chi se l’aspettava che ci sarebbe rimasto? E già, nemmeno lui s’è mai preso la briga di leggersi le carte. Ecco, perciò, un piccolo promemoria.

«Non riesce il tribunale a individuare qualsivoglia elemento di meritevolezza atto a sostenere la concessione e poi la corretta fruizione, ai fini rieducativi, dei benefici penitenziari»: quattro fitte pagine per respingere le istanze di affidamento in prova, di detenzione domiciliare o di semilibertà. Così esattamente un anno fa il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha stabilito che tre dei quattro agenti che infierirono con calci, pugni e manganelli su Federico Aldrovandi, un diciottenne solo, in stato di agitazione e disarmato, avrebbero dovuto scontare sei mesi di carcere, gli altri tre anni sono indultati perché il delitto è stato commesso prima del 2006. Per il quarto la decisione era solo rinviata per un difetto di notifica. I quattro hanno operato in concorso tra loro e hanno sempre teso a rendere indistinguibili le condotte.

L’ordinanza del tribunale, presieduto da Francesco Maisto, richiama le motivazioni delle sentenze tutte concordi nel sottolineare la violenza esercitata dai quattro agenti delle volanti accorsi in via Ippodromo all’alba del 25 settembre del 2005: lo hanno percosso «anche quando il ragazzo ormai era a terra e nonostante le sue invocazioni di aiuto, fino a sovrastarlo letteralmente di botte (e anche a calci) e con il peso del corpo... fino a provocarne in definitiva la morte». I quattro sono venuti meno al dovere di «interrogarsi sull’azione dei colleghi, se del caso agendo per regolarla, moderandola». Hanno agito come un branco «anche se erano al corrente dei rischi per la salute derivanti dall’esercizio di una notevole, continuata e intensa forza».

Ecco perchè nemmeno sono state concesse loro le attenuanti: i loro difensori hanno ricordato che erano incensurati ma per il giudice è «una condizione doverosa» per chi fa un mestiere del genere. Non solo: «Pubblici ufficiali, privi di proedecenti disciplinari, sono infatti portatori di un ben diverso onere di lealtà e correttezza processuale, rispetto a un imputato comune, e avrebbero dovuto portare un contributo di verità, ad onta delle manipolazioni ordite dai superiori. Il non avere voluto squarciare il velo della cortina di manipolazioni delle fonti di prova, tessuta fin dalle prime ore ... getta una luce negativa sulla personalità degli appellanti». Con buona pace dell’«onorevole stato di servizio» vantato dalle difese. Ma i quattro anche al processo «hanno omesso di fornire un contributo di verità, da reputarsi doveroso da parte di pubblici ufficiali». Invece no, loro hanno coperto i superiori che li coprivano! «Alla gravità della colpa - scrive ancora il Tribunale - si associano gli aspetti negativi più propriamente processuali con l’assenza di concreti segni di pentimento e di consapevolezza degli errori commessi, tradottisi in palesi menzogne e ostacoli all’accertamento della verità».

Inaffidabili, dunque, senza autocontrollo né capacità di gestire adeguatamente una situazione. Ecco perché, per i giudici «non è dato di individuare una positiva evoluzione della personalità dei soggetti» che non hanno nemmeno «provato a mostrare l’effettiva comprensione della vicenda delittuosa». E autocritica o gesti simbolici, in sintesi, nemmeno a parlarne.

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