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L’APPIGLIO DI SILVIO

Publie le giovedì 20 maggio 2004 par Open-Publishing

L’appiglio di Silvio
ANDREA COLOMBO
Il cavalier Benito Mussolini, prima di spedire i soldati sotto le bombe, almeno dichiarava guerra. Il cavalier Silvio Berlusconi no. Lui manda i militari a farsi ammazzare ma pretende che non si sentano belligeranti. Spera che scambino le granate per botti di capodanno. I quali, si sa, a volte mietono vittime, come è capitato domenica a Nassiriya, senza che per questo si parli di guerra. E’ un tipo singolare, Silvio Berlusconi. Un attimo prima di partire per gli Stati Uniti fa la voce grossa e intima «una svolta netta» nella conduzione della guerra irachena. Qualche giorno prima assicurava che, svolta o non svolta, le sue truppe avrebbero continuato a occupare quel paese, rispettosamente adeguandosi ai desideri americani. Ancora lunedì scorso, dopo la battaglia di Nassiriya, confermava che obbedire a Bush, pardon «restare in Iraq», è «indispensabile». Una posizione ferma.

Ma certo non è con le minacce che Silvio Berlusconi spera di smuovere George Bush. Oggi, a Washington, farà valere ben altre considerazioni. Ricorderà al presidente americano che l’Italia è l’ultimo alleato di un certo peso rimastogli nell’Europa continentale. Illustrerà le difficoltà in cui il suo governo si dibatte, anche per colpa della fedeltà all’America. Paventerà un crollo sul modello di quello spagnolo. Implorerà quindi dall’imperatore un segnale che permetta a lui, il re vassallo della penisola, di riconquistare i suoi elettori. Sfumato il miraggio di ghigliottinare il fisco in tempo utile per condizionare il voto, l’ultimo spot vincente rimasto sul mercato è il poter affermare che, grazie alla diplomazia italiana, persino il tetragono George W. si è ammorbidito.

In altri termini, Berlusconi si presenterà oggi alla Casa Bianca, come ha fatto ieri al palazzo di vetro, con il cappello in mano. Per salvarsi ha bisogno che la potente America gli fornisca un alibi e un appiglio. E’ possibile che qualcosa riesca a strappare. La sua salvezza, in fondo, è oggi interesse prioritario della stessa America. Sarà comunque, e nella migliore delle ipotesi, poca cosa: promesse facili, garanzie a poco prezzo con il 14 di giugno per data di scadenza. Briciole, e non è neppure detto che Berlusconi riesca ad ottenerle. Anche l’imperatore texano ha i suoi guai elettorali.

Se tornerà a mani vuote, il capo della destra italiana dovrà vedersela non solo con l’opposizione, con il capo dello stato e con il Vaticano, ma con i suoi stessi alleati. Le urne sono dietro l’angolo, la carta vincente della riforma fiscale si è rivelata una bufala, l’elettorato di destra rifiuta di condividere gli ardori guerreschi del capo: ovvio che gli inquilini della Casa della libertà annusino il disastro e, per la prima volta dall’inizio dell’avventura irachena, prendano le distanze. Per ora è uno smottamento, ma se il capo non tornerà da Washington con qualche risultato in mano diventerà una frana.

Stavolta sembra che il premier non possa contare neppure sull’àncora di salvezza offertagli dall’opposizione, anche se l’ultima parola non è ancora detta. Dopo aver esitato oltre ogni limite prima di chidere il ritiro delle truppe, la Lista Prodi combatte ancora con la tentazione di stemperare la richiesta. Medita di annacquarla quanto più possibile, per non confondersi con la plebaglia pacifista e forse per camuffare l’ardita mossa agli occhi della Casa Bianca. Per Berlusconi sarebbe un miracolo insperato. Per le forze moderate del centrosinistra un colpo definitivo. Il treno che parte domani è davvero l’ultimo. Speriamo che Quercia e Margherita se ne siano accorte.