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Il futuro del movimento

Publie le mercoledì 1 ottobre 2003 par Open-Publishing

Tra i meriti di Seattle e Porto Alegre c’è anche quello di aver dato vita a
un nuovo approccio nei confronti della politica importante per la nascita di
una sinistra antiliberista

VITTORIO AGNOLETTO

Il movimento nato, almeno per i media, a Seattle e a Genova, non è uno dei
tanti fenomeni sovrastrutturali, né è riducibile ad un semplice moto di
contestazione giovanile animato da sentimenti di ribellismo generazionale o
da qualche moda tanto mediatica quanto effimera. Le nostre ragioni si
fondano su solide basi strutturali: questo modello di sviluppo, infatti, non
solo non è assolutamente in grado di garantire un futuro a tutti gli oltre
sei miliardi di persone che oggi abitano il pianeta, ma non può nemmeno più
assicurare lo standard di vita, ossia i privilegi, del quale abbiamo goduto
fino ad ora noi, popolazione del ricco emisfero nord occidentale.

La logica
di dominio incontrastato del profitto, infatti, sta quotidianamente
distruggendo l’ambiente nel quale viviamo, sta scontrandosi con la
limitatezza delle risorse e sta incontrando una sempre maggior resistenza
tra quei miliardi di invisibili considerati, dal sistema finanziario,
presenze eccedenti e d’intralcio ai propri progetti. Le conseguenze di tale
situazioni sono ben rintracciabili anche nella vita quotidiana della nostra
società: aumenta sempre più il numero dei poveri, dei senza lavoro e
contemporaneamente cresce il senso d’insicurezza personale e collettivo, si
diffonde la sensazione di vivere in una cittadella fortificata ove si è
incapaci d’immaginare con serenità il proprio futuro.

Le teorie liberiste, dopo aver alimentato per vent’anni l’attesa di
magnifiche sorti progressive per l’intera umanità, dopo aver occupato gran
parte degli immaginari collettivi con le promesse di una modernità che
avrebbe fornito finalmente, come d’incanto, una risposta a tutte le nostre
aspirazioni, tanto da teorizzare la fine della storia come percorso
dialettico, conflittuale e contraddittorio, giungono ora al loro capolinea.
Prima ancora degli insuccessi collezionati in specifici campi d’azione, o su
terreni ben più ampi, com avvenuto recentemente a Cancun, la globalizzazione
liberista segna oggi la propria sconfitta nell’incapacità di porsi come
teoria universale, capace d’interpretare e di riassumere in sé le
aspirazioni collettive dell’umanità o comunque almeno di quella parte della
popolazione mondiale, in Nordamerica, Europa occidentale, Oceania e Giappone
che, costituendo il centro del mercato mondiale, rappresenta l’unico
soggetto degno di attenzione per i fautori della globalizzazione liberista.
Il ciclo economico, ma prima ancora culturale ed ideologico, avviatosi negli
anni ’80, mostra irrimediabilmente i propri limiti insormontabili.

Il
continuo ricorso alla guerra e la sua teorizzazione, come strumento
quotidiano di dominio e di garanzia della conservazione dello status quo,
rappresenta, anche agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, l’estrema
debolezza di questo sistema e la strada senza sbocco sulla quale sta
procedendo l’umanità.

La crisi irreversibile del pensiero unico è accelerata dalla proiezione sul
piano culturale delle elaborazioni direttamente collegate alle lotte e
all’impegno sviluppato, in ogni angolo del pianeta, dai movimenti sociali.
Impegno che non è più ascrivibile solo al recinto delle lotte di resistenza,
ma che assume sempre più un orizzonte progettuale ed un’ampia capacità di
elaborazione: Porto Alegre e Firenze sono state le due più importanti, ma
non le sole, università a cielo aperto delle quali si è dotato il movimento.

Da queste università non emerge la riproposizione delle grandi ideologie che
hanno animato il ventesimo secolo, almeno non nella forma nella quale queste
hanno ispirato la costruzione delle esperienze storiche sperimentate, spesso
tragicamente.

Il movimento oggi non ha una propria teoria compiuta, non contrappone al
pensiero unico liberista un’unica visione già sistematizzata e confezionata
del mondo, non è portatore di una specifica ideologia; d’altra parte non è
nemmeno un’insieme indistinto di ideali, di aspirazioni e di speranze: il
nostro pluralismo non è sinonimo di un’accozzaglia indistinta di persone che
s’incontrano casualmente. Quello che sta nascendo potremmo definirlo come un
nuovo umanesimo, in via di costruzione e destinato a restare un sistema
aperto di pensiero, pur essendo capace di delineare un orizzonte
sufficientemente preciso e nel quale sia possibile riconoscersi
collettivamente; un sistema di pensiero fondato su grandi ideali, ma
saldamente ancorato a una progettualità concreta ed in grado di raggiungere
progressivamente sintesi sempre più alte.

In questo percorso coabitano
alcuni filoni di pensiero che hanno le loro radici nelle grandi tradizioni
culturali del XIX e XX secolo, nel socialismo, nel comunismo, nel
cristianesimo, nell’ambientalismo, nel femminismo... spesso si rifanno a
percorsi eretici o comunque critici verso le esperienze storiche realizzate
in nome dell’ufficialità delle proprie ideologie.

Ma sarebbe profondamente sbagliato ridurre tutto ad una sorta di incontro
tra pensieri minoritari o a sintesi che guardano al passato come
l’elaborazione rossoverde od il pensiero cattocomunista. Sono
semplificazioni che non aiutano a comprendere l’originalità di questo nuovo
umanesimo che certamente raccoglie i punti più alti delle elaborazioni che
hanno segnato i percorsi di liberazione del genere umano, ma che non si
limita ad una semplice sommatoria, proponendo invece nuovi paradigmi
costitutivi di forme di pensiero universale.

Il nucleo centrale di questa elaborazione è la centralità dei diritti
universali indivisibili. Non più quindi i diritti di cittadinanza, elaborati
dalla rivoluzione francese per poter usufruire dei quali era vincolante la
terra di nascita, non più quindi diritti universali ossia riconosciuti in
tutto il mondo ma originati da una sola sorgente, quella del mondo
occidentale, non più diritti solo umani, superando un antropocentrismo
secondo il quale il mondo inanimato ed il mondo animale sono solo risorse da
sfruttare, ma soprattutto diritti indivisibili, non variabili dipendenti da
altre priorità, non dispensabili a percentuale a secondo dalla fase storica,
della collocazione geografica o della convenienza politica del momento.

La radicalità sociale che, insieme all’ostinata ricerca dell’unità, ha
caratterizzato fino ad oggi tutto il percorso del movimento, lungi
dall’essere frutto di estremismo o di rigidità ideologiche, trova la propria
origine nella scelta di guardare il mondo attraverso la prospettiva dei
diritti universali indivisibili. Ne derivano una pratica ed una riflessione
che si pongono in un antagonismo irriducibile con ogni forma di pensiero
liberista, più o meno stemperato da impraticabili terze vie, ossia con ogni
sistema di pensiero e di gestione della società che ponga al centro il
profitto e non la persona.

Da questo nuovo umanesimo, che si alimenta nel pluralismo delle pratiche e
delle elaborazioni di un movimento ormai realmente diffuso in tutto il
pianeta, è già nato un differente approccio alla politica. Tale approccio,
nel tempo e con le differenti caratteristiche proprie di ogni paese,
porterà, nel mondo occidentale, anche al consolidarsi di un’area politica di
sinistra antiliberista, capace di raccogliere e rispettare nelle sue
identità le realtà organizzate già oggi esistenti.

Capace di innovare anche
le forme organizzative della rappresentanza secondo quella prassi di
pluralismo, di leadership diffusa e di ricerca dell’unità che continua a
caratterizzare il percorso del movimento; un movimento che continuerà a
svolgere il proprio ruolo, evitando cortocircuiti o pericolose
trasformazioni in partito, già sperimentate senza grande successo nel
passato, ma che lungi da sviluppare una propria indifferenza verso la
politica istituzionale potrà svolgere un importante ruolo di levatrice di
una sinistra antiliberista capace di guardare in modo propositivo al futuro.