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Il ragazzo morto e il venditore
di Antonio Padellaro
Della più drammatica battaglia italiana del dopoguerra ricorderemo il viso giovanissimo di Matteo Vanzan, i suoi genitori che oltre al dolore devono fronteggiare le domande dei tg («Si può dire che è orgoglioso di suo figlio?»), il cordoglio svogliato del ministro Martino, e il collega Gasparri che incita a non fuggire dall’Iraq con il piglio virile di chi corre ad arruolarsi.
Ma più indimenticabile di tutto resta il presidente del Consiglio e del Milan, veramente raggiante allo stadio Meazza e la cui soddisfazione per lo scudetto conquistato nulla avrebbe potuto minimamente incrinare. Alla domanda se avesse pensato di disertare la splendida serata al Castello Sforzesco ha replicato con espressioni che vanno riportare testualmente, a imperituro ricordo: «Questa è un’occasione di festa, giustamente di festa. Noi siamo impegnati su tanti fronti. A Nassiriya ci sono i nostri ragazzi, sono dei militari volontari, dei professionisti, ci sono delle situazioni difficili ma sono lì per questo. Quindi, dobbiamo assolutamente fronteggiare le situazioni con fermezza». Parole che non è difficile interpretare. Mi stavo divertendo con i miei giocatori, e con tutta questa bella gente, quando arrivate voi giornalisti e cercate di guastare tutto. Io però la festa non me la faccio rovinare anche perché il fronte che m’interessa di più è quello della prossima Champions League, che l’anno prossimo, vi assicuro, torneremo a vincere. Mi dite che ci sono soldati italiani feriti a Nassiriya? Che uno è gravissimo? Mi dispiace tanto ma là ci sono voluti andare loro. Del resto, sono pagati, e anche bene, per rischiare la pelle. Quindi non ne facciamo una tragedia. E adesso scusatemi, ma devo tornare da Pirlo a parlare di campagna acquisti.
Che un sanguinoso evento bellico non abbia distolto un uomo di governo dalla celebrazione di un fasto sportivo può essere giudicata una intollerabile mancanza di pudore, dignità, sensibilità, senso dello Stato. Ma trattandosi di Berlusconi la sacrosanta indignazione civile può apparire esercizio vano oltre che ripetitivo.
Non è neanche esatto dire che in questa triste circostanza Berlusconi si sarebbe comportato più da presidente del Milan che da presidente del Consiglio. Il personaggio incarna un tale concentrato di interessi che non è mai agevole distinguere quale di essi prevalga in quel momento.
La spiegazione è un’altra. Berlusconi è prima di tutto un grande venditore e da esperto piazzista (di televisioni, di sogni, di politica) conosce perfettamente i gusti della clientela. Sa, per esempio, che mentre il calcio è un’ottima merce che richiama e appassiona milioni di appassionati, la guerra si vende malissimo e nessuno la vuole. Gli stadi sono pieni di eroi vivi. Le trincee di eroi morti. E decorare con una medaglia un goleador è molto meglio che appuntarla sul bavero di una vedova. A Berlusconi la guerra non piace perché con tutto quel sangue allontana gli elettori. Lui la guerra l’ha fatta perché glielo ha chiesto l’amico George. Colpa sua. Così come è colpa del ragazzo Vanzan se è morto. Peggio per lui che è voluto partire volontario. Se faceva il calciatore, era meglio.
Da L’Unità